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In memoria di Zygmunt Molik

(4 aprile 1930, Cracovia - 6 giugno 2010, Wrocław)
di Giuliano Campo

Vorrei ricordare Zygmunt Molik per quello che era, e non soltanto per quello che ha fatto nella sua lunga vita nell’arte. Zygmunt per alcuni è stato un amico, semplice ma dai gusti raffinati, un bon viveur amante della vita, che lui conosceva bene e che ha vissuto intensamente, un compagno con cui passare le serate in allegria, con cui apprezzare e condividere il meglio che il proprio tempo ha offerto. Per molti altri Molik è stato un maestro di teatro. Per tanti altri di più, una presenza la cui apparizione ha avuto del miracoloso, un incontro che ha cambiato la vita. Parlo di vita, di vite, giacché di questo Zygmunt si è sempre occupato. Per Molik il lavoro era la vita, la vita il lavoro, e il lavoro era il lavoro sulla voce e il corpo dei suoi allievi. Per come l’ho conosciuto io, per come voleva essere ricordato, era un insegnante-curatore, uno sciamano europeo. Non gli farò torto scrivendo qui soprattutto di questo, del suo lavoro, come pedagogo in particolare, nel teatro e oltre. “Vita” è una parola d’uso comune che però include parecchi significati. Da quando ho iniziato il mio percorso con Molik, alcuni anni fa, ho dovuto sforzarmi di comprenderne il senso. D’altronde, il senso della vita non può essere espresso a parole, e così il lavoro di Molik con la “Vita” degli allievi. Questo è il motivo per cui lui raramente dava spiegazioni oltre il livello base della tecnica, che in genere era la ripetizione esatta delle figure dell’ “Alfabeto Corporeo” (Body Alphabet), da lui creato nel corso degli anni, come evoluzione del suo ruolo di guida della voce all’interno del Teatr Laboratorium, la compagnia diretta da Jerzy Grotowski che ha contribuito a fondare a Opole nel 1959, assieme a Ludwik Flaszen, Antoni Jaholkowski e Rena Mirecka. Tutto il resto del lavoro, il riconoscimento e l’utilizzo della “Vita”, era a carico dell’allievo, e lo strumento principale per la sua riscoperta, era il silenzio.

La guida spesso immobile di Molik, il lavoro e il silenzio permettevano a tutti, proprio a tutti, di operare quella trasformazione del corpo e della voce che assumeva sempre la dimensione prodigiosa di una rinascita. Il lavoro non era sul corpo, ma attraverso il corpo, in cerca di quella unità delle parti sparse del sè che ciascuno inconsciamente si trascina frammentate. L’unità come condizione per quell’“Atto Totale” che Molik aveva sperimentato e mostrato in Acropolis.

L’apertura della voce, unico e ultimo obbiettivo del lavoro, era l’apertura della “Vita”, la voce il “veicolo” (termine usato sin da principio da Molik) che garantisce il rilascio delle energie creative dell’attore, nel teatro e oltre. Migliaia di allievi dei suoi laboratori tenuti in tutto il mondo in più di cinquanta anni di attività possono confermarlo. A me molti l’hanno testimoniato personalmente anche dopo la morte di Zygmunt, persone che non avevo mai conosciuto prima, inviandomi ricordi e attestati di riconoscenza per l’uomo e per il maestro.

Molik era un uomo generoso. A volte difficile, tutto d’un pezzo, che si direbbe d’altri tempi (chissà perché gli “uomini tutti d’un pezzo” paiono sempre essere d’altri tempi). Quindi a volte duro, tagliente, dai giudizi severi, di quelli che fanno piangere le attrici troppo sicure, le dive e gli attori che si pavoneggiano. Ma un uomo libero, che neppure accettava di essere incluso in quel calderone dei maestri del lavoro su se stessi, perché, diceva, lui lavorava sempre per gli altri. Anche se poi questi altri proprio questo facevano, lavoravano su se stessi, alla ricerca di uno sviluppo armonico e una pratica di liberazione negata non solo dalle scuole di teatro, ma dalle scuole qualsivoglia e da simili contesti istituzionali.

Molik era un uomo d’azione, e adottava con costanza e coerenza una sorta di materialismo provocatore. Si divertiva a spazzare via i pregiudizi spiritualisti che vengono normalmente associati al lavoro suo, di Grotowski e dei suoi compagni e allievi. Spiegava che la compagnia non ha mai lavorato molto sullo yoga come si crede, e che i principi di lavoro erano essenzialmente europei, come la dialettica tra spontaneità e disciplina nel processo organico di composizione, radicata anche nella nostra tradizione teatrale. Certo, la compagnia non era così monolitica come poteva apparire all’esterno, e all’interno del gruppo coesistevano diverse sensibilità. Sicuramente l’idea dell’India influenzava fortemente più Grotowski, Cieślak, Mirecka, che Flaszen, Molik, Jaholkowski.  Per Molik “Aprire la voce” vuole dire aprire la laringe. La “verticalità” indica la direzione che l’energia, il respiro, la voce devono prendere, dai piedi alla base della spina dorsale e poi su su fino alla laringe, a far vibrare quei “risuonatori” che com’è noto egli identificò con esattezza artigiana e perizia scientifica nel corso degli anni. Si rifiutava finanche di introdurre termini quali “anima”, “etica”, perfino “emozioni” nel lavoro, che era invece unicamente improntato alla reviviscenza dello spirito che infonde energia alla vita organica, che dal sé trova un mondo oltre il sé, attraversando un territorio sconosciuto e sorprendente, creato autonomamente di volta in volta dagli allievi.

Come attore, e primo attore della compagnia di Grotowski, è stato uno dei protagonisti del teatro del Novecento. Però il loro era un teatro diverso dagli altri, era anormale, estremista, povero, provinciale, serio, sperimentale, folle. A un certo punto divenne conosciuto in Polonia, grazie a un grande spettacolo, Acropolis, e alla grande interpretazione del suo protagonista, Zygmunt Molik. Era il 1962, il governo polacco del tempo obbligava la compagnia a un numero e un’intensità di repliche straordinarie. Grotowski, da parte sua, e per tutt’altri scopi, obbligava già la compagnia a sovrumani ritmi di lavoro psico-fisico. L’indipendente, l’uomo libero Molik, mai in cerca di gloria, e che in verità non ce la faceva più, a causa dello sforzo eccessivo e troppo intenso, lasciò la compagnia per una “vacanza” come l’ha chiamata lui, di un paio d’anni, a riposarsi lavorando come attore nei teatri “normali” di Cracovia. Allora Grotowski restò senza il primo attore, e provò con successo prima Zbigniew Cynkutis, nel Doctor Faustus da Marlowe, e poi Ryszard Cieślak nel “Principe Costante”, che in breve divenne l’icona vivente del teatro contemporaneo. Il rapporto speciale di Grotowski con Cieślak, che per Molik fu uno “strumento geniale nelle mani di Grotowski”, il successo mondiale del “Principe Costante”, modificò da una parte l’immagine esterna della compagnia e le aspettative del pubblico, dall’altra parte alcune delle dinamiche creative all’interno del gruppo. Quando Molik rientrò, per sostituire l’attrice Maja Komorowska, creò allora un personaggio impossibile, con ombrello e cappello, nella scena medioevale del “Principe Costante”. Grotowski l’accettò dopo due o tre prove. Da  lì a poco si troveranno tutti immersi in una vera creazione collettiva, che fu anche l’ultima della compagnia, Apocalypsis cum figuris. Spettacolo che in verità non ha mai convinto Zygmunt, ma che ebbe un enorme successo e fu replicato per parecchi anni, rendendo desuete molte delle convenzioni teatrali residue del Novecento e la maniera di costruire gli spettacoli. Oggi che si chiacchiera tanto di teatro “post-drammatico” ci si dimentica che questo fu, già nel 1968-69.

Intanto venne il parateatro. Per sua natura, Molik non poteva accettarlo così, dal principio. Ma non poteva nè intendeva contrastarlo. Aspettò il suo momento, la sua maturazione, e per un anno fece semplicemente l’autista del gruppo. Poi ci si buttò dentro, e ne divenne subito una delle guide più valide e più seguite. Il rapporto diretto con la natura, negli anni di lavoro presso la spartana fattoria di Brzezinka, li cambiò tutti. La natura venne portata in sala. Molik creò l’”Alfabeto Corporeo” e lo utilizzò, fra l’altro, nelle sessioni chiamate Acting Therapy, il cui film del 1976 - che abbiamo pubblicato nel nostro libro - fu montato dallo stesso Molik e è l’unica testimonianza filmata del gruppo storico al lavoro nel parateatro.

Poi venne la fine del Teatr Laboratorium. Quando altri del gruppo tentarono di far sopravvivere la compagnia dopo l’abbandono di Grotowski, Molik non solo si rifiutò, ma abbandonò il teatro del tutto (oggi diremmo il teatro “degli spettacoli”) e passò a dedicarsi unicamente alla pedagogia. Come pochi, fu l’emblema di un’idea diversa di attore, che esiste, vive come attore, anche oltre il teatro. Molik non amava parlare di Grotowski, “non particolarmente” diceva. Grotowski non era stato il suo maestro di teatro, è forse stato vero il contrario, dato che Zygmunt era il più anziano del gruppo e l’unico già esperto di pratiche teatrali, avendo speso tra l’altro parecchio tempo in giro per la Polonia rurale come recitateur con un piccolo ensamble musicale, quasi fosse un attore della commedia dell’arte, a commuovere e poi convincere i contadini ad andare a lavorare nell’acciaieria di Nova Huta.

Ma, sebbene più giovane, Grotowski fu da lui riconosciuto come il suo maestro spirituale. Si sarebbe gettato nel fuoco per lui, diceva.

Molik rimase anche fermo in certi periodi, tra la fine degli anni ottanta e gli anni novanta, a pagare per il suo rigore e l’aderenza alla sua verità. Ma questa si rivelò ancora una volta, potente, soprattutto negli anni più recenti del nuovo millennio, durante i quali Zygmunt non ha smesso di viaggiare e di incontrare in diverse parti d’Europa allievi provenienti da ogni parte del mondo, e di lavorare con me per un libro.

Questo libro è venuto fuori come una storia e una testimonianza. È la cronaca di un apprendistato per un lettore-apprendista ideale, è l’analisi di un metodo, che sfiora gli aspetti teorici ma si concentra su quelli materiali e funzionali della pratica. Non essendo un manuale, è un testo semplice che viene da un lavoro lungo e complesso. Realizzato con uno spirito divulgativo, usando un linguaggio dialogico che è pensato per andare oltre i limiti dell’accademia, il libro è scritto in un inglese internazionale elementare alla portata di molti anche di lingua non inglese, come noi. Concludo allora questo mio ricordo di Zygmunt Molik con la traduzione di un brano scelto dal libro, perché a questo Zygmunt teneva molto.

Il libro/DVD è stato pubblicato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti qualche giorno prima che lui ci lasciasse.

Campo: Riguardo all’insegnamento, potremmo dire che tu non hai un vero e proprio “metodo”. Questo è chiaro se consideriamo il fatto che il tuo approccio è simile a quello di uno sciamano. In ogni caso mi domando se ora tu possa comunque dare qualche suggerimento, come se stessi lavorando come un insegnante che dà delle indicazioni generali a un performer immaginario. Come pensi che un giovane attore debba approcciare la professione, e che tipo di tecniche dovrebbe affrontare all’inizio del suo lavoro?

Molik:  Non credo che sia possibile. Questo tipo di insegnamento è così individuale e personale che no, non so come potrei darlo in termini generali. Come potrei?

Campo: Credi che le scuole di teatro siano un buon punto di partenza? O che al contrario possano perfino creare dei problemi?

Molik: No, credo che siano un buon punto di partenza. Sì, certamente, le buone scuole di teatro possono aiutare, ma il punto è che ci sono molto poche buone scuole di teatro.

Campo: Che mi puoi dire dei dipartimenti di teatro delle università? Ce ne sono tanti adesso, molti più di prima, in tutto il mondo.

Molik: Sì, ma la maggior parte di loro sono inutili. Devo dirlo, sì, in ogni caso alcuni di loro possono essere d’aiuto.

Campo: E che mi dici dei maestri? Pensi che ci siano adesso dei maestri da seguire?

Molik: Accade molto raramente di trovare un maestro.

Campo: E che mi dici di tutte queste persone, e dico migliaia, che hanno iniziato a fare teatro semplicemente dopo aver letto un testo come “Per un Teatro Povero” per esempio? Senza aver praticato prima alcun training d’attore.

Molik: No, non credo che sia possibile. Non è un manuale.

Campo: Allora, se per te ci sono molte poche buone scuole teatrali, e molto pochi dipartimenti di teatro validi, e quasi nessun maestro, e se non si può cominciare dai libri, come può esistere ancora l’arte del performer?

Molik: La tradizione. Segui la tradizione. Questo è tutto. E ciascuno porta qualcosa di nuovo alla tradizione e in questa maniera essa va avanti. È molto semplice. Non c’è nient’altro da dire.

 

(da Giuliano Campo with Zygmunt Molik, Zygmunt Molik’s Voice and Body Work – The Legacy of Jerzy Grotowski, ed. Routledge: London and New York, 2010, pp.27-28.)

 
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