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IN RISPOSTA

RISPOSTA A GOFFREDO FOFI SUL DAMS
di Marco De Marinis

Le polemiche e le provocazioni, anche forti, possono e debbono essere accettate, ma per risultare davvero utili dovrebbero fondarsi, onestamente, su dati solidi e informazioni precise. Purtroppo, nulla di tutto questo troviamo nell’articolo di Goffredo Fofi C’era una volta il Dams pubblicato da “L’Unità” di domenica 17 ottobre. Spiace constatare come, in questa occasione, un intellettuale noto per le sue posizioni spesso coraggiose e controcorrente e per la vocazione minoritaria, si sia limitato a rimuginare – mettendoci di suo soltanto un’ostilità e addirittura un livore sospetti e sicuramente degni di miglior causa – i più vieti luoghi comuni circolanti sul DAMS, vecchi come la sua storia ormai quarantennale. Le affermazioni e le insinuazioni di Fofi avrebbero bisogno di una risposta ben altrimenti articolata di quella possibile ora come reazione “a caldo”.

Mi limiterò a confutare i capi d’accusa più importanti, confinando in premessa la correzione di imprecisioni e omissioni tuttavia gravi, riguardanti la storia di questo corso di laurea: che, tanto per cominciare, fu ideato e fondato da un illustre grecista e grande appassionato di teatro, Benedetto Marzullo, sul finire degli anni Sessanta. Fu lui (stranamente dimenticato dall’articolista) a chiamare, assieme a molti altri fra gli intellettuali e gli artisti più prestigiosi dell’epoca, anche i due soli citati da Fofi: Tomas Maldonado e Umberto Eco. Di quest’ultimo, egli crede di ricordare “un entusiasmo quasi contagioso” per il DAMS, che il sottoscritto – suo stretto collaboratore all’epoca – non ha mai colto, ricordando al contrario il fastidio malcelato con il quale Eco si rivolgeva spesso ai colleghi “teatranti” e la sua costante aspirazione a spostarsi in un dipartimento più “serio”, magari quello di Filosofia. Poi – come si sa – le cose andarono diversamente ed Eco – per scappare dal DAMS – inventò, da una costola dello stesso, Scienze della Comunicazione. Chapeau!

Ma veniamo agli addebiti più importanti.

1) Secondo l’articolista, le scuole Dams si sarebbero rivelate alla lunga “un bluff” e “il loro fallimento […] pare indubbio sul piano delle possibilità professionali: oggi i Dams sono una delle più attive fabbriche di disoccupati o precari”. Orbene, questo è indubitabilmente falso, anche se si continua a ripeterlo da sempre, in buona o in malafede. Tutte le statistiche ufficiali (ce ne sono numerose, anche di facilmente consultabili) dicono esattamente il contrario: e cioè che il tasso di occupazione dei laureati di area Dams è mediamente più alto, e spesso molto più ampio, di quello dei laureati di altre aree umanistiche. E non ci vuole molto a capire perché. In un mercato del lavoro intellettuale come l’odierno è evidente che un giovane formatosi ai nuovi linguaggi artistici e ai nuovi media, ma anche con solide conoscenze storiche (se ha messo bene a frutto il suo percorso di studi), possieda competenze più appetibili e spendibili a più ampio raggio rispetto –poniamo- a un suo collega di lettere antiche o moderne.

Questo non vuol dire, ovviamente, che anche i nostri laureati, come quelli dell’intera università italiana, non soffrano del forte scollamento fra mondo della formazione e mondo del lavoro che rappresenta un dato epocale, aggravatosi purtroppo negli ultimi anni anche per effetto della dura crisi economica e di discutibili scelte governative in materia universitaria (come, ad esempio, il varo del cosiddetto “tre+due” con l’introduzione dei trienni, i quali hanno prodotto un indiscutibile scadimento del livello della formazione universitaria basica, anche e soprattutto nell’area umanistica, Dams compreso ovviamente).

Mi sentirei comunque di rassicurare Fofi, e anche i genitori di cui tanto si preoccupa, sulla sorte “delle migliaia e migliaia di sventurati che si sono laureati nel Dams”. Del resto, la migliore risposta a queste “preoccupazioni” la forniscono i dati degli ultimi anni, che registrano una forte impennata delle iscrizioni al triennio Dams, almeno a Bologna. Evidentemente, accanto ai “genitori e studenti che maledicono le loro scelte” ce ne sono molti ma molti di più che la pensano in maniera opposta, con buona pace dell’articolista.

 

2) Il secondo capo d’accusa è culturale e costituisce in realtà il vero e proprio affondo finale del nostro astioso polemista.

“Che tipo di cultura hanno diffuso e prodotto i DAMS?” si chiede Fofi, che risponde ammettendo (e si tratta del passaggio più sincero dell’intero pezzo) “una forte idiosincrasia nei confronti dei laureati dai Dams”, per descriverli poi come “schiavi delle ultime mode”, con “gusti ‘barbarici’ che non vanno oltre la superficie del vistoso e del finto-nuovo”: insomma “una sottocultura imbarazzante e deprimente”. La colpa ovviamente – ed era qui che si voleva andare a parare fin dal principio – è dei docenti, descritti da Fofi come dei sessantottini narcisi e modaioli, che avrebbero sostituito “alla pedanteria dei vecchi professori di estetica una involuta ma ‘artistica’ allegria cresciuta su se stessa”. E qui si viene presi dallo scoramento.
Con chi ce l’ha Fofi? Verrebbe da chiedere: ma quali docenti DAMS ha conosciuto e frequentato in tutti questi anni? Il DAMS che ho conosciuto e frequentato io (al quale in realtà mi onoro di appartenere dagli anni Settanta, quando entrai nella pattuglia di giovani arruolati da Marzullo a Bologna accanto ai tanti nomi celebri) è quello nel quale hanno insegnato studiosi e intellettuali come il regista Luigi Squarzina (scomparso pochi giorni fa), Fabrizio Cruciani, Claudio Meldolesi, Ferruccio Marotti, Franco Ruffini e Giuliano Scabia, per il teatro; Franco Donadoni, Aldo Clementi, Mario Bortolotto e Luigi Rognoni per la musica; Adelio Ferrero, Franco La Polla, Antonio Costa per il cinema; Francesco Arcangeli, Gianni Romano, Anna Ottani Cavina, Anna Maria Matteucci e Renato Barilli per le arti visive; Martin Krampen, Mauro Wolf, Ugo Volli, Gianfranco Bettetini, Paolo Fabbri, Omar Calabrese per comunicazione, e ancora: il giornalista Furio Colombo, il grande italianista Piero Camporesi, lo scrittore Gianni Celati, il francesista Guido Neri, la psicologa e scrittrice Marina Mizzau. E tanti altri che adesso ingiustamente dimentico, compresi i docenti attuali e i numerosi giovani che, partendo dal Dams, si sono poi illustrati in svariati campi nell’ Italia negli ultimi trent’anni. “Sottocultura imbarazzante e deprimente” questa? Suvvia!

Una cosa va riconosciuta a Fofi, e vi accennavo in apertura: in questa filippica contro il DAMS non è certo solo. Sembra che quello di criticare il Dams, quasi sempre a sproposito, sia da tempo uno degli sport prediletti da molti intellettuali , che spesso su questo hanno prodotto le loro performance più modeste. Per fortuna, esistono anche le eccezioni. Per esempio (limitandomi a un altro prestigioso collaboratore dell’”Unità”) Moni Ovadia, il quale, anche di recente, ha avuto modo di ribadirmi la sua stima profonda per i laureati Dams (molti di essi li ha avuti e li ha come collaboratori) e quindi per la scuola che li produce. E con una battuta ha aggiunto: se toccano il Dams (si riferiva in particolare a quello bolognese), dimmelo che mi incateno davanti al Rettorato. Non sarebbe male se Fofi, come piccola penitenza per questo suo brutto articolo e come gesto di minuscolo ma concreto risarcimento, promettesse di fare altrettanto, al bisogno; magari vicino al magnifico Moni.

(Si veda anche la risposta di Renato Barilli sull'”Unità” del 18 ottobre dal titolo: “Caro Fofi, con il Dams si trova lavoro”).

 
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