Ai sensi della Legge 7 marzo 2001 n°62, si dichiara che Culture Teatrali non rientra nella categoria di "informazione periodica" in quanto viene aggiornato ad intervalli non regolari.ng

 

META(M)-TEATRO
EFFETTO MEGALOOP NEL SEGNO DELL’UROBORO
di Silvia Mei
Una mostra, un libro e un archivio per documentare creativamente e criticamente i 30 anni di attività artistica e di storia teatrale di una delle maggiori compagnie italiane, Tam Teatromusica, fondata nel 1980 da Michele Sambin, Pierangela Allegro e Laurent Dupont, diversamente provenienti dalle arti visive, dalla performance art e dalla musica (www.tamteatromusica.it).
Megaloop, titolo della “messa in mostra” e della monografia sulla compagnia, è il dispositivo con cui Sambin e Allegro, in collaborazione con Riccardo Caldura, hanno impostato quella che possiamo considerare una ciclopica (meta)creazione: a partire da Il tempo consuma (1979), la tecnica video del loop largamente usata, e in parte inventata, da Sambin, pionere della videoart italiana, viene qui applicata all’intera produzione di Tam, allestita temporaneamente (8 maggio-6 giugno 2010) nello spaziale e “futurista” Centro Culturale Altinate/S. Gaetano di Padova. Una mostra che ogni visitatore percorrerebbe all’infinito.

È un trend della più aggiornata critica audiovisiva parlare di rilocazione, ovvero la riconfigurazione di un’opera video, un’installazione, un’opera d’arte, oppure una pellicola (come film ma anche come materiale plastico da riuso) in uno spazio altro da quello deputato od originariamente concepito. I nostri musei, alienate trasformazioni delle Kunst e Wunderkammer rinascimentali, ne sono un prototipo di marca pop tra i più esemplificativi (si veda, poi nello specifico, la polemica sulla proprietà dei marmi Elgin, espunti dal Partenone e oggi al British Museum, sulla cui giusta collocazione si costruiscono scuole di pensiero e congressi di cervelli). E anche qui Tam è stato maestro e pioniere, pensiamo a de-Forma (2009) che si nutre del “preistorico” Il tempo consuma del 1979. Ma l’intera mostra attesta nondimeno uno straordinario sforzo rilocativo.

È tempo di bilanci, del resto. Diverse storiche realtà teatrali italiane, attive da vent’anni e oltre – penso ai Marcido Marcidorjs piuttosto che alla Socíetas Raffaello Sanzio – procedono à rebours nei loro trascorsi artistici, in cerca, forse, di antiche risposte a nuove domande.
Ma Tam Teatromusica non ha paura del tempo: con gli orologi ha sempre lavorato, fino a farne lo sfondo del nuovo uomo leonardesco, il cui metro, circoscritto nel quadrante, si automisura con gli arti-lancette innestati in strumenti-protesi. Perchè è l’uomo-musico il conduttore di un tempo che non si sforza di invertire, al contrario dell’eroe modernista di Fritz Lang, il rampollo filantropo Freder, nei sotterranei di Metropolis.
Non si è trattato nemmeno di salire in soffitta e di rovistare tra vecchie chincaglierie, di rispolverare col sentimento del reduce, vecchie armature di gloriosi lustri perduti. Il tempo per Tam è sempre ritrovato ed è all’insegna del ri-uso e della trasformazione che si è sempre mosso.

La sua arte scenica non può certo essere ridotta a tre parole: suono, luce, video. Perchè si tratta di una drammaturgia complessa, di una progettualità complessa, di una messinopera complessa…insomma, di un teatro complesso. Complesso a raccontarsi e a mettersi in mostra, pena le inevitabili omissioni e scelte dentro una teatrografia che ha coperto diverse aree di produzione – come il teatro-ragazzi cui è stato spesso ingiustamente ridotto nei secondi anni Ottanta, o il teatro in carcere – e a etichette à la page irriducibili al fare teatro di Sambin e Allegro (un “progetto” più che una compagnia, è stato osservato) – come quella di teatro tecnologico o multimediale, confinando nella sperimentazione più defilata e minoritaria in Italia, allergica all’alta definizione, una scena che della tecnologia ha fatto il mezzo e non il fine. Per questo il prezioso volume collettivo Megaloop. L’arte scenica di Tam Teatromusica, a cura di Fernando Marchiori (Titivillus, Pisa, 2010, con contributi di A. Attisani, R. Caldura, C. Grazioli, V. Rizzardi; cfr. www.titivillus.it) è meglio di un catalogo, perchè ne supera la parzialità e l’occasionalità legata all’evento, evita la tangenza degli interventi a favore della ricchezza di contributi dal taglio storico-critico e dall’ampio respiro, con inserti iconografici a colori e immagini di corredo ai diversi testi, utili supporti visivi che accompagnano la parola e il pensiero, e così generosamente elargite come le preziose clip del dvd allegato.

L’esposizione innanzitutto non è raggelata, asettica ma viva e pulsante: un percorso sonoro, libero e immersivo che si snoda accompagnato da collaterali azioni performative di nuove leve e collaboratori di Sambin-Allegro, che rimettono in circolo le prime opere, dove la componente ritmico-musicale contrappuntava una scena oggettiva e astratta: come in Armoniche (1980), spazio pentagrammatico in cui le note in forma umana percorrono un labirinto di rette e parallele.
Tutto parte dalle premesse che getta Michele Sambin a partire da quella memorabile Settimana della Performance 1977 al Gam di Bologna, invitato con Autoritratto per quattro telecamere e quattro voci, dove riproduce live su quattro monitor il suo volto, da segnaletica criminale, ruotando su uno sgabello con differenti combinazioni vocali legate alla posizione. Scriveva allora Roberto Daolio nella scheda sull’azione: “nella performance proposta si verifica che l’immagine (video) è lo spartito e quindi definisce il suono (voce) che ne è l’esecuzione. ‘Questi due momenti, progettazione ed esecuzione, non sono autonomi, ma esistono l’uno in funzione dell’altro’”. Così anche in Plying in 4, 8, 12, opera video che apre il percorso storico della mostra, ante Tam, dove l’uso del monitor si lega alle performance, rigorosamente live, di musicisti che rispondono alle improvvisazioni dei compagni,. Ciascuno strumento lentamente si scopre nello schermo, sorta di autopresentazione, sostituendosi al corpo - leitmotiv che tornerà nella produzione successiva, in Blasen, Se San Sebastiano sapesse e Perduta-mente, opere della prima metà degli anni Ottanta, dove lo strumento acquista una superficie tattile, perchè rivestito e sfoderabile, quando non assurge a corpo, in un rovesciamento della donna-violino di Man Ray in Le violon d’Ingres.
Ma sicuramente ad aprire il cerchio, l’anello, è l’opera destinata a segnare la storia della tecnica e dell’arte video, quella più concettuale, metafisica, politica che è Il tempo consuma, da cui per partenogenesi nascono altre opere come Opmet (1982) fino a de-Forma che arrischia un arrangiamento scenico di Nohow di Samuel Beckett, idiosincratico a qualsiasi tipo di interpolazione testuale e arditezza registica. Eppure quello spazio, quelle soluzioni di tempi lunghi, di attese, di movimenti fissi e vincolati non tradiscono affatto la scena sospesa e interminabile dell’assurdo beckettiano. E’ solo una questione di tempo.

Appare comunque subito evidente come la mostra si possa scomporre secondo tre livelli, che costituiscono la densità (in senso musicale) delle componenti: il livello delle riproduzioni scenografiche (in scala o reali); il livello dei documenti video degli spettacoli in cui includere, per semplicità, le opere di videoarte e le ricre-azioni performative dal vivo; il livello della produzione grafica, legata all’ideazione, progettazione, sviluppo che registra la visionarietà e insieme la realizzabilità di un’azione scenica. Proprio come commentava Daolio nel 1977, il video diventa lo spartito – e lo storyboard grafico ne è invece la partitura. I disegni esposti dunque non fanno certo da contorno alla pietanza sapida degli oggetti sospesi o delle ricreazioni di ambienti e arredi (come per Barbablù, in principio del 2000 o Children’s Corner, 1986); qui la grafica si contende il centro del piatto, per la nettezza dei tratti e la soluzione visiva di spettacoli, per la rapidità ed efficacia del segno che nella simultaneità dei quadri espone un’azione.

Ma del resto il teatro è scritto sull’acqua, realtà cui si è dolcemente arreso il Novecento teatrale, e si rigenera nel fuoco. Le arti performative appartengono al dominio dell’effimero, e il transitorio pertiene allo statuto evanescente del teatro, ma in qualche modo anch’esso è “uno specchio dotato di memoria”, per riprendere Oliver Wendell Holmes a proposito della fotografia: memoria individuale, affettiva ed emotiva degli spettatori; memoria collettiva, civile, pubblica di una comunità; e infine memoria meccanica, su supporto magnetico o in digitale, che preserva la rimozione e non la evoca come qualcuno ancora oggi insiste sostenendo che “la performance diviene se stessa attraverso la sparizione”.
Sono semplici considerazioni che ci restituiscono l’importanza del necessario e per impostazione pionieristico Archivio di Tam Teatromusica, che raccoglie oltre alla documentazione visiva degli spettacoli, quanto compete ad un archivio (anche in formato digitale): non solo foto, ma anche articoli di quotidiani e riviste specializzate, corrispondenza, ricevute di spesa, contratti…
“Lo sguardo inquieto dietro il raffinato tratto, la commistione di linguaggi, il ricercare – nel senso musicale – come disposizione culturale”, scrive Marchiori nella premessa al volume, “ hanno determinato l’evolversi dei principi compositivi quanto i metodi i trasmissione del proprio operare e addirittura i criteri di archiviazione di un’esperienza artistica così composita e ‘interdisciplinata’, la consegna di un’eredità che vuole rimanere viva e dunque continua a mettersi in gioco. […] L’Archivio Tam […] lo conferma, dato che tutti i materiali iconografici, video e testuali degli ottanta spettacoli sono stati non meramente registrati e catalogati, ma ripensati e rimontati nel corso di un accurato lavoro di digitalizzazione. Una memoria ‘tradita’ dai suoi stessi autori per amore di un’arte viva, della vita nell’arte”.

Tutto sommato, alla fine della storia, la formula andrebbe ripensata: il teatro consuma il tempo, la memoria lo riattiva.
 
Sito realizzato con Joomla - Realizzazione grafica: Enrico De Stavola
condividi