Dalle strade di Haiti ai cortili di Avignone. |
Intervista a Guy Regis [a cura di Rosaria Ruffini] Guy Regis jr. è una delle maggiori promesse del teatro francofono (www.lesfrancophonies.com/maison-des-auteurs/regis-guy-junior). Regista, attore e drammaturgo di successo, il giovane artista haitiano sarà una delle figure più in vista al prossimo Festival di Avignone. Il pubblico italiano ha avuto la fortuna di applaudirlo nell’unica data italiana di Moi fardeau inhérent, al teatro Santa Marta dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Uno spettacolo che ribalta sottilmente tutte le convenzioni sceniche, proponendo una estetica nuova intrisa di concretezza. Moi fardeau inhérent obbliga lo spettatore a guardare diversamente, a indagare il buio sotterraneo che copre la scena e che riveste il dramma di una donna che aspetta sotto la pioggia, per vendicare uno stupro. Il monologo è sostenuto con coraggio e mestiere dalla sorprendente interprete Nanténé Traoré, che accompagnerà Regis anche nel nuovo spettacolo commissionato dal Festival di Avignone. In una breve pausa di lavoro a Parigi, l’artista ci illustra il suo inusuale percorso.
Moi Fardeau è una pièce sotterraneamente femminile Scrivo perché sono indignato e credo che sia doveroso essere consapevoli di quanto accade, dell’aggressione sottile e costante che viene esercitata sulle donne. Una violenza quotidiana che diventa sempre più visibile. Quando ho scritto il testo, pensavo a un mercato che si trova a Port-au-Prince, di giorno frequentato da donne e di notte deserto. Una donna, in questo luogo, aspetta. La pièce è ombrosa, quasi interamente buia. Quando ho messo in scena il testo ho pensato per prima cosa alla luce. Mi sono messo al posto della spettatore, cercando quello che vorrei vedere. E in questa pièce, bisogna ammetterlo, ci sono molte cose che non vorrei vedere. Per questo l’attrice è spesso di spalle, negando il suo viso allo spettatore. Lavoro molto sulla suggestione. Su una risonanza quasi interiore, con il pubblico. Insisto molto sulla persistenza retinica. All’inizio dello spettacolo un grosso faro è acceso verso il pubblico, quasi accecandolo. Quando poi viene spento e l’attrice entra in scena, non si capisce se è un’immagine vera o presunta.
Si direbbe quasi un teatro dell’assenza L’assenza mi è cara. In teatro cerco l’assenza per avere una presenza, per avere delle apparizioni che mi nutrono. La parola essa stessa è già un’apparizione. Prima di cominciare uno spettacolo si spengono le luci. “E la luce fu”… ma prima ci deve essere il buio. Prima della nostra data italiana a Venezia, ci siamo detti che forse dovevamo rendere lo spettacolo più “visibile”, dal momento che il testo in francese non sarebbe stato comprensibile ai più. Dovevamo calibrare più luce per lavorare sull’aspetto visivo? Alla fine non ho voluto cambiare le cose e sono rimasto sorpreso dal pubblico italiano: privato della comprensione letterale del testo, si è immerso nello spettacolo. Ha colto a fondo l’immagine.
E il tempo… Certo il tempo. In fondo l’artista lavora sempre con le stesse cose, l’amore, il sesso e la morte. È il tempo che permette la sorpresa. Per questo uso sempre tempi molto lunghi, metto strati e livelli, proposte che si aprono autonomamente, se si aspetta. In questa pièce c’è una donna che prende il tempo. Che conosce il tempo.
Nel suo teatro colpisce la cura per i dettagli, la precisione chirurgica delle immagini Il mio rapporto con i dettagli è quasi maniacale…non riesco a immaginare il teatro diversamente. Amo l’improvvisazione ma conto i passi che fa il mio attore…Sarà per questo che amo Mejerchol’d, il teatro teatrale, il teatro di convenzione. Credo che forse potrei inserirmi in questa linea. Amo molto Dario Fo e la sua costruzione della realtà dal nulla, la sua spazialità e il suo lavoro con la maschera. Quando ero giovane a Haiti …
Lei è giovane… Ho 36 anni. Non sono giovane. Ad Haiti sono già della vecchia generazione a 36 anni, non tutti ci arrivano…Dunque quando ero giovane andavo tutti i giorni in biblioteca per leggere i maestri del teatro. Ad Haiti non passavano i loro spettacoli, ma le immagini mi facevano presagire il teatro che ho poi conosciuto in Europa. Ed è interessante vedere come in un paese come Haiti, dove non ci sono mezzi, si possa fare del teatro teatrale. Con la mia compagnia recitavamo con delle piccolissime scene mobili - delle quinte nere che l’attore portava con sé in mano - ovunque, nei mercati, nelle università. Cercavamo di andare verso le persone, di essere nella polis, ci consideravamo dei cittadini-attori, prima ancora di essere personaggi. I testi erano molto politici. Si trattava di interventi veloci, brevi. A volte eravamo invitati da un quartiere per creare uno spettacolo, una forma, su un tema da loro deciso. Il pubblico si appropria così del teatro che diventa una sorta di servizio civico.
Cosa presenterà a Avignone? De toute la terre è un lavoro sul corpo. Un corpo conteso tra il sotterraneo e lo stellare. Due donne contano le parole e le stelle, consapevoli della fortuna di essere in piedi su questa terra. E parlerà certamente del terremoto. Lo presenteremo all’aperto, in uno dei cortili storici di Avignone. |