Ai sensi della Legge 7 marzo 2001 n°62, si dichiara che Culture Teatrali non rientra nella categoria di "informazione periodica" in quanto viene aggiornato ad intervalli non regolari.ng

 

CONVERSANDO CON PIPPO DELBONO

di Antonino Pirillo

ANTONINO PIRILLO: Chi sono le persone che stanno in scena? Si possono ancora oggi chiamare attori? O performer, attanti, figure?

PIPPO DELBONO: Credo che in questi anni ci sia stata una rivoluzione importante nell’arte di cui ancora non ci si è resi conto. Non si sono resi conto soprattutto coloro che questo teatro dovrebbero programmarlo, comprarlo e scriverne. In effetti ci sono stati dei cambiamenti inevitabili che hanno modificato il senso della rappresentazione. Il teatro è un territorio che rimane però sempre più indietro rispetto a tutte le altre arti, se pensiamo alla musica contemporanea la quale è stata protagonista di grandi movimenti di innovazione; al cubismo per che ha trasformato un modo di vedere. Il teatro invece non ha grandi movimenti innovativi e in teatro trasformazione vuol dire trasformazione di tutte le sue componenti. Come lo trasformi il teatro? Come il cubismo la trasformazione sta nella composizione, invece il teatro rimane in alcuni suoi elementi assolutamente vecchio: le scuole, la formazione, l’impostazione, il rapporto con il corpo, , cosa si insegna a scuola, cioè si fa un po’ di corpo, un po’ di mimo, un po’ di danza, un po’ di studio del testo, un po’ di psicodramma. E in effetti non sì è mai contaminato di tutti quegli elementi che poi sono stati fondamentali in questo secolo, la danza, il teatro danza di Pina Baush. Io mi considero figlio di quell’innovazione anche se in effetti non c’è un movimento in cui questa danza sia entrata influenzandone il linguaggio, l’immagine: c’è la musica, c’è tutto quello che avrebbe dovuto contaminare la rappresentazione.

 

A.P.: Ma rispetto all’attorialità?

P.D.: Anche l’attorialità cambia valore? Io sono all’antica. C’è un mestiere d’attore, c’è qualcuno che sulla scena si fa tramite di un’esperienza. Quindi in qualche modo credo molto nella forza del mio lavoro.

 

A.P.: E a che tipo di lavoro si riferisce?

P.D.: Politico. Non mi piace proprio il rapporto concettuale. Mi piace il teatro che nasce dall’attore. Avere una bella idea e metterla in scena  è sempre un bel rischio anche se l’arte contemporanea va in quella zone. L’ultimo mio spettacolo La menzogna è oggettivamente lo spettacolo che sta più lontano dal concetto di attore. Qualche volta c’è una rappresentazione quasi una forma di installazione. Però c’è una grande  differenza…Io ti posso spiegare ogni principio, ogni passaggio che hanno a che fare con una storia del teatro molto antica. La mia formazione attinge dall’Odin Teatret, che a sua volta ha attinto dal teatro orientale, a tutti i principi della forza drammatica che sta in uno stop. Tu non puoi innovare qualcosa se non ti porti dietro l’esperienza dei maestri. Non puoi innovare se produci un sistema vecchio. La vera rivoluzione è nel linguaggio. Comunque è cambiato, deve cambiare il senso di essere attore…

 

A.P.: Deve comunque scegliere una definizione tra attore, performer, attante o figura…

P.D.: Attore… performer non mi piace… attante che vuol dire?

 

A.P.: Attante è che lui che “fa” senza una motivazione psicologica (Greimas).

P.D.: No. Oppure?

 

A.P.: Figura.

P.D.: No allora scelgo “attore”. L’attore è una cosa diversa…

 

A.P.: che senso?

P.D.: È diverso. È un attore che prende un po’ di tutte queste cose.

 

A.P.: Si però c’è differenza all’interno della sua stessa compagnia tra lei, che ha una formazione attoriale, e le altre persone che non si possono chiamare attori, ma che presentano invece un’esperienza diversa.

P.D.: Ognuno mette nell’atto creativo la propria esperienza, la propria storia però poi è chiaro che il segno che ognuno porta dentro è un segno che diventa in qualche modo performativo, diventa una lucidità. Non c’è un percorso psicologico. Nessuno dei miei attori entra in un personaggio. È la persona che entra ed esce da un gioco. Non c’è tanta differenza tra me e il Sig Nelson: quest’ultimo ne La menzogna si mette a terra, rappresenta l’operaio morto e poi nell’intervallo vende i quadri, cioè gioca con il gioco del teatro. Bobò che si veste elegante rappresenta un maestro di cerimonia ma allo stesso tempo ritorna Bobò.

 

A.P.: Trasformisti quindi?

P.D.: Trasformisti senza un percorso di personaggio. Non mi interessa il personaggio.

 

A.P.: «Il personaggio» dichiara Reza Abdoh «per me è un’unione di simboli e segni, una cornice psicologica ed emotiva abitata da una persona piuttosto che da un personaggio che ha un proprio percorso…. Che fine ha fatto il personaggio nel teatro del secondo Novecento?

P.D.: Il personaggio esiste ancora nel teatro del duemila. Non vedo soluzioni diverse nel teatro classico.

 

A.P.: Comunque il personaggio è sempre legato al testo…

P.D.: Certo è legato al testo, all’interpretazione delle parole. Per esempio quando “faccio” Enrico V,  uso le parole di Shakespeare per emettere suoni, colori, e uso un corpo, un modo di correre, di camminare, ma c’è sempre una persona, una risata che è la mia.

 

A.P.: Insomma più attento alla forma che al contenuto.

P.D.: Il contenuto è una questione di forma poi; il contenuto è più profondo e si disegna con delle linee come in un quadro stilizzato giapponese. Non si può dire che non ci sia contenuto…

 

A.P.: Ma è secondario?

P.D.: Però non parte dall’emozione perché l’emozione è anche molto banale. È troppo facile l’emozione. Come nel cinema, basti pensare in Bergman in cui c’è tutto un rapporto con il  segno, lo  sguardo, le direzioni. C’è sempre un modo di dipingere. È scientifico.

 

A.P.: Si riferisce alla tecnica?

P.D.: C’è una tecnica. L’anima viene fuori dopo. Se si ha qualcosa da dire, la propria storia personale poi viene fuori ma non si parte da quell’esperienza personale per lavorare. Per esempio anch’io che faccio teatro autobiografico, la mia esperienza personale è assolutamente segno: in Racconti di giugno, un monologo che sembrerebbe una seduta psichiatrica e invece anche lì sono chiari le pause, i ritmi; anche se è la propria vita, ancora di più, allora l’attenzione non è a tirare fuori ma piuttosto a far diventare politico il privato. È importante non perché si voglia raccontare i fatti propri ma perché ci si guarda come occhio esterno, cioè ci si guarda dentro e fuori di sé. E infatti oggi Franco Quadri ha scritto su la Repubblica a proposito de La menzogna che con il tempo quest’autobiografia è divenuta sincerità. E quindi la propria storia non è più la propria storia e la metti così a disposizione degli altri perché è diventata un segno.  Invece la messa in scena di testi è sempre stata noiosa per me. È il nostro vecchio teatro.

 

A.P.: Nei suoi spettacoli c’è sempre una separazione tra attore che racconta e varie altre figure, corpi “di luce e di ombra” già personaggi in scena, insomma corpi con una loro storia. Si può parlare di scissione dei vari codici? E ciò presuppone una perdita dell’io?

P.D.: A me sembra molto importante la scissione. È nella scissione che si trova una nuova verità.

 

A.P.: Perché?

P.D.: Perché altrimenti si cade nel naturalismo. Per esempio nel mio spettacolo dico più volte “dimmi che mi ami” come un suono, una nota. Il mio corpo, il mio sguardo lavorano in un’altra direzione, forse opposta, la mia mente sta in un’altra zona e questa scissione non naturalistica fa trovare qualcosa che secondo me è molto più forte del naturalismo e c’entra di più con la verità. Trovo che ognuna di queste cose viaggi su binari diversi, messe assieme dal montaggio. L’io come un tutt’uno lo trovo poco interessante. Anna Magnani che corre verso il figlio morto  piangendo e grida “Francesco” è un pezzo di cinema straordinario ma noi non siamo più frutto di quel linguaggio. La pateticità in questo tempo è estremamente pericolosa: i politici che vanno piangendo in visita ai terremotati dell’Abruzzo. Preferisco far vedere da una parte la faccia di un politico dall’altra le parole di un altro politico da un’altra ancora il terremoto. Smembrare gli elementi e rimontarli in un altro modo. Smontando la realtà si riesce a comprenderla meglio. È lo stesso procedimento che avviene nel cinema. Ultimamente mi sono avvicinato al cinema perché mi interessa molto lo smontaggio e il montaggio. Una musica che contraddice o che può anche agevolare. Tutti gli elementi sono indipendenti ma poi si innescano. Ed è che così che si possono vedere le cose nuove nonché più interessanti e più vere. Alla fine paradossalmente nel non voler raccontare e anche nel non voler capire, si capiscono le cose più profonde, attraverso quindi quella scomposizione che mi ricorda Picasso e il cubismo.

 

A.P.: Alcune figure mute dei suoi spettacoli sembrano manichini che ogni tanto si ricordano che devono muoversi. Spesso infatti danno davvero la sensazione di essere come “richiamati dall’esterno” e posseduti da una vita che non è loro. Vorrebbe commentare?

P.D.: Penso che nei miei spettacoli tutto è vero e tutto è costruito. Io posso decidere di indicare la strada a Bobò ma lui sa esattamente dove deve andare. Fa quello che vuole lui. E poi c’è una finta ideologia, democrazia, comunismo che fa si che crea i valori del “poverino”. È una visione un po’ “borghesina”: “perché se questa persona non parla forse non sarà cosciente”. È una banale analisi buonista. Quando hai scelto come protagonisti persone che la società in qualche modo li ha considerati nulli e che invece tu consideri straordinarie, geniali, tutto il resto non conta. È un problema solo borghese, di chi va una volta alla settimana a fare beneficienza ma non per chi ci vive.

 

A.P.: Questo buio feroce è lo spettacolo della sua assenza (stessa funzione ha avuto Danio Manfredini ne Il Silenzio). C’è poco in scena, per la prima volta anche lei diventa una figura come Bobò, Gianluca, Nelson. Si assiste a un Pippo sdoppiato, la voce da una parte, registrata, e il corpo dall’altra. Anche quando appare per esempio sulla poltrona durante la macabra sfilata di carnevale che evoca Venezia agonizzante “Venezia sta morendo”, sta seduto, guarda il pubblico, si osserva da spettatore. Si trova d’accordo con il fatto che l’attore oggi debba essere spettatore di se stesso?

P.D.: L’attore che si guarda… beh io sono molto legato alla tradizione dell’attore sciamanico. I dervishi che sono completamente perduti ma nello stesso tempo si guardano, hanno per esempio un’attenzione a non cadere. Uno sdoppiamento totale. Questo sdoppiamento su di me come attore è quell’essere dentro perduto, è quell’essere dentro guardandoti. Ti lasci perdere, ti lasci guardare per cui sei incosciente psicologicamente ma cosciente totalmente. E questo è il fatto più importante che appartiene alla mia esperienza, alla nostra e che fa differenza rispetto ad altre  esperienze che presuppongono un modo molto particolare di essere attori e di stare sulla scena.

 

A.P.: Questo distacco a cosa sarebbe legato?

P.D.: C’è un distacco e c’è un essere. C’è un corpo, un grande rapporto con la presenza fisica.

 

A.P.: Che è governata dalla mente?

P.D.: Sì, è un rapporto che si può vivere solo se si è in uno stato straordinario che è difficile spiegare; si può solo vivere: due persone camminano di spalle e si fermano nello stesso momento ma non si stanno vedendo, ovvero vivono l’esperienza dello stare assieme non psicologica ma energetica, in cui  alleni le tue attenzioni. Questo stato è legato a una tradizione sicuramente non dell’Occidente, lo yoga per esempio. Nell’Occidente può capitare, anche se si resta legati all’aspetto psicologico-interpretativo. Si arriva anche a quello straordinario ma il percorso è molto più lungo.

 

A.P.: Ma se lei e i suoi “attori” non interpretate, che fate in scena?

P.D.: È quello stato molto speciale che io ho raggiunto per una serie di coincidenze della vita anche casuali. Da una parte c’è stata un grande lavoro per una tecnica che mi ha fatto superare certi limiti sulla coscienza, a esempio in Danimarca lavoravo con un training molto duro, strano, folklorico ma di grande sapienza; per me era difficilissimo quel lavoro ma sono stato uno di quelli che vi si è buttato a capofitto e alla fine il training l’ha assimilato tanto che quando Eugenio Barba è venuto a vedere il mio Enrico V mi ha detto “il training ti è entrato dentro, ti ha posseduto”. In effetti Barba ha ragione che il training sta tutto dentro ma nel frattempo c’è stato un corpo ferito, le gambe che non potevano più camminare, la malattia, la follia. Tutto questo fa si che questo tipo di attore è uno che non parla più nessuno e si crea un grande silenzio. Io mi sento più vicino a Umberto Orsini perché almeno con lui mi posso confrontare con una tecnica. Invece c’è una generazione di teatranti che ha avuto belle idee che ha fatto bei spettacoli ma che non è interessata al lavoro dell’attore. Io non contesto ma devo invece dire che per me risulta indispensabile.

 

A.P.: Nel teatro attuale non c’è monologo né dialoghi ma a solo. Il monologo presuppone una sorta di relazione con il gruppo o con i partner della scena, che nei suoi lavori non c’è quasi mai. Cosa distingue l’a solo, secondo lei.

P.D.: Non capisco. Non trovo sia una domanda intelligente. Per me non c’è differenza.

 

A.P.: Non ci sono dialoghi nei suoi spettacoli, a esempio in Urlo, l’unico dialogo è quello tra Umberto Orsini che racconta a Bobò delle morti dei re tratto dall’Enrico II di Shakespeare. È un dialogo di una tenerezza brutale che spiazza: Orsini parla con le parole di Shakespeare e Bobò risponde in playback della sua stessa  voce. Ritengo che sia il punto cruciale dello spettacolo da un punto di vista meramente riflessivo sul suo fare teatro ma anche sul fare teatro di altri gruppi che lavorano con attori e non attori: due mondi a confronto quindi, da una parte l’attore di tradizione, di professione dall’altra Bobò, una persona. Come supera questa differenza sostanziale a livello proprio di lavoro per la scena.

P.D.: Con Orsini, che aveva un grande desiderio di mettersi in discussione, è stato un rapporto molto interessante.  Chiaramente lui si portava dietro una struttura molto forte, “un modo di…” e nonostante ciò è stato molto generoso a “restare lì”. Ma un attore di tradizione resta in piedi, non deve fare visivamente nulla e mi chiede “ma Pippo che devo fare qui in piedi” e io gli rispondo “beh puoi benissimo stare lì perché tu sei assolutamente tutto”. Se uno ha una storia formativa come la mia può tranquillamente stare fermo e lavorare tantissimo,  con gli sguardi per esempio. Se uno invece viene da un’altra formazione trova invece la difficoltà. Sono stato l’unico a mettere Umberto Orsini seduto. È stata un’esperienza non facile.

 

 

A.P.: Ma a livello scenico?

P.D.: Erano due storie che si confrontavano: c’era una vicinanza rispetto all’uso della voce, entrambi facevamo duetti di testi. Diversa è l’impostazione. Per me la voce è musicale, molto diversa dalla sua, quasi all’opposto. Lui è molto ronconiano  per quanto riguarda l’impostazione. Io invece sono per la musicalità. Io so che quando dico le parole di Oscar Wilde ho un rapporto diverso. Con le parole ho uno strano rapporto, infatti quando le pronuncio sono la mia vita. C’è qualcos’altro, c’è una storia diversa che ha fatto si che quando dico le parole di Wilde ma anche di Shakespeare la gente pensa che siano parole mie. È un’altra storia.

 

A.P.: L’uso del microfono come possibilità di separazione dall’io (a esempio in Questo buio feroce i monologhi della Ragazza Italo/americana o dell’Uomo in giacca di lurex color oro), spersonalizzante, di riuscita lontananza dal proprio “sentire”. Che significato ha per lei parlare di spersonalizzazione in scena se poi invece ha scelto come compagni di viaggio persone con una loro storia personale invalicabile?

P.D.: La storia invalicabile ce l’hanno tutti solo che se la dimenticano. Innanzitutto partiamo da lì. Bobò ha avuto una storia particolare per cui soffre di più, piuttosto ha avuto una storia come l’ha avuta Umberto Orsini. Non c’è differenza. Bobò ha la fortuna che essendo stato in certe zone ha più lucidità da artista. Per me l’artista è colui che sta sempre in quelle zone lì. Gli altri non è che non ci siano, solo che gli altri si annebbiano di più. Per me Bobò è più fortunato, è più lucido; come Nelson è più felice. Per me le persone “realizzate”  hanno una grande sofferenza. Io la sento più in Berlusconi che in Nelson. Berlusconi fa quasi pena, Nelson no. Ma la società non la pensa così e dirà che Berlusconi è un “arrivato” e Nelson no. Lo sguardo è quello. Ma Nelson è libero, è lucido, come anche Bobò. Sono persone che come il lupo ancora guardano la foresta. Per me sono degli artisti.

 

A.P.: Ma circa il microfono?

P.D.: Ma il microfono è un altro tema. Non mi piace il teatro che spesso obbliga a usare la voce forte per arrivare fino alle ultime file. O si grida ma il grido è musica, nel grido non c’è psicologia. Quando invece si forza spesso si tocca una leggera pateticità della voce e non ci si può ascoltare, non si può usare la voce come pensiero, non si può entrare in quel linguaggio cinematografico che a me piace molto. Il microfono permette paradossalmente di non esibirsi, di non dover arrivare alla signora dell’ultima fila come ci hanno insegnato a scuola. La voce esce se deve uscire ma alcune volte può anche non uscire, pertanto bisogna vincere quella retorica che vuole che la voce esca a tutti i costi. Non mi piace lo stereotipo. L’avvicinare e l’allontanare il microfono presuppone una coscienza, una lucidità. Nell’Enrico V prendo finalmente il microfono e leggo, anche il leggere ha la stessa funzione: guardo, leggo ma non sono più io quello che dico. Mi sembra più giusto. Leggo anche parole che ho scritto di cui non ricordo più, però in quel leggere io emergo come persona che dice quelle parole che vede. Ci sono piani diversi e poi la verità viene più fuori. Il teatro deve essere sobrio.

 

A.P.: In ogni suo spettacolo c’è sempre una danza o un accenno di danza, che sembra nascere in maniera immotivata. Perché?

P.D.: Un accenno di danza? In maniera immotivata?

 

A.P.: Beh sì, in Questo buio feroce, lei a petto nudo nel finale…

P.D.: Ma quello non è un accenno di danza.

 

A.P.: E che cos’è?

P.D.: Come l’ha definito la Bentivoglio, che è la più grande studiosa contemporanea di danza, è un assolo di danza. Certo se come danza intendi il balletto… se invece danza vuol dire raccontare con il corpo la forza, la fragilità, la possibilità, l’impossibilità, la morte con il corpo, allora è assolo di danza.

 

A.P.: La critica lo definisce un attore-regista politico. Come esprime la dimensione  politica nei suoi spettacoli?

P.D.: Per me politico è diverso da partitico, anche Shakespeare era politico. Anche il teatro greco. Il teatro è polis. Secondo me il teatro è fatto di persone che si riuniscono per confrontarsi su un fatto. C’è un senso politico. Già che delle persone decidano di riunirsi in una sala e stanno insieme, come dice Bergman che a me piace molto, è un incontro tra esseri umani e il resto non conta. L’incontro tra esseri umani è già un fatto politico.

A.P.: E il successo di critica e di pubblico unanime, nazionale e internazionale, a cosa è dovuto secondo lei?

P.D.: Il successo di critica non è poi così unanime. C’è Renato Palazzi che mi detesta. Palazzi dice che faccio teatro con gli handicappati senza tetto. Io non mi sento mai arrivato. Io da buon ligure sono come mia madre infatti quando le chiedo “mamma va bene?”, lei mi risponde “guarda Pippo che non è tutto lì”. E allo stesso modo quando lei mi chiede “va bene Pippo?”, io “non lo so, non tanto bene” e lei “ ma dai hai fatto anche un film”. C’è sempre un aspetto negativo e uno positivo in tutte le cose. Quando mi hanno dato il premio Europa e c’erano tutti a vedermi tranne il teatro di Savona… È un modo per stare sempre a combattere. La figlia di Kantor, che segue i nostri lavori da anni, è intervenuta in occasione del premio e ha detto una cosa molto bella, cioè che da quando è morto il padre ha trovato in me un fratello. E ha aggiunto ancora che Kantor e io abbiamo una cosa in comune ovvero che entrambi facciamo del teatro una forma per combattere la morte.

 

A.P.: Lei parteggia per uno spettatore affetto da “apnea critica”, come l’attore? Uno spettatore deve essere “punto emozionalmente”? Che ne pensa?

P.D.: L’emozione è una parola che può essere pericolosa. L’emozione è una contraddizione. L’emozione che più resta, che segna, è un’emozione più profonda, cioè non presuppone la pateticità. Posso vedere uno sceneggiato televisivo orribile e può anche venirmi da piangere. C’è invece l’emozione che rimane incisa. Ieri ho visto Boccioni che faceva vedere la madre. E io ho rivisto la mia, di madre. A un certo punto l’emozione è stata così forte che non riuscivo a vedere più lui con sua madre. L’emozione quand’è forte ti segna e ti confronta con altro da te e va a toccare delle zone assolutamente non comprensibili.

 

A.P.: Se non è possibile il transfert psicologico tra spettatore e attore. Che tipo di fruizione suggerisce? Gli spettatori sono conigli impagliati?

P.D.: Rituale. C’è un fatto che succede, c’è un contatto di corpi. Per esempio in occasione de La Menzogna, nella circolarità della scena del Piccolo Teatro studio, la gente sta dritta con i corpi e sento che c’è una danza collettiva dei corpi. C’è un corpo rispettoso dello spazio. C’è un silenzio. C’è una tosse che finisce. E questo crea quell’attenzione che è profonda, non è psicologica. Siamo tutti lucidi. Siamo tutti in quella dimensione di ascolto. Per esempio l’altra sera c’era una signora che, durante la scena in cui Gianluca era nudo e faceva “miao miao”, leggeva il programma di sala e io ero contento così durante l’intervallo avrei potuto dire a Gianluca, senza indicarla, di rivestirsi che c’era già stata una signora che stava guardando il programma di sala e tutti a ridere, meno che lei. È assurdo. Non ho problemi a fare denuncia. C’è un ragazzo down che corre nudo, è un momento in cui non si sa cosa succederà e la signora legge il programma di sala per capire cosa sta succedendo.

 

A.P.: Ma magari la signora era semplicemente imbarazzata…

P.D.: Beh, però a questo punto uno si deve chiedere cosa stia succedendo in teatro. Però è interessante che una signora durante lo spettacolo vada a leggere il programma di sala, come a dire che dal teatro non ci si deve più aspettare nulla che sconvolga. Ovvero che si vuole restare in una zona di tranquillità culturale. E questo tipo di fruizione non mi interessa. Mi preoccupa di più vedere gente che guarda l’orologio, che si annoia, che fa sorrisi carini, piuttosto preferisco che la gente vada via.

 

A.P.: È comunque una presa di posizione…

P.D.: Assolutamente sì, è una linea di forza. È un corpo che decide di andarsene e quello diventa danza, diventa un ritmo.

 

 

 
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