Sotigui Kouyaté, l’attore trasparente |
di Rosaria Ruffini Si possono passare anni a cercare di definire cosa sia «l’attore trasparente» di cui parla Peter Brook, ma basta un attimo per coglierne l’essenza guardando la lunga silhouette di Sotigui Kouyaté attraversare la scena. Come uno schiaffo zen che rivela lucidamente la realtà, così la presenza di Kouyaté svela l’enigma di Brook. I critici erano turbati dall’assoluta sovrapponibilità tra l’attore e i personaggi, che incarnava con una naturalezza che i meno avveduti scambiavano per ingenuità e naiveté. Ma certo non era un dilettante Kouyaté, attore di punta, collaboratore e amico fraterno di Peter Brook. Nato in una famiglia di cantastorie tradizionali, Kouyaté cresce accompagnando la madre cantastorie che si esibisce nei polverosi villaggi di un’Africa ancora colonizzata dalla Francia. Diventa ben presto musicista e cantore, non mancando di tracciarsi un percorso di formazione del tutto eclettico: diploma di farmacista, capitano della nazionale di calcio della Burkina Faso, dattilografo, Kouyaté era un uomo dai mille volti, curioso, ironico e colto. L’incontro tra Brook e Kouyaté dà vita a una rara alchimia che unisce le preziose tensioni teoriche del grande regista al talento non convenzionale dell’attore nutritosi alla fonte della ricca tradizione perfomativa africana. Ne nasce un teatro nuovo, essenziale, trasparente e intriso di silenzio e finezza. Kouyaté diventa una delle colonne portanti del teatro di Brook e, dopo il Mahabharata dove interpreta Bhisma, il principe saggio che può scegliere il giorno della sua morte, l’attore illumina l’indimenticabile Tempesta del 1990, nei panni di un Prospero maestro degli elementi. Un’interpretazione che fece storia e che scoperchiò anche il latente razzismo di una parte della critica che discuteva la scelta di far recitare Prospero ad un attore di colore. «Si è vero sono nero» - rispose gentilmente l’attore - «e per far risparmiare tempo prezioso a chi analizza i colori, posso dire che sarò nero anche nei miei prossimi ruoli, shakespeariani e non. Sarò evidentemente nero fino al giorno della mia morte». Nel 1996, Kouyaté torna a suggestioni shakespeariane interpretando l’impalpabile fantasma del padre d’Amleto in Qui est là. Il sodalizio con Brook è ormai di ferro e l’attore dimostra la sua versatilità passando dai malati senza passato de L’Homme qui (1997), al vecchio ironico e ciarliero che vive nei ghetti dell’apartheid in Le Costume (1999). Nel 2002 è un vivace e garbato Polonio nella celebre versione brookiana dell’Hamlet. E nel 2004, regala al pubblico la sua migliore prova, interpretando il difficilissimo ruolo dell’ascetico maestro sufi Tierno Bokar, nello spettacolo omonimo. Già indebolito dalla malattia, porta a termine una tournée estenuante e riesce a integrare mirabilmente i crescenti problemi fisici alle necessità del ruolo, dando vita a un personaggio che si avvia verso la morte con dignità.All’indomani della sua scomparsa, sopraggiunta il 17 aprile scorso, Brook dichiarerà: «Come attore possedeva un profondo senso della giustezza. Il suo cuore e la sua mente erano in trasparente connessione con il suo corpo, i muscoli, il viso, le lunghe dita, che gli permettevano un’espressività organica e una condizione di vuoto e di sensibilità che molti attori occidentali ricercano per anni, ma che in lui si manifestava istantaneamente, in maniera perfettamente naturale». E Kouyaté affermava: «Il personaggio non è un bagaglio con cui andare in giro; un bagaglio è sempre un problema che impedisce di fare molte cose. Bisogna muoversi senza bagagli. Solo allora, si può esistere quando si incontra l’altro, il pubblico. Spesso gli attori si difendono dal pubblico, con il pensiero, con la teoria, con gesti e costruzioni. Nella mia cultura, la difesa non è un valore né una qualità, ma equivale alla chiusura. In Africa le porte e i cortili sono sempre aperti e una porta chiusa significa solo disgrazia. L’apertura è ricchezza perché permette di essere riempiti ancora e ancora. Dobbiamo essere nudi. Liberi. Un uomo che non è libero interiormente non può essere attore». La sua costante ricerca della libertà e della verità in scena si accompagnava alla disciplina e alla dedizione al mestiere. Ha lavorato fino alla fine: la sua ultima interpretazione nel ruolo di protagonista nel film London River di Rachid Bouchareb è un modello di precisione e di disseccata essenzialità dove ormai l’idea stessa di recitazione scompare. Gli vale l’Orso come miglior attore protagonista al Festival di Berlino del 2009. Prolifico attore anche nel cinema, Kouyaté ha interpretato più di 40 film, dando lustro alla nascente cinematografia africana da lui ha incoraggiata e sostenuta. Kouyaté è stato un vero e proprio mediatore di culture. Ha aperto una nuova via per tutti gli attori africani, scardinando gli stereotipi che tenevano legato l’attore di colore a ruoli di contorno. «Tutta la mia vita non è stata altra che fare il cantastorie, prima in Africa, poi qui in Europa con Peter. Dimenticare la propria origine, i propri antenati significa perdersi e avanzare nel buio. L’albero muore quando gli tagliamo le radici. Essere radicati non significa però essere proiettati nel passato: un albero vivo cambia foglie e frutti continuamente, secondo la luce, il tempo e il movimento». Due mesi fa se n’è andato. La sua scomparsa è ancora più bruciante oggi alla notizia della morte di Torgeir Wethal e Zygmunt Molik. Le scene si fanno più vuote. Ma vogliamo credere alle parole di Kouyaté quando diceva «I morti non sono morti, sono intorno a noi. In Africa non diciamo morte ma cambio di domicilio. Anche le scene teatrali sono piene di spiriti. Sono invisibili, come dice Shakespeare, ma possiamo sentirli». Che i loro spiriti invadano i nostri teatri. |