di Paolo Puppa
Caro Luigi,
la sera dell’8 ottobre sei andato via, scivolando dall’altra parte. In punta di piedi, senza far rumore. Sei andato là, dove abitano i più. Ruggero Jacobbi un giorno mi ha detto: “Che senso ha continuare a vivere quando quelli che contano per me sono scomparsi, e quelli che restano non sono niente?”. Sentimento che ora non posso non condividere. Ti avevo confidato una sera a Roma che per me i morti sono più importanti dei vivi. E dunque. Son qua a parlarti allora, e mi rivolgo a te direttamente, come vedi, convinto che in qualche modo l’energia che si respirava vicino alla tua persona non svapora colla tua uscita di scena, ma anzi torna a sprigionarsi più forte e mi entra dentro a far luce. Insomma, sei momentaneamente assente, parafrasando il titolo della tua brillante, vaudevillesca ghost story. Pertanto, quanto segue non è un epitaffio, un discorso funebre sempre apologetico che non farebbe altro che allontanarti ulteriormente da noi tutti, e da me in questo caso. De mortibus nihil nisi bonum. Io invece ti dedico una ciacola, per usare un termine desunto dalla lingua del tuo prediletto avvocato veneziano, di cui hai indagato nell’Avventuriero onorato nel ‘92 i legami coi servizi segreti del tempo. Qui, con mano pesante, ad ascoltare i rimproveri di Franco Fido, avevi sottolineato tra gli altri mestieri di Guglielmo, il protagonista, quello di informatore del governo di Palermo. Ma per te tutto ciò non era un difetto, anzi la conferma della molteplicità di attitudini e di risorse della creatura umana per tirare avanti, per sopravvivere e magari affermarsi.
Comincio rievocando alcuni incontri che hanno scandito la mia conoscenza di te. Innanzitutto, il primo. Verona, doveva essere un ottobre piovoso del ’74. Stavi in prova col Fu Mattia Pascal, adattamento dell’amico Tullio Kezich, già utilizzato per La coscienza di Zeno, dove avevi definitivamente strappato ad un comico come Alberto Lionello i registri drammatici, attraverso la mediazione del grottesco. Mi vedo comparire un uomo magro e alto, agile e atletico, cogli occhiali a darti un’aura di intellettuale (del resto da poco insegnavi al Dams bolognese), capace di dedicare una pausa del lavoro registico a un giovane scocciatore che veniva a portarti, previa timida e sfacciata telefonata, un dattiloscritto sui Giganti della montagna pirandelliani, poi trasformato in un volume da te prefato. Pochi, troppo pochi minuti per me, imbarazzato e balbettante, molti per te che avevi interrotto le tue discussioni con Albertazzi, l’interprete di quello spettacolo. Eri molto elegante, un golf di cachemire verde, mi pare, calzoni di ottimo taglio, barbetta e capelli ben rassettati, tutto molto in ordine. Profumavi di denaro, direbbe Fitzgerald. Elegante in modo casual e sportivo, non azzimato però, lontano da un’aura salottiera. Per questo, forse, il tuo connubio colla Compagnia dei giovani, il clan De Lullo, Valli, Falk, Guarnieri, oltre a un gioiello come il Lorenzaccio di De Musset nel ’54, non ha prodotto altro. E anche in seguito, quando mi hai chiamato con un contratto a Bologna (ti incrociavo in segreteria, tu lasciavi l’aula che avrei occupato io), osservavo le borse griffate, le sciarpe, i loden, le scarpe, un’accuratezza e un aplomb medio-alto borghese cui non intendevi rinunciare anche in luoghi dove ci si sporca e suda come una prova teatrale o una lezione universitaria. Sapevi di docce non affrettate. Ti alleggerivi gli anni con shampoo di marca. Eri sempre di corsa, per non perdere un aereo o un treno, e donavi all’interlocutore brevi flash conversativi, interrotti presto controllando l’orologio, magari con una roca risata delle tue. Semplificavi le questioni, così almeno mi sembrava a quei tempi, attento al nocciolo dei problemi, pratici e teorici. Ti piaceva organizzare, assegnare incarichi, distribuire compiti, far nascere collaborazioni, mettere alla prova gli altri.
Profumavi di denaro, ribadisco. Correvano leggende sulla tua tirchieria, sulla tua infantile smania di denaro, vezzo che di solito arriva ai vecchi o a quelli che nascono poveri. Tu eri invece nel pieno delle forze, e ancor giovane all’anagrafe. Lucilla Morlacchi mi ha raccontato dello scherzo atroce fatto ai tuoi danni dalla compagnia durante il Ciascuno a suo modo genovese. La compagnia navale Costa organizzava una cena di gala sulla tolda di una delle sue imbarcazioni. All’ingresso, un attore ti sussurra di aver saputo che bisognava pagare la cena. E tu sei subito fuggito, dopo esserti però riempito le tasche del soprabito con tramezzini carichi di maionese. La mattina dopo, sadicamente, ti hanno svelato l’inganno. Farsi pagare da te un caffè al bar veniva considerata un’ impresa ardua. In compenso, eri generoso sotto altri aspetti. Dicevo degli attori. Te li sceglievi sempre grandi, se possibile, a partire da Vittorio Gassman, amico fisiologico di liceo, una condivisione totale per anni e poi il legame s’è guastato, rottura quasi amorosa ma inevitabile con lui troppo attore secondo la tua ricostruzione, il congedo segnato nel Prometeo eschileo a Siracusa nel ’54. Anche se 30 anni dopo hai lavorato colla figlia Paola e il marito Ugo Pagliai, ricordo una versione un po’ passatista (rispetto a quella più coraggiosa di Carlo Cecchi) de L’uomo, la bestia e la virtù, nel 1985. Della serie di regie classicheggianti, di routine intelligente, nulla più, con un pubblico che usciva soddisfatto e rinsaldato nei propri stereotipi. Ti appoggiavi su grandi interpreti, appena possibile. Il fatto è che sei stato sempre in grado di reggere l’urto di caratteri aspri convivendo coi loro sistemi nervosi fragili e dispettosi. Non eri attore, tu, nonostante qualche cammeo cinematografico, come il giornalista nel Caso Maffei di Rosi, suffragato dal Nastro d’argento come attore esordiente (avevi 50 anni), per la voce un po’ monocorde e professorale, dai toni didattici o legulei, dove la laurea in qualche modo era servita. Ebbene, Lionello un giorno, mentre sta provando con te il Mercante di Venezia nel ’92, mi rivela che tu ti accanivi cogli altri della troupe, lasciando a lui campo aperto. “Poteva mica insegnarmi a recitare, quello! ”. Lionello, che ti doveva tutto o quasi, nell’umor nero della grave malattia renale ormai vincente, ci teneva ad essere unpleasant. Io ho assistito come consulente alle prove di alcuni tuoi spettacoli, ad esempio La famegia del santolo di Giacinto Gallina, prodotto dalla Stabile veneziana, nel 1986, durante una delle tue frequenti immersioni nel repertorio dialettale di fine ottocento-primo novecento, alla ricerca di una tradizione nazional-popolare, progetto controverso e quasi sempre contrastato da molti, non dal pubblico. Ebbene, in quelle occasioni tenevi per giorni gli attori al tavolo, lungo in quel caso per il cast numeroso, e oltre a farli leggere ti lanciavi in dotte disquisizioni esegetiche, che parevano una lezione damsiana. Più era numeroso e coreutico il gruppo, più sviluppavi il tuo spirito tassonomico, e ti piaceva far ordine nel flusso delle azioni e delle battute. Penso alla regìa televisiva, Lo squarciagola, andata in onda nel ’66, dedicata all’ascesa e al crollo di un’ugola canora. A leggere spesso la lista degli interpreti in un tuo spettacolo, dove al solito scorre il meglio della scena italiana del momento, specie nel confronto coll’oggi in cui le produzioni debbono per forza essere parsimoniose, vengono le vertigini. E i tanti attori in un intero cinquantennio che ti hanno incrociato, hanno ricevuto stimoli, metodi, tecniche di vita e di lavoro. Tu avevi però la mano ferma e una grazia autorevole a dominare il nucleo con inflessibile mitezza.
Sul dilemma se eri o meno capace di dare la battuta, mi ha soccorso una volta Kezich che mi ha spiegato come nel darla eri mediocre, mentre nello spiegarla divenivi illuminante e così didattico da ottenere l’effetto voluto. Ma non eri solo motivato da un copione di parole, Luigi, perché poi davi molta importanza allo spazio architettonico, con forti investimenti sul contenitore scenografico. L’architettura infatti era un tuo violon d’Ingres, non solo quella relativa al teatro. Godevi come un bambino sfogliando volumi con bozzetti elisabettiani, riproduzioni di cavee antiche, utopie weimariane. Dimostravi la perfetta compatibilità della tragedia antica colla scena all’italiana, pur frequentando l’ en plein air di Siracusa, o San Miniato dove ospitavi le forme di un moderno dibattito etico-religioso come Il potere e la gloria di Greene nel ’55 o l’eliotiano Grande statista nel ’59. Promuovevi seminari sulla scena e la piazza, coinvolgendo studiosi come Alvise Zorzi, che faceva debuttare all’interno di quei cicli nei primi anni ’70 le sue scoperte sull’iconologia carpaccesca in rapporto alle ritualità laiche della Serenissima.
Eri nato a Livorno 88 anni fa. Ma la famiglia era di ceppo forlivese, dalla parte di madre, e di Lugo da quella del padre, autore del primo codice di diritto minerario, direttore del settore nella Confindustria. Dal padre, dunque l’abitudine a frequentare i potenti, ma allo stesso tempo anche i futuristi (era sodale di Balilla Pratella), da qui la tua curiosità inesausta verso il nuovo che avanza e fermenta spiazzando i vecchi sistemi. Dal padre altresì la spinta alla laurea in legge, la “inutile laurea” con 110 e lode coincidente col più fruttuoso diploma in regìa all’Accademia, come non mancavi di ripetere nelle interviste. Dalla Romagna, oltre al testo La romagnola, ti venivano l’umore sanguigno che riuscivi a controllare quasi sempre, a temperarlo sia pure a fatica, mentre il metabolismo, vedi i gliceridi tendenzialmente alti, ne risentiva in parte. C’era del Giamburrasca in te, frutto delle citate frequentazioni paterne dei ribelli futuristi. Ad una cena allestita da mia moglie, tua corregionale, fissavi a lungo la bocca di Armando Pizzinato, il grande pittore trapiantato in laguna, ultraottantenne. Avevi 70 anni e parevi molto interessato ai suoi denti perfetti, dallo smalto immacolato. A un certo punto sei sbottato e gli hai chiesto se erano suoi. Armando ti ha lanciato un’occhiata furlana delle sue, a fulminarti col suo risentimento, ma non capiva che quella gaffe non era irrispettosa, ma alludeva a informazioni tecniche.
Uomo sempre di corsa, per la mole singolare di lavoro, regista-professore, studioso-lettore vorace, drammaturgo-storico della regia. Uomo amico del potere e allo stesso tempo aperto a frequentare la controparte, che fossero gli studenti in agitazione o i gruppi underground. In effetti, amavi molto Il nemico del popolo ibseniano, da te tradotto (!) e portato in scena nel ’48 con Renzo Ricci. Ti affascinava chi andava contro “l’andamento delle cose”, gli idealisti votati allo scacco. Ma tu preferivi le mediazioni, avevi incorporato le cantine romane durante la tua direzione dell’Argentina, con esiti incerti negli anni cupi del terrorismo, e la strategia era chiara in fatto di lungimiranza. Il tuo spettacolo, non dei migliori, Le baccanti nella bolgia del ’68, mescolava Brecht e Artaud, rispettivamente il didatta e lo sciamano, secondo il tuo articolo coevo. Là inglobavi pure al suo interno le rivolte di piazza e le cariche della polizia, l’anarchia ginzberghiana e i governi del centro destra, Mao e le droghe pesanti. Il tutto aveva se non altro il merito di costituire una sorta di autobiografia intellettuale su come leggevi il mondo e avresti voluto riorganizzarlo, potendo.
Avevi il culto dell’amicizia, nelle tue parole si sentiva l’eco di discussioni interminabili, accanite cogli altri. Parevi nato per stare in gruppo. Eppure eri molto solo. Le collaborazioni a quattro mani con Orazio Costa, nei tempi degli esordi per Giorni senza fine di O’Neill nel ’46, quelle con Vittorio al tempo del Teatro d’arte. E poi gli artisti a vari livelli snidati e riportati a lavorare per te, a fornire immagini e costumi, da Giacomo Manzù per la regìa lirica di Oedipus rex di Strawinsky nel ’64 a Guido Crepax per La gabbia di Renzo Rosso nel ’68. Quando ti ho comunicato per telefono la morte di Mario Baratto, che ti aveva invitato a Parigi coi Gemelli veneziani, la tua giovinezza, e ti aveva aiutato a decifrare i segreti della meneghella, il gioco di carte che in Una delle ultime sere di carnovale del ’68 costituiva la mirabile scena di tanti personaggi a intrecciare il loro cicaleccio, ti sei messo a piangere senza pudore, la voce ansante e indifesa. In compenso, mesi dopo, la vedova di Mario, Franca, mi descrive sconcertata un tuo rapido saluto. L’avevi chiamata in casa dove tendeva a rinchiudersi per la depressione e hai provata a rituffarla nella vita. Eri nel pieno di una festa con gente importante al Danieli o al Gritti, alberghi di lusso veneziani, si sentivano le risate dei commensali, e lei ha rifiutato con gelida cortesia. Ma eri fatto così, il luogo di felici ossimori, superficiale e profondo, sensibilissimo ed egoista. Come quando nel 1984 pretendevi da me che ti mandassi un medico disposto a convincere ad andare in scena Paolo Stoppa, in prova con te a Venezia per un Ciampa poco siciliano e di respiro europeo, questo almeno nel tuo progetto. Stoppa era in pieno collasso, la sera prima aveva mangiato e bevuto come un giovanetto in una trattoria veneziana, e non intendeva levarsi dal letto di dolore, rischiando di fare la fine di Molière nel Malato immaginario. Poi per fortuna s’è trovato questo medico, tutti contenti al Teatro Goldoni col puntuale trionfo. Ma al telefono so io quanto ho penato, perché non accettavi ragioni contrarie, nonostante fosse vicenda deontologicamente delicata. Così colle tue donne, amate, adorate, lasciate all’improvviso. O magari erano state loro a piantarti, stanche della tua molteplicità di interessi, per usare un eufemismo? Ma facendo lo slalom tra regie, lezioni, scritture varie, come potevi fermarti su un unico amore alla volta? Due sole mogli in fondo hai avuto, l’attrice Zora Piazza che ti ha dato un figlio nel tempo bollente della giovinezza, e Silvia Danesi molti anni dopo, ordinaria di storia dell’arte. Insomma, l’uomo di legge che era in te dormiente ha vigilato con acume in tal senso.
Passione e dialettica della scena avevo intitolato un volume in tuo onore, curato assieme a Claudio Meldolesi e a Arnaldo Picchi. Mi accorgo tra l’altro che sono il solo sopravissuto all’iniziativa. Titolo forse azzeccato, perché le pulsioni forti, private, hai sempre preferito spalmarle e diluirle nella Storia, come hai mostrato nel tuo copione più fortunato, Tre quarti di luna terminato nel ’52, a 30 anni, dedicato in calce al padre, la cui trama viene contestualizzata nel 27 ottobre del ’22 nella provincia romagnola. Hic et nunc ben precisati e scanditi, pertanto, a individuare la griglia in cui si situano le vicende di un liceo fermentante di ambizioni, desideri, progetti educativi, nello scontro contrapposto di idee e di umori. Una pièce à thèse e insieme bien faite, dove la Storia grande tende trappole a quelle piccole dei personaggi, gonfi di sé e ignari di una struttura più ampia che ne condiziona scelte e destini, stritolandone le pulsioni esistenziali. Sono parole tue, queste. In tal senso, dialettica, in quanto collocavi te stesso e le tue regìe entro una storia nazionale e internazionale, come uno specchio obliquo che ne riflettesse e schermasse i raggi violenti.
A rileggere Tre quarti di luna oggi viene la tentazione di considerarla una drammaturgia datata e conservativa, erano del resto gli anni dei Betti e dei Fabbri in auge, mentre Brecht circolava quasi clandestino nei teatri universitari dell’epoca, prima delle epifanie strehleriane. In realtà, ripristinavi lo schema collaudato della college story, in auge nel ventennio autarchico, senza però stavolta fatuità mondane e riboboli da rose scarlatte e telefoni bianchi. Sulla scena passano allieve inquiete, bidelli bonari e ispettori minacciosi, professorini disfatti dalla noia, qualche prestito del primo atto del pirandelliano Pensaci, Giacomino! intinto nel tono boulevardier di un Niccodemi. L’affresco ampio non vuole però emettere giudizi, in quanto ogni silhouette emerge arricchita da precise contraddizioni. Ad esempio, il preside plagiato dalla riforma gentiliana, intento a coltivare il proprio carisma e la propria carriera, non viene liquidato quale mero vilain, risultando piuttosto un intellettuale organico al fascismo, per dirla con Isnenghi, all’alleanza tra ceti nuovi e movimenti di piazza, ossa una complessa figura di autentico figlio dell’idealismo. E, dietro di lui, soffiano suggestioni dal Brand ibseniano. Il ruolo, nella prima versione scenica del '52-'53 ad opera del Teatro d'Arte Italiano, viene affidato allo splendore fisico di Vittorio Gassman sulle cui fattezze è certo costruito (basti controllarne la didascalia che lo descrive), mentre nei panni del seminarista spretato debuttava un ragazzo che di nome faceva Luca Ronconi. Ma sulla sagoma del povero Enrico, suicida alla fine del primo atto, nato povero da un cameriere e da una lavandaia che a furia di sacrifici lo spingono allo studio, ragazzo colla bocca piena di versi tra D’Annunzio e Campana, mettevi forse qualcosa di tuo, nella bulimia adolescente di divorare libri dovunque, oltre che un po’ di Gramsci per un accenno di gibbosità nel corpo curvo. A proposito, che fine hanno fatto le tue poesie giovanili? Così come i tuoi primi drammi sperimentali, genere absurdismo, quando ancora non sentivi il teatro quale missione della tua vita? Si trovano nel tuo archivio, visto che conservi tutto, oppure te ne sei sbarazzato, nel tuo spirito produttivo, refrattario alla fumisteria di progetti non conclusi? In Tre quarti di luna, circolavano giovani, anzi ragazzi, alla ricerca necessaria di “buoni maestri”. Un ricordo del Liceo Tasso romano, e insieme la frenesia aurorale con cui il tuo gruppo dell’Accademia, oltre a Vittorio, Luciano Salce e Adolfo Celi, si era rimboccato le maniche, respirando l’aria della liberazione e della rinascita, nell’illusione di uno svecchiamento culturale e di un cambio generazionale profondo. Gli inizi del resto sembravano confortare le tue ambioni. Nel ’47, a Praga, al festival mondiale della gioventù, la tua regia de L’uomo e il fucile di Sergio Sollima vinceva infatti tutti i premi.
Hai continuato poi a riceverne altri di premi, che esibivi con ingenuo orgoglio, nel 1958 il Marzotto per La romagnola, che pure ti aveva un po’ tenuto lontano dall’establishement teatrale e politico, da cui ti ha salvato Marzullo, proponendoti il Misantropo a Vicenza, sempre nel ’59. Il tuo dramma era stato inaugurato lo stesso anno, e in mezzo altre regìe. Di che isolamento s’è trattato, Luigi? Pochi mesi, eppure ti sei sentito emarginato. Mah. Nel 1998 ricevi il Feltrinelli assegnato dai Lincei (di cui eri fieramente socio) per il teatro, nel 2003 quello conferito dal Dams bolognese alla carriera, nel 2006 il Galeone d’oro da Pisa. Onorificenze che lenivano la malinconia del tramonto. O le cicatrici quando specie negli ultimi tempi i critici si accanivano contro i tuoi spettacoli. Come Rita Cirio che nel 1989, mentre cade il muro di Berlino, definisce il tuo Lord Byron prova la rivolta di Cimnaghi il più brutto spettacolo dell’anno.
Ma com’eri a 25 anni, Luigi? Già molto adulto, forse? Nascondevi la fragilità anagrafica nella scorza dell’uomo balzachiano, rampante, deciso a farsi strada? I libri sono stati il tuo vizio. La tua biblioteca ideale partiva dai classici, dal tragico antico, per risalire al moderno attraverso l’apprendimento precoce di più lingue, in un tempo in cui non si usava. Il tedesco col tuo Goethe di cui traduci Le regole per l’attore, e l’inglese, o meglio l’americano grazie alla borsa Fulbright a Yale con cui ti sazi degli States. E com’era la tua America? Seminari dotti di bibliografia scientifica, assimilata per poi catapultarti nell’avventura dell’Enciclopedia dello spettacolo, di cui dirigi la sezione teatro tra il ’51 e il ’55, al fianco del cattolico Silvio D’Amico? Il viaggio on the road l’hai compiuto coll’amico polacco che sparlava del maccartismo a te, già imbevuto di un marxismo giovanile da seconda Internazionale, miscelato con forti innesti di storicismo. Insomma, altro che Federal Theatre e New deal, come avrai annotato nel tuo Diario inedito. Anche la versatilità plurilinguistica di adattatore e traduttore, dal francese coi tuoi Anouilh leggiadri, e dall’inglese coi tuoi insistiti Shakespeare onorati dal loro inserimento nella raccolta prestigiosa di Giorgio Melchiori, oltre al tedesco, almeno all’inizio del tuo percorso, deve qualcosa all’emulazione coll’amico del cuore, Vittorio, poliglotta e sempre in giro per il mondo. Tanto più che lui andava su e giù negli States per l’attrice famosa, Shelley Winters, sposata dopo il divorzio in Messico da Nora Ricci, e ti incontravi con lui a Los Angeles,
Ne hai accumulati di libri, tutta la vita, Luigi. Tanti te ne hanno mandati in omaggio, tanti li hai trovati nei book shops antiquari. In questi ultimi anni stavi organizzando la liberazione del tuo studio romano per ospitare la figlia che ti aveva reso un’altra volta nonno. E stavi dirottandoli all’Istituto Gramsci (l’archivio personale) e a San Giorgio a Venezia, la biblioteca, un addio lacrimoso immagino, ma inevitabile, che volevi gestire da vivo, dirigendolo come l’allestimento dell’addio, questa volta bibliografico, colla minuziosa abitudine a classificare e a inquadrare generi, stili, discipline. Operazione già fatta coi volumi e i costumi teatrali che avevi contribuito a sistemare, assieme a Ivo Chiesa e a Sandro D’Amico, nel lascito Ristori integrato dall’archivio di Guido Salvini, il nipote di Tommaso, destinato a divenire il Museo Biblioteca dell’attore genovese.
Tra le tue commedie ho molto amato, e pour cause, l’ultima, almeno se tra le tue carte non sbucherà fuori qualche nuovo pezzo, ovvero la già citata Siamo momentaneamente assenti, premiata coll’IDI nel ’91, dove rispetti i i tempi musicali dei repertori leggeri anglofrancesi, un Coward speziato in salsa transalpina per l'intasamento di corna, moltiplicate in un'accelerazione febbrile che da Feydeau porta su ai Guitry, con prelievi dal Cocteau de Les parents terribles. Anche qui infatti un padre e un figlio si scoprono rivali per la stessa amante, oltre a dichiarati feticismi incestuosi. Uno spiritismo ovviamente dotato di up to date tecnologici, per la presenza di segreterìa telefonica con incisa la voce della morta. Ci aggiriamo, inoltre, in couches contaminate tra letteratura (la donna assente traduceva dal danese la Blixen) e il cinema, perché il vedovo fa di professione lo scrittore e lo sceneggiatore filmico, per uno squinternato regista Effe Effe, di cui si loda il gusto per l'immaginario, suffragato appunto dalle iniziali felliniane. Non mancano riferimenti, sia per la specificità dell'ambiente intellettuale, in cui i cromosomi nordici della protagonista si confrontano colla napoletanità borghese della nuora analista, sia per la gergalità dialogica, al Flaiano di Una conversazione sempre interrotta. Ma la sarabanda grotesque che vi si sdipana con sulfurea allegria affronta un tema tabuizzato in palcoscenico, ossia lo Spirit che se non blithe, dunque esorcizzato da moduli scherzosi, richiede un'immediata rimozione. Si tratta allo stesso tempo di un'autentica mise en abîme, in quanto i prelievi espliciti dagli stereotipi tipici della pochade, scandita da vertiginosi colpi di scena, agnizioni d'adulterio, confessioni e processi, si raddoppia nella disseminazione del tema funebre in quanto Effe Effe sta progettando un film sull' argomento, e cerca un produttore coraggioso e solidale. Teatro dunque alla seconda potenza, dove hai agio di sciorinare il tuo sapere multiplo, in un copione che filtra, inventaria, ricicla di volta in volta tradizioni drammaturgiche diverse, ma teatro altresì che si serve di pirotecnici funambolismi per far passare l'oggetto ansioso della scrittura, vale a dire il tema della scomparsa, non quella pur angosciante tua, cui pari prepararti, ma quella più luttuosa e lacerante dell'altro, in questo caso di una moglie spigliata, spregiudicata, anche blasfema, disposta a ripercorrere la vicenda antica dell'Alcesti. E la donna, pronta a sacrificarsi al posto del marito, sfiorato dall'infarto, e a contrattare in limine mortis una personale riapparizione (sulla scia di Our town di Wilder) che consenta al film in cantiere di mettersi in moto, irrompe nella casa all'improvviso per intrigare parenti e amici colla leggerezza sveviana del Terzetto spezzato. Pertanto una sia pur timida ombra goticheggiante si insinua con pudore ogni tanto tra gli equivoci e le gag del testo, e lo sguardo meduseo si spinge sullo scandalo della fine, sugli abissi di una laica prospettiva nichilistica, accentuata dal gesto ripetuto di sfregarsi le dita nel vuoto onde alludere alla cenere in cui s'è brutalmente trasformato il corpo amato. Specie nella prima fase della pièce, là dove Alberta è la sola ad ignorare la sua nuova condizione di fantasma, mentre gli altri intorno usano l'eufemismo perchè non venga a scoprirlo, e la parola fa fatica ad essere pronunciata, si avverte lo strazio nascosto. Tra le fitte della acedia e i refoli di un'atmosfera unheimlich, il palcoscenico sembra così ospitare l'intrusione onirica e la minaccia da mistery medievale utilizzati da Buzzati in Piccola passeggiata, o i conati di resistenza del Soggetto davanti all'azzeramento di sé che Betti distillava spesso nei suoi drammi più foschi, da Acque turbate a La fuggitiva (messa in scena da te nel 1953), per non parlare di condimenti buñueleschi, allorché i personaggi non possono fuggire dal salotto visitato dagli spettri. Ma se da un lato forse ti celavi dietro il vedovo viziato dalle donne, proiettandovi tensioni ontologiche acuite dall'anagrafe, dall'altro conservavi pur sempre l'attenzione ai meccanismi ideologici, alle mode generazionali, di cui formuli con folgorante icasticità una sorta di chimica parodizzante, attraverso la voce dell'estinta che apostrofa il figlio:<>. E di nuovo, dunque, la tensione tra l'adeguazione al quotidiano della platea e la voglia di un tempo altro. Ancora una volta rivelavi qui il tuo culto per chi non c’è più, in questo caso un tenero e divertito omaggio a Lalla Kezich, la compagna di una vita del tuo Tullio. Si potrebbe persino azzardare che la ricorrente hantise degli assenti, che riaffiora pure in Tre quarti di luna, funge da sabotatore nei riguardi del tuo pervicace volerti agganciare al presente, per garantirti la sintonia tanto cercata colla sala.
Perché per te, fondamentale era comunicare, un diritto che riconoscevi anche agli altri, da qui il tuo pendolarismo tra chi aveva il potere e chi no, ossia gli altri che non volevi discriminare purché avessero qualcosa da dire di importante. Ora, in questi ultimi anni, la cinematografia hollywoodiana ha dimostrato ampiamente, vedi Ghost, che la topica dei revenants, se condita di buon umore e di tenerezza, non è antitetica alle ragioni del box office, anzi. Le code ai botteghini, tua fissazione caparbia, possono formarsi davanti a plot centrati sull'assenza e sul ritorno dell'amato/a da un al di là di cui testimoniano in qualche modo un'esistenza, purché non ci si dimentichi di trattarli con una comica levità e non con compiacimenti melodrammatici. Inevitabile allora smorzare commozioni personali e paure metafisiche nella finale discussion play sull'opportunità o meno di sfruttare l'epifania da parte dell'industria dello spettacolo e del puntuale bombardamento massmediale. In effetti il sipario cala perché la porta si apra sui molti flash che salutano l'evento e lo riportano sul terreno più rassicurante del fenomeno di costume. Insomma il suono agognato dell'applauso in platea, che serve a rintuzzare le trombe severe ma riconoscibili del Giudizio, o il rumore ben più inquietante (diciamo dodecafonico, Luigi?) dell'annullamento finale.
Prima ancora, nella serie dei copioni, c’era stata la parentesi del teatro-documento in veste neorealista (con qualche refolo rosselliniano, ma esposto nei registri alti da discussion play) con L'Esposizione Universale scritta tra il 45 e il ‘48, bloccata dalla censura. Qui, un coro brulicante sullo sfondo, i senza tetto abusivi che occupano gli edifici dell’EUR piacentiniano, libera in primo piano vicende individuale esposte a turno, collo scioglimento finale segnato dalle cariche della polizia per sfollare. Il copione, ricordi vero?, viene premiato col Gramsci nel ’48 da una commissione che comprendeva tra gli altri Visconti, Pandolfi, Stoppa, Costa. La cifra consisteva in mezzo milione, consegnato nelle tue mani da Ambrogio Donini, burocrate del PCI, nell’atrio della Fenice, una grossa somma per quel tempo. Immagino la tua commozione… E poi di nuovo con La sua parte di storia nel ’55, un’inchiesta dei carabinieri su un fatto di sangue collocato in un lontano paesino sardo, ancora soggetto a leggi pastorali, in contrasto colla dottoressa americana impegnata a combattere l’epidemia che uccide i bambini, ma non tanto innocente come si scopre nel finale in un clima tribunalizio alla Fabbri. E ancora un affresco corale, la ballata brechtiana, per le intrusioni didascaliche e i commenti fuori campo, ma anche pratoliniana, La Romagnola maturata tra il '51 e il ‘57 (sempre lunghe le tue gestazioni!), un plot melodrammatico dove rispuntavano Romeo e Giulietta, schierati purtroppo in campi avversi nel tempo della Resistenza, scandito in scene, non in atti, che ti ha procurato il lancio pittoresco di topi morti agganciati a palloncini tricolore da parte della gazzarra fascista al Valle di Roma nel ‘59. Nessun trauma per te, in quanto rispuntavano i futuristi di papà, in fondo. E ancora, l'inchiesta-apologo sul riassetto burocratico, ma cifrato da citazioni dalla commedia rinascimentale I cinque sensi del 1987. E in mezzo i radiodrammi, tra cui le sulfuree Interviste impossibili a Linda Murri nel ’74 e a Dante Gabriele Rossetti nel ’75. Infine, i copioni più strettamente storico-politici, ovvero Cinque giorni al porto nel ’69 e Rosa Luxemburg nel ’74, scritti con Vico Faggi, e 8 settembre con De Bernart e Zangrandi nel ’71, documenti di una drammaturgia del territorio (e proprio in una città come Genova secondo la tua esperienza ritrosa ad occuparsi di sé) o rivisitazione dei nodi ideologici più delicati, con accuse dalla destra e dalla sinistra di scorrettezza politica. Ad esempio, Sanguineti che ti accusava di leso leninismo. Eri generoso, però, e a Edoardo avevi già assegnato la traduzione delle Baccanti e più avanti l’avesti incaricato di quella de I sette contro Tebe, all’Olimpico vicentino, nel ’92. Di Strehler parlavi e scrivevi non esitando a usare la parola “genio”, specie a proposito del suo Gioco dei potenti del ’65, dove si respirava l’angoscia noire della storia. Del resto confessavi che il suo Arlecchino mirabolante aveva partorito nel ’63 il tuo mitico I due gemelli veneziani con uno scatenato Alberto Lionello. Sì, andavi a vedere le regìe degli altri e ti pareva di essere sempre in difetto rispetto a loro. Per te, tra parentesi, gli allestimenti migliori, inarrivabili, sono stati il Cerchio di gesso del Caucaso del Berliner e il Sogno shakespeariano di Brook, strano binomio, sempre eterogeneo. In sala, da spettatore, precipitavi in una sorta di incertezza autovalutativa da cui ti levavi preparando una nuova produzione, o ripensando agli applausi interminabili che spesso salutavano le tue fatiche. Eri amico di Bernard Dort, e grazie a lui avevi accentuato l’idea di un teatro al centro, di un palcoscenico specchio della sala e del paese, ma anche motore educativo e propulsivo. A dirla tutto, un’opzione illuministica, lessinghiana-goethiana, vedi i tempi aurei delle grandi polemiche suscitate dal tuo Diavolo e il buon Dio sartriano nel ’62, con tutta la Curia contro, una visibilità stordente poi mestamente rientrata. In più, quelle avanguardie che parevi aver liquidato, tetragono come ti mostravi ai formalismi chiusi in sé, e indifferenti ai problemi del mondo, rispuntavano fuori non solo nel citato, folgorante allestimento di Ciascuno a suo modo nel ’61, in cui grazie a un gioco di doppi in palcoscenico con una finta sala incapsulavi le teorie dell’indeterminazione heisenberghiana e le fondevi coll’happening futurista e il teatro di strada. No, mi riferisco ancora una volta alla tua identità di autore, a Emmetì, del' 61-'63, varato in scena nel ’66, copione che irrorava ludismi e luddismi linguistici, cioè una disponibilità insolita in te per moduli neologismi sperimentali. Qui, imbevute di succhi tardo futuristi coevi alla stagione del gruppo ’63, le battute srotolavano a immettere al loro interno slogan pubblicitari, cascami di conversazione disimpegnata, un entropia discorsiva quasi registrata in metropolitana o per strada, una oralità ripetitiva, in terza persona, tra Adorno e Heidegger. Ma forse un simile ardore neologistico siglava anche una sorta di processo omeopatico rispetto alle stesse avanguardie. Dunque, registri articolati e sempre disposti a ripartire da zero, non sfruttando risultati precedenti. Un po’ diverso il discorso relativo alla parte di te più cospicua. A te, i problemi del mondo, soprattutto quelli del lavoro, stavano a cuore, magari mescolandoli a love stories. Ne la casa nova goldoniana del ’73 avevi enfatizzato il primo sciopero di una mano d’opera non pagata nella storia del teatro e spesso non ti tiravi indietro ad affrontare temi sindacali e morte bianche dal Pantografo trasmesso alla radio nel ’60 al citato Cinque giorni al porto.
Mi sono soffermato per ora solo sulla tua scrittura, quella che ho avuto modo per la sua peculiarità specifica di pagina stampata di incontrare e reincontrare più spesso. Ti lamentavi, specie una volta andato in pensione, di una sproporzione di una dismisura che penalizzava gli autori, rovesciando la situazione trovata al tempo dell’Enciclopedia. Perché proprio il Dams aveva finito, secondo te, per privilegiare nella committenza delle tesi, nei corsi e nell’ospitalità ai gruppi, le feste e i riti, un focus antropologico sulla scena, insomma troppo Barba e troppo poco Ronconi, usando le tue parole, ai danni della letteratura drammatica, denunciano in tal modo una singolare cecità nel leggere un testo, di nuovo messo al centro della scena. Invidiavi l’unità di autore e interprete nei grandi del nostro palcoscenico, quelli chiamati per nome, gli Eduardo, i Carmelo, i Dario. Mentre tu non eri riuscito a liberarti dal cognome. In cambio, rimproveri loro con garbata malizia il loro egocentrismo drammaturgico, incapaci com’erano di occuparsi degli altri autori. Era la tua solidarietà di commediografo autotrascurato a farti sporgere verso altre frustrazioni, specie alla radio, o allestendo colleghi e amici come Franco Brusati e Giorgio Prosperi. Gassman ha scritto che il regista soffre per non stare in scena, a ricevere l’applauso davanti alla tirade, quasi un voyeur privato dell’orgasmo. Si riferiva a te, anche e soprattutto. Soffrivi ed eri fiero allo stesso tempo per essere regista professore, non regista interprete.
Eppure non dimentico che il lavoro di commediografo è stato solo un intermezzo rispetto al tuo mestiere principale, quello che ti ha fatto viaggiare nel mondo e ti ha assicurato l’identità. Ogni tanto mormoravi in chiave ilarotragica che le battute proprie non dant panem, in Italia. Tanto più che quando ti si nomina in giro la prima cosa che si sente dire da chi ti conosce anche di sfuggita, è “Chi? Il regista?”. Non il commediografo, non il docente prima al Dams che hai contribuito con Benedetto Marzullo a fondare negli entusiasmi del ’68, colla ferma intenzione del celebre grecista di chiamare i migliori nell’operatività connessa allo spettacolo e alla comunicazione, inglobando ad esempio Umberto Eco. Qui, ti hanno conferito direttamente la cattedra nel ’75, poi ti sei spostato a Roma tre. Insomma, sei considerato l’inesausto allestitore di tanti spettacoli. La lista annovera 114 regìe di prosa, 31 liriche, 8 televisive, 12 radiofoniche, una mole molto più caratterizzante rispetto ai tuoi 10 drammi. Ebbene, in questo versante, si dispiega un eclettismo senza limiti, una versatilità disposta a mettere in scena di tutto, pur ben dentro specifici filoni continuativi e più meditati, specie nei felici momenti della direzione genovese e poi in parte di quella romana. In un certo senso, una biblioteca di repertori di volta in volta risistemati e ridisposti in un museo drammaturgico personale e privato, dove spesso erano le prime edizioni sceniche a motivarti e ad accenderti, come al tempo del primo Amleto integrale nel ’52, da te ovviamente tradotto, o del tuo stupefacente Tieste senechiano nel ’53, un po’ in anticipo sulla cruauté artaudiana. All’insegna, per lo più, dell’inusitata scoperta, come nel settore musicale, a partire da Gli Abenceragi di Cherubini nel ’57, con titoli di solito nuovi per i nostri palcoscenici, e poi Pizzetti e Peragallo, Krenek e Britten. Al di là dei Goldoni e Pirandello, dei tanti Shakespeare e dei rari Brecht (quest’ultimo, comunque, senza le aspirazioni epicizzanti di Strehler, basti ricordare la spavalda e sanguigna Lina Volonghi, in Madre Courage e i suoi figli nel ’70), le scelte rispondevano pure alle istanze di mercato e alla macchina implacabile di produzione e distribuzione pubblica e privata. Regista come rilettore di testi, solo qualche volta in una strategia provocatoria, come ti ho già detto per le Baccanti. In questo mestiere, sei passato per varie fasi, da quella pioneristica e illusoria, con un deciso investimento ideologico, in cui la scena sembra trovarsi ancora al centro della Città, un dramaturg fermo al modello amburghese o weimariano, o sia pur in chiave laica all'Avignone vilariana. E sono allora i momenti del Teatro d’Arte Italiano assieme a Gassman appunto, tra il ’52 e il ’54, e poi della tanto produttiva fase allo Stabile genovese, da te retta per 14 anni, riciclata stancamente al Teatro Argentina romano, infine colla caduta libera nell’artigianale messe di singoli allestimenti da battitore libero sino alle ultime, a volte anonime regie. Ma a Roma, in compenso la ridotta qualità degli spettacoli, anche per la diversa struttura e i difficili rapporti di forza colle istituzioni cittadine, non ti ha impedito di lanciare con coraggio idee nuove, la chiamata delle cantine all’interno dei cartelloni principali, il varo dell’animazione nelle scuole, le iniziative sull’handicap che commossero Pertini in sala, quando la fanciulla autistica compie un gesto mai prima effettuato, ossia dare la corona ne Gli uccelli aristofaneschi. Hai vissuto sulla tua pelle l’opacizzazione del regista e del teatro pubblico, nel periodo del disincanto e dell’abbandono. In cambio, a consolarti di recenti ferite, ricordo la tua trasparente soddisfazione a Gargnano, durante il seminario dedicato a te dalla scuola di Bosisio, poi edito in volume nel ’96. Sembravi un sovrano deposto in un tempo ormai repubblicano, ma riconoscente per la gentile attenzione che giovani studiosi ti assicuravano, colle loro domande appassionate e a volte un po’ ingenue.
Le diverse modalità del tuo lavoro registico, le hai provato a storicizzare secondo la consueta ottica dialettica, a rimuovere rinunce e delusioni, dando loro un contesto oggettivo, ancora una volta mettendoti in terza persona. Uno scritto come Nascita, apogeo e crisi della regìa come istanza totalizzante nel ’74 sanciva un percorso del genere, intervento poi ripreso in quella sinfonia invernale che è Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte del 2005. E’ questo il tuo ultimo, poderoso libro, un congedo e insieme un esame di coscienza professionale e personale, quasi 600 pagine senza uno straccio di nota bibliografica, alla luce di un solido impianto storicistico, dove i due termini alludevano forse all’aporia di partenza, tra l’uomo di libro e l’uomo di scena, rubando a Taviani una sua efficace terminologia. Secondo te, dunque, si snoderebbero in sequenza la fase 1952-1962, allorché il direttore assume il ruolo di tiranno illuminato, tutto impegnato a sfornare copioni classici e stranieri, per meglio esercitare il proprio dominio. Segue il periodo dopo il 1962, caratterizzato o meglio favorito dall’abolizione della censura preventiva. Infine, il terremoto provocato dalla contestazione studentesca e operaia del ’68, col teatrico da un lato, ovvero il fuori della scena che si mescola alla vita, da qui l’esplosione del teatro totale, del teatro fuori, del teatro di provocazione, con un ritorno alla temperie delle avanguardie storiche e dall’altro il teatrale, rinchiuso nello specifico del circuito, che si fronteggiano tra loro. Ma i classici sono stati da te sempre rivissuti in uno stretto scambio colla contemporaneità, mentre l’immersione nei repertori extra italiani compensava la claustrofobica autarchia del ventennio. Da qui, quasi a gara col conte Luchino, il tuo buttarti assetato nei repertori angloamericani, fin dal tuo esordio nel ’44 col saggio di regìa Uomini e topi dal romanzo di Steinbeck che avevi ridotto in una Roma città aperta più che mai. Materiale che prelevavi da Broadway e che ti prefiggevi non solo di importare ma di liberare dai compromessi col box office e colla censura negli States. Così, solo per citarne alcuni, il Miller di Erano tutti miei figli nel ’47, il malizioso e tenerissimo Té e simpatia di Anderson nel ’55, dove nel ruolo del ragazzino dall’incerto orientamento sessuale, Tom Lee, poi salvato da una prorompente Olga Villi, avevi piazzato un aurorale e magnetico Luca Ronconi... E Anna dei miracoli di Gibson nel ’60, colla bambina interpretata da Ottavia Piccola infante ed esordiente, dove già ti interessavi al problema dell’handicap. E ancora il fortunato Detective story, nel ’51, con un cast favoloso, e la scuola da te molto apprezzata del giallo, versione cupa del boulevard sempre praticato per evitare la noia pedantesca in sala. Intanto la paratassi discorsiva si snodava a mo’ di modello espressivo, mentre i membretti rapidi dell’americano tradotto sveltivano la nostra impaludata lingua, anche rispetto alle tue pratiche autorali, vedi le escursioni e decantazioni poetiche in Tre quarti di luna. Il pubblico ci stava, lusingato da tanto accanimento a proporgli soluzioni melodrammatiche e tecniche coinvolgenti a mimare i ritmi del montaggio cinematografico e ambientazioni da sceneggiato televisivo, mentre la critica un po’ storceva il naso davanti a questa copia da thriller movie, con Bragaglia che parlava con disprezzo di “genere Kodak”. Questa fedeltà al versante angloamericano, con punte come l’elisabettiano Volpone di Johnson nel ’77 o come Casa cuorinfranto di Shaw nel 1980, uno Shaw intinto nel cechovismo (a Cechov non hai osato accostarti, mancando come alibi della garanzia di una compagnia tutta all’altezza anche nelle parti minori) connota pure il tuo canto del cigno, Tre donne alte di Albee nel ’94, quando la tua ultima attrice committente, Marina Malfatti, non ha esitato a invecchiarsi in un’aspra novantenne morente. Ma sei stato capace di ben altro, tu, proprio nella scelta di montaggi anche difficili. Nel ’71 proporrai un trionfo di incastri, di stratificazioni tra ben due spettacoli che pensavi in un primo momento di presentare a sere alterne, e poi invece ti sei risolto a mescolarli assieme, a farli ‘copulare’ tra loro come suggerivi, ovvero il Tartufo molièriano e la Cabala dei Bigotti di Bulgakov. Qui si afferma la forma della regìa-saggio, depurata di fedeltà crociane all’integrità del testo originale, utilizzato da te invece quale opera aperta (questo quando disponevi della protezione del teatro pubblico, e potevi operare da padrone, non nella precarietà del circuito commerciale, come sarà dal 1984 in poi), intarsio di citazioni da altri materiali. Del resto, non era un problema per te l’incapacità del dramaturg a penetrare nel nostro sistema produttivo, perché a quello ci pensavi tu. Titolo lungo alla Wertmuller, quella volta, Il Tartufo ovvero vita, amori, autocensura e morte in scena del signor di Molière nostro contemporaneo. Si evidenziavano così sfasature nei linguaggi, nelle situazioni lontane tra loro, saldate da uno scatenato Eros Pagni di volta in volta Molière, Tartufo, Bulgakov a chiarire che tra la Cabala dei devoti starnazzanti attorno a Re sole (da te peggiorato e trasformato in alleato dell’arcivescovo di Parigi) e i seguaci infoiati di realismo socialista, non c’era differenza. E ancora il Tartufo stesso, molto serioso come nelle riletture critiche di Fernandez e Garboli, ricordava per più di un tratto l’icona di un inflessibile Stalin. E gli spiazzamenti che dinamizzavano il collage con effetti oggettivi alla Brecht finivano per riproporre la tua identità di regista intellettuale impegnato a stanare le contraddizioni tra arte e politica. Perché de te fabula narrabatur, in ogni caso, la regìa essendo oltre che intervento critico un’autobiografia (mi sto ripetendo lo so, ma così mi e ti chiarisco) ontologica e ideologica, specie in quel ficcar dentro ogni tanto l’ombra dell’autore. A volte, nell’eclettismo si intravedeva una linea guida, come per anni il mito della Commedia italiana, ripescando, come detto, nella tradizione in particolare ottocentesca-primonovecento, ad esempio il Cardinal Lambertini del 1981 di Alfredo Testoni, dove il trionfo di Gianrico Tedeschi riproponeva felicemente l’era del mattatorismo. Già nel delizioso Una delle ultime sere di Carnevale inserivi pezzi dei Mémoires tra le pieghe del felice allestimento. In tanta mole di prodotti, sono le riprese a indicare i figli prediletti, Misura per misura shakespeariana nel ’57 nel ’76 e Il ventaglio goldoniano nel ’79 e nel ’93. Sono queste, due opere simboliche del tuo gusto e della tua ideologia. La prima praticava il consueto sguardo attualizzante nella macchina del potere vissuta e subita dalla tua sala, regìa critica secondo il compianto Claudio Meldolesi, (non tralascio il tuo Troilo e Cressida del ’64, con abiti e divise che rimandavano alle guerre novecentesche, o il coro di hippies nelle Baccanti). La seconda, come emerge dal saggio contiguo L’eros e lo stupore, indagava l’altra macchina, quella del desiderio e le connesse peripezie del caso e del gioco celati dietro l’oggetto protagonista, il mitico ventaglio appunto che passa di mano in mano in un ritmo mozzafiato. Come se queste due macchine coincidessero colla struttura dinamica del reale. Regìa critica che annotavi nella tua smania classificatoria essersi avvalsa via via, ti sto citando: razionalità naturalista, razionalità post-cubista e costruttivista, razionalità del prolet-cult e del primo realismo socialista sovietico, razionalità del Federal Theatre americano, del teatro politico di Piscator, del teatro epico brechtiano, del teatro nazional-popolare di Vilar e Planchon, razionalità dell’approccio storicistico italiano, del teatro “documento”, del teatro storico-dialettico, del teatro antibellicista e anticapitalista, del teatro della rivoluzione culturale di Dario Fo. Dimmi, ti prego Luigi, che in questo ingordo affastellamento di metodi serpeggiava una nota autoironica! Anche se in te si nascondeva qualcosa del Bouvard e Pécuchet, che avevi trattato assieme al tuo Kezich, pubblicandolo nel ’68 su .
Pensaci bene, i tuoi primi interventi registici si accompagnano a riduzioni da materiali narrativi, che trasformavi in strutture teatrali, perché oltre a Steinbeck avevi lavorato sugli Indifferenti di Moravia con cui avevi condiviso la versione per le scene, col trattamento puntualmente edito da nel ’47. C’era la Lux cinematografica alle spalle. Ma si avverte in ogni caso una pendolarità tra stampa e torchio, tra vocazione alla scrittura e immersione nella materialità del palcoscenico. E nel ’63 firmi la fortunata sceneggiatura nel Terrorista di De Bosio, per non citare anche il libretto dal Gattopardo portato in scena nel ’67.
Quando ti intervistavano in seminari a te dedicati sul mistero della tua proteiforme produzione, te la cavavi dicendo che era sempre teatro, l’oggetto in fondo essendo il medesimo, e che non amavi le specializzazioni intransigenti, nato com’eri a conciliare gli opposti. Poi a controllare i tuoi corsi bolognesi di ben 17 anni, i treni presi al volo il martedì sera per correre alle prove a Roma, si scopre un sistema di trasbordi, un taglia e cuci in termini elettronici dalla lezione alla regìa, perché gli autori dei corsi monografici corrispondevano puntualmente allo spettacolo che avevi in in cantiere, o nel cuore, appena concluso cioè o da progettare subito dopo. Leggevi in aula e chiosavi quanto poi avresti detto agli attori a tavolino, prima del loro spostarsi nel palcoscenico dell’Argentina. E il taglia e cuci presiede abitualmente nella riproposizione dei tuoi scritti e poi nella loro risistemazione, come avviene in Da Dioniso a Brecht del 1988, in Questa sera si recita Pirandello del ’90, in Da Amleto a Shylock. Note di regìa nel ’95. Nulla si spreca, ma tutto si ricicla, nella tua teorèsi, un procedimento che aborre l’entropia, in quanto recuperi le infinite introduzioni elargite a amici e a edizioni di autori o temi teatrali che amavi o che ti venivano richieste.
Aperto al nuovo, alle tecnologie più avanzate, fin da quando inserivi la televisione con interviste nell’ 8 Settembre e nel Giulio Cesare, entrambi del 1971. E nel Giulio Cesare additavi, da buon profeta, i pericoli insiti nel mezzo a manipolare l’elettorato. O quando per il tuo Pantografo portavi fuori sulla strada la radio, puntando su una nervosa alternanza tra flash back e flash forward. E avevi trovato nel Dams delle origini la casa ideale, specializzata a studiare dal vivo comunicazione e linguaggi. Dalla parte dei giovani, ancora e sempre, in qualche modo un mentore, un seminatore, un maestro. Tiravi fuori da loro l’identità natura espressiva. Anche con me, in fondo.
L’anno scorso sono tornato al Dams a presentare proprio Il romanzo della regìa, in un incontro promosso da Marco De Marinis. Al mio fianco, Claudio Meldolesi che arrivava disfatto dalla chemioterapia subìta pochi minuti prima. Tu non c’eri, stavi a casa. Poco prima avevamo scambiato per telefono saluti, auguri, e la mia promessa di venire a trovarti a Roma, impegno disatteso per il mio vile mio panico di vederti in condizioni di disagio e di impotenza. E di questo ancora mi scuso con te. Ci siamo sentiti pure quest’anno, quando mi hai spiegato le ragioni del dono prezioso, la tua biblioteca alla Fondazione di San Giorgio. La parola ormai era un gorgoglio rassegnato, modulato su soffi precari.
Ti ho detto alla fine, “Ciao Luigi, ti abbraccio”. Te lo ridico anche adesso, sentendo che mi torni vivo, presente e forte nell’assenza fisica, mentre si infittiscono dappertutto espressioni di cordoglio ai massimi livelli, davanti alla tua umile scomparsa.
Rifiorisci in qualche modo, grazie all’imitazione degli atti tuoi più positivi e pregni di futuro, gesti che hai sparso in giro per chi ha saputo coglierli. Specie la curiosità mai doma e una gentilezza accorata, acuita dagli anni. |