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reportage_sudamerica
TEATRI NUOVI DAL NUOVO MONDO
Travelogue
nella scena sudamericana
di Silvia Mei

Il teatro sudamericano, è noto, ribolle di novità e di ultimi ritrovati che non tardano a raggiungere i nostri lidi gemmando iniziative tematiche quando non veri e propri fenomeni che precipitano spesso in coproduzioni festivaliere, iniziative editoriali, residenze artistiche.
É avvenuto così – ma si tratta di un fenomeno ancora in corso che deve raggiungere il suo acme – per il teatro argentino, o meglio porteño. Doverosa precisazione, dal momento che il teatro della “provincia” – come si dice un po’ spregiativamente di quanto esiste fuori dalla capitale argentina – è molto diverso e spesso di minor pregio.
Dopo Eduardo Pavlovsky e Ricardo Ba
rtíz – punte della vecchia guarda del nuovo teatro (leggere dramma) a Buenos Aires  è stata la volta di autori-registi e scafati attori come Daniel Veronese (www.autores.org.ar/dveronese/) e Rafael Spregelburd (www.rafaelspregelburd.com.ar) molto più europeizzati di quanto danno a intendere - che stanno conoscendo nel vecchio continente una stagione decisamente felice. Questi ultimi, più marcatamente dei predecessori e con piglio autonomista, hanno operato una vera e proprio apertura del dramma e rottura della rappresentazione, pur mantenendo un'allure autoctona. Lungo questo spartiacque – che potremmo prudentemente denominare “generazione di mezzo” – dobbiamo anche inserire il nuovo fiore all’occhiello della drammaturgia (leggere teatro) argentina, il giovane e rampante Claudio Tolcachir (www.timbre4.com), autore-attore-regista che sta impazzando in Spagna e in Francia, meritando qui ben cinque settimane nella prestigiosa piazza del Théâtre du Rond Point (dal 15 ottobre al 20 novembre), riserva indiscussa di Pippo Delbono, Socíetas Raffaello Sanzio ed Emma Dante.

Dopo l’exploit che gli ha meritato un riconoscimento internazionale col superlativo La omisión de la familia Coleman (passato a Milano-Tramedautore e Modena-Vie nel 2008), Tolcachir si è impegnato in diverse produzioni tra cui l’ultima perla, che è Tercer cuerpo. (La  istoria de un intento absurdo), dove alla compattezza e organicità dell’affresco familiare argentino post 2001 degli sventurati ma felici Coleman – roba da bassi napoletani che permette di azzardare un collegamento solo ideale con Bizarra di Spregelburd in salsa partenopea (vedi al trascorso Napoli Teatro Festival Italia la messinscena di Manuela Cherubini) – oppone la trama e l’ordito di due storie simultanee che si svolgono nello stesso spazio-tempo della pièce e che alla fine trovano un incontro – quantomeno opportuno, non tanto per la vicenda quanto per lo spettatore che va a casa contento della sua storia con finale a sorpresa. Non si tratta semplicemente o soltanto, come è stato ben argomentato storiograficamente, di un “teatro al tempo della crisi” (economica, evidentemente, quella dei famosi bond, dopo la quale l’Argentina non è più stata la medesima), piuttosto di un teatro della crisi: del dramma, della rappresentazione, del testo (in tutto il suo portato semantico).
Sia Veronese (del quale ricordiamo en passant almeno Espía a una muher que se mata, passato a Milano-Tramedautore nel 2008, e Hedda Gabler, in versione short soap, per Santarcangelo 40/2010) che Spregelburd e, diversamente, Tolcachir promuovono un nuovo teatro dell’assurdo che nel forte impianto drammatico messo alla prova dalla scena e dal lavoro collettivo (pregnante in Tolcachir) rovescia come un calzino il testo manipolandone le strutture portanti con disinvoltura e leggerezza. Ma è evidente quanto la scena e i suoi attori offrano il destro a simile microchirurgia, quasi fossero il bisturi che incide i tessuti e sventra quel corpo inerme che è il dramma oggi. Dunque l’assurdo come salvataggio e/o soluzione? Pare esser così pure per l’emergente Santiago Loza, anche cineasta, che ha in corso a Buonos Aires tre spettacoli nella messinscena di Lisandro Rodríguez, per un vero e proprio Kammerspiel nella linea del teatro del living dei nomi fatti sopra. Spazi da soggiorno, da living room per l’appunto, diventano in Asco o La vida terrenal (a Elephante Club de Teatro, uno dei tanti spazi off-off-off ritagliati in vecchie botteghe, www.alternativateatral.com) praticabili e occasionali spazi di incontro, diversamente surreali nelle soluzioni sceniche e scenografiche di Mariana Tirannte e Nora Lenzano (disegno luci e fotografia) che fanno dell’aire du jeu un cubo ritagliato dalla scatola scenica: frammento di un tutto disperso o momentaneamente amputato. Si tratta di due esilaranti monologhi: il primo, Asco, è in verità un monologo travestito da duetto tra un logorroico portiere di notte (Mucio Manchini), in fregola ossessiva, che investe delle sue fantasie erotiche e avventure condominiali il catatonico sbigottito e mal capitato vicino (Tulio Gómez Álzaga): dalla fascinosa del settimo piano alla moglie fantozziana Marta, dalle sveltine in ascensore ai sogni di impossibili vite altre (condite naturalmente di molto sesso). La vida terrenal è al contrario lo spazio metafisico (o parafisico) del racconto di una giovane corpulenta in costume olimpionico e delle sue prime esperienze legate al risveglio del corpo e al richiamo dei sensi, infarcito di battute e tempi comici mentre la strepitosa interprete, Verónica Hassán, esegue con eleganza e millimetrica precisione atletica esercizi di riscaldamento da nuotatore. Anche qui, come in tutto il teatro argentino, ciò che sorprende è l’arte attorica che sembra esprimere un’unitaria scuola tecnica per la naturalezza e la spontaneità che la distingue, lontanissime dalle nostre contraffazioni vocali e artefatte fisicità. Di tutt’altra fatta il teatro popular-commerciale di Corrientes, l’arteria che taglia Buenos Aires portando al Rio de la Plata nel riqualificato Puerto Madero. Accanto ai richiami da Broadway di musical, commedie brillanti e varietà d’ispirazione televisiva, non mancano grandi firme – non si esentano i già ricordati “off-off” Veronese e Tolcachir, dotati di rara versatilità – con grandi ritorni come Alfredo Arias, regista transfuga in Europa durante i terribili anni della dittatura, per il Complejo Teatral de BA, che promuove un teatro popolare d’arte e d’autore - un equivalente del nostro migliore teatro di prosa e di regia gestito da un unico ente (www.complejoteatral.gov.ar).
Tatuaje
, coprodotto anche dal Théâtre du Rond Point di Parigi, è la messa in canzone dei souvenirs teatrali del giovane Arias, qui in scena, nei panni compartiti da altri due attori (Marcos Montes e Carlos Casella) di Miguelito Maravillas, nom de plume di un celebre cantante da rivista en travesti anni Quaranta. Accanto a lui la focosa Conchita-Malena e Eva del Sur, chiara copertura nominale di (Santa) Evita, per raccontare l’âge d’or dell’Argentina ante Peron e peronista – rigorosamente fino al 1952, anno della dipartita di Eva. Niente di più lontano dai musical hollywoodiani e di più vicino al teatro-canzone nostrano, interamente giocato in uno spazio spartano con quinte-pannelli di sbieco nei colori della memoria, il bianco e il nero, con guizzi di luce rossa, viola e gialla nel maquillage e negli accessori. Da Balada para mi muerte di Piazzolla a Diamonds are a girl’s best friend, la “coreografia” si muove nella staticità manieristica del toreador e del ballerino di flamenco,
simboli di quella Spagna franchista da cui scappa Miguelito nel suo pellegrinaggio artistico, sorta di metafora à rebours di Arias. Gli attori-cantanti sono eccellenti, soprattutto i virtuosismi vocali e le cangianti intonazioni di Alejandra Radano. Potente e densa la limpida Sandra Guida nei panni di Eva del Sur, confusa nella fiction scenica col personaggio storico di Evita, ancora aureolata di un mito che è valso all’interprete una standing ovation.

A 444 chilometri da Rio de Janeiro, nel profondo Brasile delle miniere d’oro e del sertão, Belo Horizonte, capitale dello stato di Minas Gerais, è oggi una nuova capitale teatrale del Sud America. Non solo per la presenza del FIT-BH (www.fitbh.com.br/2010) - biennale internazionale alla sua decima edizione, partita inizialmente come festival del teatro di strada - ma anche per una serie di notevoli altre manifestazioni di ricaduta sovranazionale e sovracontinentale. Nei giorni del FIT la città vive l’effervescenza di una spettacolarità diffusa con le tre sezioni di teatro da sala, spazi alternativi e teatro di strada. Non meraviglia, in linea col sincretismo rutilante brasiliano, la mescolanza dei linguaggi e delle abilità sceniche con maggior valorizzazione del canto e del corpo, soprattutto nell’arte circense. Ma la dimensione internazionale non è solo nominale e accanto ai vicini argentini, peruviani e colombiani figurano gruppi da Spagna, Francia, Italia, Corea del Sud. Il programma è fittissimo ma tra tutti ha primeggiato Das saborosas adventuras di Don Quixote, spettacolo de rua del Teatro que Roda sul leggendario eroe popolarissimo anche nella cultura media di ogni brasiliano (teatroqueroda.blogspot.com). La regia è di André Carreira, docente all'Università di Florianopolis, studioso della nota epopea e specialista di teatro cajero oltre che metteur en scène. L’azione si compone su due livelli narrativi (astratto del coro di ancelle, realista dei due protagonisti) in una continua epifania di visioni in bianco rappresentate dal corteo di spose di Dulcinea, calatasi con corde da vertiginosi grattacieli del centro insieme ad un Quixote-manager in giacca e cravatta.
Ma è esattamente intorno al fuoco di Praça Sete, centro di smistamento del traffico urbano, nel nodo commerciale all’ombra di un’architettura modernista, che si sposta lo sgarrupato carretto hand made (ideato da Júlio Vann) del cavaliere e del fido scudiero. Niente di più sofisticato nella regia, soprattutto nella scelta di lavorare sulla verticalità come ulteriore superficie, sulla voce non amplificata che costringe ad una partecipazione più attenta, sul continuo spiazzamento degli astanti nelle soluzioni drammaturgiche di svolta e montaggio delle azioni, iniettando di contemporaneità i deliri mitomani di Quixote (Dionísio Bombinha) e la furia travolgente di Sancho Panza (Liz Eliodoraz en travesti). Alla violenza dell’inquinamento acustico, della folla non curante delle piccole tragedie quotidiane della strada, dell’isolamento e della dispersione degli immensi spazi urbani, Carreira risponde con quella stessa violenta e alienante realtà messa in fiction, blandita o forse fatta detonare da bianche spose trasportate da trattori, in fila su cornicioni o bellicosamente al centro di incroci pericolosi. Mai più azzeccata soluzione finale: dopo tanto baccano un’auto della polizia fa irruzione e di peso due agenti in passamontagna caricano il folle vecchio nel bagagliaio. Una sgommata sigilla il finale. Qualcuno rimane col dubbio che lo spettacolo sia stato interrotto per disturbo della quiete pubblica e si attendono segnali dalle maschere appartate. Era tutto un gioco? Intanto un vero barbone, in disparte, presidia il carretto-cocchio: è probabile – spera il poverino – che in tutto quel trambusto nessuno lo reclami.

 
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