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IL GENIUS LOCI DEL TEATRO DI EMMA DANTE

di Valentina Valentini


0. Introduzione

Questa riflessione sul teatro di Emma Dante è mossa dall’interrogarsi sui motivi del successo – di critica e di pubblico – che gli spettacoli dell’autrice palermitana riscuotono. In che misura, vorrei tentare di comprendere, tale consenso è da ascriversi alla matrice locale inscritta come tratto distintivo del suo teatro e come tale “genius loci” siciliano declini l’estetica dei suoi spettacoli. Con il concetto di genius loci riconosciamo la creazione di un luogo mentale, di un dispositivo generatore di immagini e passioni che alimentano il mondo poetico di un autore. Un paesaggio particolare con la sua geografia, clima, aria, luce che si trasforma in spazio della rappresentazione. Per Heiner Müller, ad esempio, con la sua costante riflessione sulle due Germanie prima della caduta del muro, l'est è la civiltà, l'identità, mentre l'Ovest è la barbarie, la mancanza di identità. Secondo il suo ragionamento la Germania Est corrisponde al "locale" ( e alla forza e potere del teatro), mentre la Germania dell'Ovest al globale (alla forza e al potere dei media di massa). "[…]. l'attrazione che la Germania federale esercitava sui giovani, è motivata dal fatto che nell'Est cercano "quelle radici che la rivoluzione informatica ha completamente eliminato." Come si spiega che "i testi che vengono dalla Repubblica Federale sono linguisticamente più complessi e più densi, motivo per cui offrono maggior resistenza all'americanizzazione, alla cultura dell'usa e getta, all'unidimensionalità della produzione tedesco-occidentale, anche in campo artistico" (H. Müller, 1994. p. 137).

Per Franco Scaldati “[...] a Palermo comincia tutto e non finisce niente. Ma questo non finire non riguarda soltanto Palermo – la Sicilia – il Sud: riguarda tutta l'umanità, è il suo – è il nostro – problema. Scrivere di Palermo significa scrivere dell'uomo. Io scrivo dell'uomo e del suo rapporto irrisolto con la morte, con la fine delle cose. Probabilmente è più facile farlo a Palermo, tutto questo” (F. Scaldati, 1993, p. 39). Altrove afferma: "Napoli respira la commedia, noi respiriamo la tragedia. In Sicilia, a Palermo in particolare, tutto è mistero. Noi siamo legati da una matassa che è impossibile sciogliere. La nostra è la terra delle culture sconfitte, sconfitte perciò misteriose ,perciò trionfanti. Le nostre sono verità sapienziali, non sono mai verità definite come quelle delle culture vincenti, come le verità di quelle società dello sviluppo che oggi sembrano così livellate” (ibidem, p. 33).

 

Il genius loci è dispositivo dell'attività creatrice che prende la sua peculiare forma dall'abitare quel paesaggio, quella dimora (nello stesso modo in cui il Lare, il dio tutelare, determinava il destino dell'uomo, secondo i romani).
In Ecologies of Theatre (1996), Bonnie Marranca analizza i mondi possibili creati dal teatro come un ambiente, un organismo che interagisce con un sistema culturale (estetico), in cui "paesaggio, mito e memoria creano e testimoniano al tempo stesso di tutte le storie della vita". In che termini si inscrive nel teatro di Emma Dante il genius loci di Palermo (aldilà dell'approccio etno-antropologico) e come si configura il rapporto fra globale (pratiche e estetiche del teatro contemporaneo) e locale, ovvero come questo tratto riesce a rileggere e variare, riconfigurare il linguaggio della scena contemporanea?
Emma Dante enuncia e conferma il legame che il suo teatro ha con la Sicilia e con la sua infanzia: “Il mio teatro è sempre legato a Palermo, una città teatrale, eloquente ma fatta di gesti, sguardi, ammiccamenti, per questo anche il mio teatro si fa sempre più silenzioso. Palermo è una cerimonia, ha un fascino misterioso che è lo stesso che appartiene ai miei spettacoli. Il mio teatro si confronta con il contesto in cui nasce dunque con la contemporaneità. Usa molta iconografia cattolica perché questa fa parte dalla cultura dell’Italia. Crocifisso, processioni, litanie appartengono alla mia infanzia. Il teatro è legato all’infanzia, al passato, alla memoria. Ho iniziato a fare teatro per rielaborare il lutto dovuto alla perdita di mia madre e di mio fratello, non per superare ma per ricordare nella sofferenza. Il teatro infatti non è intrattenimento ma qualcosa di mostruoso che invade. Sotto la solarità del mio teatro come della città in cui nasce, si percepisce l’ombra, la sofferenza” (R. Di Giammarco).

Senza indietreggiare fino a Verga e a Pirandello, è innegabile che la Sicilia rappresenti – nel cinema come nella letteratura, nel teatro, nella musica e non ultimo nella moda (Dolce e Gabbana), molto di più che una fonte di ispirazione: offre una lingua, un paesaggio, vissuti, storie, tipi, ritmi, gesti, posture del corpo. Come questo patrimonio, questa densa materia espressiva viene riconfigurato e trasfigurato nel teatro di Emma Dante.

 

1. Temi ricorrenti

Nei suoi spettacoli la famiglia è un topos raffigurato come un apparato che produce violenza. In Carnezzeria la violenza avviene all’interno del nucleo familiare (Nina stuprata dai fratelli ) che da luogo d’affetto e protezione diventa l’origine del male. Ne Le Pulle, abbondano le storie di violenza quotidiana di cui le pulle-trans sono protagoniste (Moira venduta a dodici anni dalla madre al suo primo cliente, Rosi stuprata con un bastone).

La famiglia, in Cani di bancata coincide con la mafia e con la religione cattolica, un insieme in cui la violenza perpetuata dalla mafia sugli adepti assume le fattezze di Mammasantissima con chiaro riferimento alla vergine, madre sopra tutte le madri. I riti cattolici sono materia ricorrente in tutti gli spettacoli di Emma Dante e si manifestano negli addobbi, negli oggetti di scena, nella creazione delle situazioni in cui si svolge l’azione. In Carnezzeria in scena compare la luminaria delle feste, oltre che una croce nera sul ventre di Nina; Vita mia è allestita come una veglia funebre con il catafalco, i ceri e la croce. In Cani di bancata la madre mafia e i suoi adepti mangiano ad un banchetto che evoca l’ultima cena, con i santini dell’immacolata Concezione in proscenio. All’interno della famiglia il sesso, rappresentato come violenza del maschio nei confronti della femmina, assume connotazioni morbose che ribaltano il dolore in piacere, il sopruso in consenso , la bara (in Vita mia) in letto nuziale su cui la madre, smessi gli abiti del lutto e indossati abiti festivi di color rosso, si immola,come sposa.
All’interno di questo sistema di rapporti, quale il ruolo delle figure femminili nel teatro di Emma Dante? In tutti i suoi spettacoli la donna è una figura negativa nel suo essere sottomessa all’uomo e alla morale comune; accetta senza ribellione la violenza, portatrice di sentimentalismo, perdente, nella maggior parte dei casi, ingenua fino all’inverosimile, priva della coscienza della propria condizione subalterna. Ad eccezione della Mammasantissima di Cani di bancata, dove “La mafia è una femmina-cagna che mostra i denti prima di aprire le cosce, è una figura che subisce senza riuscire a trasformare il patimento in sconfitta tragica Ne Le Pulle, la presenza della figura femminile è affidata in modo ambiguo alle bambole-puttane, le pulle, in origine trans e travestiti che incarnano lo spirito di una femminilità eccessivamente esteriorizzata e stereotipata, attraverso trucchi esagerati, riti di maquillage collettivi, profumi, parrucche dai colori acidi, piume di struzzo, caratteristiche femminili portate all’eccesso. A fine spettacolo, le fate, con una magia, trasferiscono nelle pulle (attraverso un atto magico che evita dunque operazioni e scomuniche ecclesiastiche) la loro anima femminile trasformandole in un ibrido a metà tra i due sessi. L’omosessualità, il travestitismo in questo spettacolo introduce una prospettiva gender studies (Emma Dante compare in scena prima in abiti femminili e poi maschili), per la riformulazione di ciò che è genere.

 

2. Dispositivo compositivo

Se questo è il mondo che il teatro di Emma Dante sottopone all’attenzione dello spettatore, passiamo ad analizzare l’aspetto drammaturgico, le forme in cui i linguaggi della scena si compongono nello spettacolo. La polarità positivo/negativo (vita-morte, amore-violenza, sacro e profano, religione e delitto mafioso), è il dispositivo costruttivo degli spettacoli di Emma Dante. Ne Le Pulle i codici cromatici della scena concorrono ad esprimere l’ossimorico accostamento tra amore e violenza: il fondale rosso e tre sipari rossi su ogni lato della scena (l’interno di un bordello), sono veicolo di senso. In Carnezzeria, la condizione di Nina, la sorella incinta priva di nozze, è motivo di vergogna per i tre fratelli, colpevoli di abuso e incesto. La cerimonia nuziale è l’unica via per riacquisire l’onore e il rispetto. La polarità corre fra apparenza, valore sociale della cerimonia nuziale e corpo-sesso-morbosità della sfera erotica-sessuale in cui le relazioni familiari sono implicate, fra il bianco di una verginità consumata da una non candida sposa e il suo destino di morte evidenziato dalla croce nera sul vestito bianco. Nina è un personaggio di un candore irreale (è scema, come dicono di lei i suoi fratelli?). Non denuncia la violenza subita, lascia che lo spettatore la intuisca dai racconti di lei che dorme nel letto dei genitori con i tre fratelli. La polarità ingenuità/demenza accostata alla malignità/abiezione dei fratelli produce nello spettatore un sentimento di disgusto/compassione nei confronti della vittima (1).

 

Verifichiamo questo dispositivo costruttivo in Vita mia. Intorno allo spazio scenico sono seduti gli spettatori. Il fulcro è il letto-bara con un crocefisso, un ragazzo va in bicicletta e altri due meno giovani guardano gli spettatori che prendono posto intorno allo spazio scenico, una donna guarda anch’essa gli spettatori. Il tema è l’amore morboso di una madre per i suoi tre figli maschi che, a causa di questo amore o per mancanza di una figura maschile paterna, sono dei fannulloni, non combinano niente di buono , non studiano, non lavorano. La madre li protegge ed è fiera di loro. Porta un vestito nero, evidentemente è vedova. Il più turbolento è il figlio più piccolo che scorribanda in bicicletta muore ripetutamente per nessun accidente visibile o scaturito dall’azione scenica. L’acme drammatico dello spettacolo non è motivato né dal dialogo madre-figli, né dalle azioni, avviene e basta, come un fenomeno immanente allo spettacolo. La musica aumenta di volume, le corse diventano sfrenate, i corpi si scuotono, o per rimbalzo sulle reti o per lotta o per avvinghiamenti, le luci si spengono e l’acme drammatico è consumato, avviene come un temporale non preannunciato, perché il ritmo dello spettacolo è fatto di alti e bassi, di musiche ritmate popolari e sentimentali che inducono emozione, di luci che si accendono e di luci che si smorzano. Che manchino i nessi non è in sé un problema, è che gli ingredienti dello spettacolo melò sono disseminati e svuotati, alternando una recitazione e una gestualità da dramma realista, con una lingua che attinge al dialetto in modo stereotipato (2) – e un movimento dei corpi,una esagitazione dei gesti, un eccessivo dispendio di energia in scena che risponde al bisogno di produrre situazioni emozionanti.

Questa contrapposizione bipolare si ritrova come dispositivo costruttivo della drammaturgia degli spettacoli di Emma Dante, nel senso che sono giustapposti tratti di un teatro aristotelico, in cui il racconto, i personaggi, gli ambienti sono naturalisticamente raffigurati, con tratti di un teatro del corpo, dei linguaggi non verbali, del gesto che appartiene alla scrittura scenica del nuovo teatro del secondo novecento o come è diventato in uso, post-drammatico. Gli attori sono in grado sia di essere ruoli che di essere performer e lo spettacolo fa convivere il raccontare una storia e tentare di sovvertire le regole del racconto, contemperando l’eredità della tradizione del nuovo teatro con quella del teatro naturalista. L’istanza di realtà coesiste con l’istanza opposta di raccontare questa realtà fuori dai canoni naturalistici. Il sottotitolo dello spettacolo è infatti: “studio sui personaggi e non sulla storia”. Di fatto l’unico personaggio è la madre, che fa a meno della storia con una recitazione divaricata fra il personaggio che si immedesima nel ruolo e la performer che si lancia in sfrenate corse, fa dispendio di sé nel tentativo di innestare un rituale di immolazione che purifichi attori e spettatori… Quale nuova forma di racconto si evince da una sequenza di azioni che alterna un piano e un forte, un dialogo in dialetto fra madre e figli e una sequenza di corpi in movimento (bicicletta, corsa, lotta, palleggio sul sarcofago-letto) con al centro due acme, una morte e un letto nuziale. Le due istanze non si compongono in una dissonanza armonica, coesistono meccanicamente perché il teatro di Emma Dante si costruisce sulla staticità della giustapposizione, non sulla dinamica della variazione fra locale e globale, personaggio e performer, storia e decostruzione, giustapposizione che non produce composizione drammaturgica, né in direzione del racconto drammatico né nella direzione di un nuovo modo di raccontare (come viene sperimentato e proposto dalla drammaturgia dello spettacolo contemporaneo).

Nel saggio La regola e l’eccezione del teatro in Calabria scrivevo: “Nell’Italia postunitaria, il teatro ha espresso il bozzettismo regionale della drammaturgia meridionale (Capuna, Martoglio, Rizzotto, Bracco) per cui il dramma sociale è stato stemperato in melodramma: tanto che, Cavalleria Rusticana di Verga viene interpretato come dramma borghese edificante con l’amante, Il marito tradito che si vendica, la vittima sedotta, anziché come materia popolare tratta dalla cronaca nera. Tale tendenza rappresentata in Sicilia da Grasso, Martoglio, Musco, portò sui palcoscenici nazionali e internazionali il tipo siciliano (macchiette secondo il giudizio di Antonio Gramsci) e trovò una benevola accoglienza nei teatri del Nord Italia (e anche all’estero) in quanto alimentava l’immagine del Sud che il Nord andava elaborando, immagine che calcava la mano sui tratti tipici della diversità, in modo da smorzare l’alterità in “esotismo” e quindi suscitava attrazione anziché turbamento” (V. Valentini, 2003, p. 21). Il teatro di Emma Dante a noi sembra che si inscriva in questo tracciato.

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(1) Per Anna Barsotti è una demenza che non può dirsi soltanto tale perché è quella dei piccoli-grandi visionari che rovesciano le più meschine e atroci veritàI grandi visionari creano metafore, capovolgimenti fertili che stimolano visioni utopiche, (A. Barsotti, 2009, p. 77). Qui è un tentativo di affermare un soffio vitale non abbastanza potente da giungere alla ribellione.

(2) P.P. Pasolini ha sostenuto nel suo "Manifestro per un nuovo teatro" (1968) che in Italia il teatro in lingua è falso e artificiale e che l'unica possibilità perché ci sia un teatro autentico è il bilinguismo del teatro regionale o dialettale. Nel teatro di Emma Dante si parla un italiano sporcato dal dialetto e/o viceversa. Il dialetto è utilizzato nei momenti chiave, come espressione e copertura di una verità atroce (la maternità della sorella in Carnezzeria). Il dialetto è più presente nelle prime stesure dei testi. L’ibridazione del dialetto con l’italiano è motivato da Emma Dante dalla possibilità di circuitazione in Italia e all’estero, oltre che dalla reinterpretazione del testo da parte di altri attori/attrici non necessariamente siciliani. Come a dire anche se la lingua non è sempre e del tutto fedele alla terra lo sono le storie, le situazioni piuttosto, i personaggi. Il dialetto è utilizzato anche per creare quella suspence, mistero dati dal non poter afferrare il significato di tutte le parole, “ciò che muove tutto è qualcosa che non possiamo comprendere” (A. Barsotti, 2009, p. 85).

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE

A. Barsotti, La lingua teatrale di Emma Dante, Edizioni ETS, 2009.
B. Marranca, American Performance, Bulzoni, Roma 2007.
C. Bene, Opere, Milano, Bompiani,1995.
E. Dante, Carnezzeria, Trilogia della famiglia siciliana, Fazi Editore, 2007.
R. Di Giammarco “L’ombra della luce”, La Repubblica TV, video intervista on-line a Emma Dante.
G. Deleuze,Un manifesto di meno, in Bene Deleuze, Sovrapposizioni, Milano, Feltrinelli, 1978.
H. Müller, Tutti gli errori, Milano, Ubulibri,1994.
A. Porcheddu, Palermo dentro, Il teatro di Emma Dante, Editrice Zona, 2005
F. Scaldati, Quadri Cinici,conversazione con Ciprì e Maresco, di U. Cantone, in Vedute, a cura di V. Valentini, Palermo, Sellerio, 1993.
V. Valentini, La regola e le eccezioni del teatro in Calabria, in Il teatro in Calabria 1870-1970 Drammaturgia repertori compagnie, a cura di E. Costantino e C. Fanelli, Vibo Valentia, Monteleone, 2003.
http://www.emmadante.it/recensioni.html

 
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