CONVERSANDO CON... |
a cura di Antonino Pirillo di Antonino Pirillo
FIORENZA MENNI: Se le persone riconoscono in alcuni esseri umani il concetto e la parola attore, questi ultimi verranno sempre chiamati attori. Non è una cosa che viene imposta. Può esistere, invece, il fatto di pensare e osservare come questi esseri umani che vengono definiti attori possano aggiungere continuamente delle particolarità. È sempre una questione di sovrapposizione perché il primo gesto che un essere umano fa quando sceglie di entrare in scena o mettersi davanti a una telecamera o cinepresa è di aggiungere qualcosa a se stesso. E quest’aggiunta è infinita così come lo è la concezione che gli esseri umani possono avere e infinite sono le direzioni. Si possono, quindi, sovrapporre a un individuo infinite azioni, infiniti oggetti, infiniti abiti, infiniti altri individui. A.P.: C’è differenza tra le figure del Teatrino Clandestino e quelle che calcano le scene di Pippo Delbono? A.P.: Che intendi per sovrapposizioni? A.P.: Si mette in evidenza più che lo stare in scena la consapevolezza dello starci… A.P.: Quindi sono tutti attori… A.P.: In base a cosa scegliete gli attori dei vostri spettacoli? Devono avere una formazione ben definita o li formate tramite laboratori? A.P.: Avete mai scelto persone senza esperienze teatrali? A.P.: Nei vostri spettacoli c’è sempre una separazione tra il corpo in lontananza (in video o dal vivo), il viso vicinissimo (Variazioni su Hedda Gabler) [2000] o lontanissimo (Madre e Assassina) [2004] e le voci off che risultano gli elementi “autonomi” della frammentazione irrecuperabile dell’unità dell’attore. P.B.: Ci sono due punti di vista diversi, quello dell’attore in scena che porta queste incombenze sulle spalle e quello di chi gliel’ha proposto.
A.P.: In Madre e Assassina vi doppiate dal vivo, quindi le intenzioni delle azioni nelle immagini registrate appartengono a un tempo diverso rispetto a quello dell’emissione della voce… A.P.: Quindi per l’attore si realizza una sorta di visionarietà nel momento in cui si vede agire in video… A.P.: Da un punto di vista propriamente registico la frammentazione è legata alla perdita dell’io? A.P.: In Hedda Gabler, si ha l’impressione che gli attori abbiano lavorato “fisicamente” su “movimenti” i cui pretesti intenzionali siano estrapolabili dalle parole stesse del testo, ma di certo “lavorate” a parte e quindi non associabili tra loro. Tutto ciò è un procedere verso un superamento del personaggio a partire dal personaggio stesso? A.P.: Nel registrato vedevo i personaggi e nel dal vivo invece vedevo qualcosa che veniva prima delle parole, prima delle azioni, quasi il grumo di quello che poi si realizzava in immagine… F.M.: Non esiste uno spettacolo di Teatrino Clandestino che non abbia nel suo risultato drammaturgico-registico una necessità che viene da una proposizione o un rifiuto di una modalità storica dello stare in scena. È molto strano come questi aspetti non vengano colti, perché la definizione di marionetta appare a volte una negazione politica di un’esistenza.
A.P.: Non mi sembra che Craig definendo la supermarionetta abbia pensato a un’accezione negativa, semmai si augurava che l’attore dimenticasse la propria esistenza quotidiana in scena… P.B.: È anche vero che non esiste una marionetta senza un marionettista.
A.P.: Infatti ci deve essere un marionettista che ha un progetto ben preciso altrimenti si produce un teatro dello sbaraglio… P.B.: Dipende dal progetto. F.M.: Ma no, questa è la seconda metà del Novecento! Questo concetto è una possibilità. È una dichiarazione di potere, è una presa di posizione di potere terrificante che ha mandato allo sbaraglio tante persone che hanno scelto di fare gli attori. E storicamente è brevissima questa fase. Non confondiamo la regia con la libertà del lavoro dell’attore.
A.P.: Io non intendevo che il regista dà indicazioni dittatoriali però comunque crea un percorso all’attore, una struttura, che ci deve essere, entro la quale l’attore deve poi trovare una sua libertà. F.M.: Non è necessariamente della regia la struttura. È minimizzante pensare che la regia costruisca la struttura. Semmai è la drammaturgia che ti dà una struttura. Il fatto della relazione, il work in progress è più interessante del teatro di regia. Non prendere in considerazione le qualità che ognuno ha nel proprio ruolo che di fatto gestiscono la drammaturgia finale significa perdere un’opportunità d’analisi.
A.P.: Questo è assodato. Il regista deve coordinare in un unicum gli attori, la scenografia (quando c’è), le musiche… e poi è scontato che ognuno debba trovare una proprio senso nel suo ambito. F.M.: La storia del Teatro Clandestino non prevede questo. A.P.: Ma non a livello tecnico è soprattutto a livello di pensiero che poi come dicevi prima si materializza per gli attori nella vita e per il regista nella tecnicità dello spettacolo… F.M.: Questa non è la mia esperienza. Tu stai parlando di qualcosa che io non conosco.
A.P.: Sicuramente non sei solo un’attrice, ma un’“attrice pensante” perché porti avanti un discorso estetico ed etico… F.M.: Ma il fatto che tu mi definisca un’attrice pensante significa che stai semplicemente sposando un luogo comune talmente mortificante per chi ha scelto di essere attrice… tanti registi parlano così. Io non sono un’attrice pensante e chi è un’attrice non pensante?
A.P.: Un’attrice a cui si versano i contributi enpals, le viene riconosciuta la diaria, “fa” lo spettacolo, va in tournèe… F.M.: È interessantissimo, chiarissimo e verissimo quello che vuoi dire. Ma prova a riflettere storicamente se quest’aspetto ha una validità assoluta. O piuttosto ha a che fare con la storia del secondo Novecento. La differenza tra attore pensante e non pensante non è reale è soltanto aver costruito all’interno di alcune pratiche, procedure assolutamente creative, artistiche di un certo tipo, una posizione di potere che è una sfasatura politica, tra regista e attore e attore addirittura non pensante. Perché il regista pensa…
A.P.: Non si può negare che l’attore diventi a volte una funzione… P.B.: Il teatro di regia assume su di sé tutto un potere che porta ad avere una masnada di caproni. Ma questa focalizzazione potente sulla regia non succede solo nella tradizione.
A.P.: In Madre e Assassina avviene uno spostamento formale teso a dimostrare quanto l’immagine, più potente della presenza, si sia sostituita totalmente alla presenza stessa, tranne nei casi de La Giornalista e de La Madre nel finale. Perché questa scelta? Perché “fictionizzare” il teatro? P.B.: Durante tutto lo spettacolo, la gente sta immobile davanti alle immagini e l’unico momento in cui viene colta dal terrore è quando La Madre si materializza fisicamente sulla scena: questa madre assassina che uccide i figli che si è vista solo in immagine, distante, che non ti tocca mai, nel finale appare; è proprio in quel momento che è nato il personaggio. Ovvero il pubblico è stato tenuto in quella distanza tutto il tempo e quando si ritrova davanti alla persona fisica che viene fuori da dietro la quinta, beh lì c’è il terrore. E quindi questa de-corporalità del personaggio per tutto il tempo non parla di se stesso, non è tautologico, non è quello il problema. Il problema è quello ultimo: adesso ti faccio vedere la differenza, arrivo lì e sono davanti a te.
A.P.: Ma la presenza fisica è potente in questo caso perché è stata potente l’immagine. P.B.: Certo anche in questo caso è un potenziamento dell’attore e del lavoro sul personaggio. Uso un mezzo che può apparire che scinde l’io ma in realtà lo sta potenziando. Infatti quando La madre entra è più presente che mai. Se invece fosse stata esposta tutto il tempo la presenza dell’attore, quel momento sarebbe stato sicuramente più debole. Si tratta drammaturgicamente di dar più potenza possibile al personaggio perché quest’ultimo deve essere interessante. Il pubblico quando esce da teatro deve dire che ha vissuto qualcosa.
A.P.: Quindi la “fictionizzazione” è legata alla drammaturgia… P.B.: Certo e comunque a mettersi in relazione con il mondo in cui stiamo vivendo. Cioè noi siamo in una relazione continua e continuativa con un certo tipo di fiction in cui il teatro da questo punto di vista gioca una partita minoritaria, se il suo problema fosse la fiction in se stessa, per raccontare una storia e basta. Il problema quindi non è il raccontare una storia originale ma piuttosto il come raccontarla.
A.P.: Nel teatro attuale non c’è monologo né dialoghi ma a solo. In Hedda Gabler, i pseudo-dialoghi “parlati” sembrano degli a solo nel senso che ogni attore chiuso nella solitudine del proprio primo o primissimo piano è come se parlasse con il vuoto. F.M.: Sì, tecnicamente è il controcampo del dialogo, cosa molta cara a Ibsen. Credo che la nostra Hedda Gabler abbia una fortissima adesione alla proposta ibseniana. La mancanza di monologhi è perché Ibsen stesso si allontana in maniera modernissima dal monologo. E va così in maniera profondissima dentro al dialogo. Il controcampo del dialogo è forse secondo me una cosa che forse gli era sfuggita come mezzo forse per questioni tempistiche perché il controcampo era qualcosa che lui non poteva utilizzare ed è una cosa che nel dialogo è fondamentale a livello emotivo. Il controcampo, come nel cinema, è di una potenza pazzesca. Tutto quello che dici, che vivi come negazione sono di fatto dei percorsi per andare a precisare esattamente la cosa. Il monologo in Hedda non c’è ma non c’è rispetto alla grande innovazione di Ibsen. P.B.: Noi abbiamo lavorato molto sul dialogo. È stato un nostro grande punto di ricerca. F.M.: Ancora adesso. Una cosa molto interessante è che tutti i mezzi possibili sono a disposizione, ci sono mezzi scaduti ma non è in assoluto che il monologo per esempio non possa avere una sua vita. Il monologo è un ritmo lungo di una battuta, il ritmo lungo di una presenza umana. P.B.: Secondo me il monologo è un escamotage drammaturgico. E la drammaturgia che punta all’efficacia. Il monologo è sempre rivolto al pubblico che poi con la storicizzazione del teatro è diventato il punto di bravura dell’attore. È un altro scivolamento che da necessità drammaturgica è diventato l’isteria del pubblico. Ma il pezzo di bravura porta fuori il pubblico dal personaggio e questo è un tradimento della drammaturgia. E se quando nasce nella testa del drammaturgo funziona come puntualizzazione del personaggio, a un certo punto diventa affare del grande attore. Teatralmente è un errore enorme perché sei lì per rappresentare. E siccome il monologo ha in sé quest’isteria dell’ascolto, tu lo devi mettere nel cassetto finché un giorno lo spettatore ascolterà il monologo detto dal personaggio e non dall’attore. Così come il dialogo per certe avanguardie era inutilizzabile. La drammaturgia è l’unica padrona cui bisogna rendere conto.
A.P.: Forse non sono stato molto chiaro… anche quando c’è un monologo viene detto come a solo e lo stesso vale per i dialoghi , in Hedda ogni attore ha registrato singolarmente? P.B.: No contemporaneamente. Gli attori hanno recitato i dialoghi uno di fronte all’altro con due telecamere. Per aumentare il senso di intimità che permettesse di penetrare nell’intimità del dialogo, l’idea era di mettere lo spettatore nel mezzo del dialogo stesso. Avevamo messo due camere frontali: gli attori guardavano il pubblico ma in realtà si stavano guardando l’un l’altro e il pubblico aveva così l’opportunità di trovarsi in mezzo al loro sguardo e nel mezzo del dialogo. Quindi non stavano monologando in modo separato ma stavano proprio dialogando e nella realtà…
A.P.: Nella realtà. Però quello che si evince dalla visione non dà l’impressione di dialogo. P.B.: Gli attori guardando in camera si rivolgevano direttamente al pubblico che era il mezzo attraverso cui passava questo dialogo. Questo aveva un significato per noi: il pubblico era il tramite del dialogo ovvero doveva portare il dialogo da una parte all’altra. Questa stratificazione dei livelli, anche visivi, corrispondeva: sovrapposizioni di livelli che potevi vedere contemporaneamente ma allo stesso tempo erano separati tra di loro. Una scomposizione che è poi un procedimento tipico dell’arte contemporanea. Cioè tutto a pezzi da ricomporre.
A.P.: In Madre e Assassina le voci compaiono come l’unico residuo teatrale dal vivo, ma sono voci che vengono da lontano… F.M.: Le voci vengono dal fondo scena, da dietro le figure. Non è l’unico residuo. Madre e Assassina è uno spettacolo tradizionale nel rispetto delle persone che hanno costruito, pensato e immaginato a livello architettonico la possibilità di incastonare in quel luogo, in quello spazio qualcosa che il pubblico possa vedere. Non è il fatto della contrapposizione tra voce viva e video: sono la stessa cosa. È solo una questione di rispetto nei confronti della propria epoca, che sia un video o non sia un video. Noi ci siamo sempre brutalmente detti che a livello ritmico il video risponde alla necessità di togliere per esempio un tavolo dalla scena che ti fa perdere del tempo: questa modalità non funziona più a teatro.
A.P.: Il linguaggio che voi adoperate è quotidiano quotidiano, per dirla con lo scrittore Aldo Nove, fatto di frasi semplici, luoghi comuni, modi di dire che se non possono essere considerati una forma di azzeramento della parola sono piuttosto una modalità per renderla il più reale possibile. F. Sono d’accordo.
A.P.: Nel vostro teatro c’è sempre una contrapposizione forte tra il video, che è realistico, e i corpi dal vivo, che tendono verso la stilizzazione (Hedda Gabler). Quindi anche attraverso il linguaggio è come se voleste comunicare a tutti e lo fate in maniera diretta, secondo una modalità tipicamente televisiva, quasi da talk show. P.B.: L’idea è di creare un’osmosi tra i vari livelli e le stratificazioni estetiche, linguistiche. Per esempio nel nostro Otello c’era questa stratificazione. Da una parte il seguire fedelmente la storia di Otello dal vivo e nel video gli stessi attori colti nel loro agire quotidiano: per esempio Fiorenza avviava la lavatrice, andava a fare la spesa, andava a fare l’aperitivo in posti alla moda; insomma vedevi gli attori vivere la loro vita in un’apparenza bella e superficiale. Dietro nello sfondo della scena vedevi gli stessi attori vivere la bestia: grugnivano, ruttavano, facevano sesso, insomma tutti rapporti molto fisici; le parole attraverso una serie di dialoghi apparentemente banali smontavano e rimontavano l’Otello di Shakespeare e così la sua grande parola veniva portata sulla strada…
A.P.: Uno Shakespeare quotidiano quotidiano… P.B.: Sì, quotidiano quotidiano ma nello stesso tempo l’attore nel fondo scena ti faceva vedere che cosa c’è dietro quel quotidiano, quale bestia c’è sotto, dietro il velo. Quindi queste stratificazioni sono ancora una volta di tipo drammaturgico, cioè nella stratificazione dei livelli c’è una potenzialità narrativa enorme che dà la possibilità di portare in scena anche tre contenuti contemporaneamente senza mandarli in conflitto, e questo importante nella nostra ricerca. Il video non lo usiamo più come schermo anzi dal progetto Milgram in poi è diventato un personaggio, cioè è passato da oggetto a uno dei soggetti dello spettacolo. Il video c’è ma da elemento drammaturgico è diventato un attore in scena, e ha così un valore completamente differente infatti non ci sono più i tulle, non diventa scenografico perché ci sono motivi contenutistici che l’hanno riportato dentro il suo schermo, piccolo… anche dentro il televisore.
A.P.: Lei ha dichiarato di aver sempre concepito la costruzione degli spettacoli come un problema sonoro… P.B.: Questo è il mio sguardo. Quando lavoro ciò che da sempre mi ha guidato, mi guida e penso mi guiderà è il fatto che non riesco a uscire dal pensare lo spettacolo come un’orchestrazione musicale. Sembra assurdo ma se la scena non suona non funziona. È come se la guardassi con le orecchie. È uno spostamento ritmico che associo alla musica, alla mia esperienza musicale e sento che se quella nota, che può essere un attore o una luce, non viene suonata in un certo modo, e la scena non suona, tutto va a scatafascio. Il mio lavoro sostanziale è quello di far suonare insieme tutti gli strumenti. Dopo di che questo dà una capacità di ascolto, di visione. Ci sono volte in cui la scena non suona e non si riesce a risolvere il problema, ma questo esiste anche nella composizione musicale infatti ci sono parti di un brano che ti fanno volare e parti che le accetti di più perché sono interessanti per altri aspetti e quando riesci a mettere assieme le due cose allora è un grande risultato.
A.P.: Questo come idea globale della costruzione dello spettacolo e dell’apporto registico, ma rispetto alle sonorità che utilizzate? Per esempio in Hedda la musica era di sottolineatura, il suono che soprattutto nel finale ricordava l’elettrocardiografo che simbolicamente è come se si volesse salvare una vita che poi non si salverà. P.B.: Questa è la bellezza dell’evocatività. Sì, in effetti c’è un suono che può evocare un elettrocardiogramma. Sì, ritmicamente sì. Questa per esempio è una musica emotiva. È proprio una drammaturgia a parte. Anche lì si tratta di una stratificazione, infatti la musica racconta una cosa, le immagini un’altra, ed entrambe viaggiano assieme. Se c’è un aspetto che chi studia il nostro lavoro dovrebbe cogliere è questa stratificazione. In quel caso la musica mi dava l’opportunità di segnare quel tempo che la performance non dava. Quella musica lì dura un’ora ma non dura realmente un’ora ma tutta una vita mentre la performance dura poco. Era l’ultimo episodio di Hedda Gabler. Lo sviluppo temporale è affidato alla musica.
A.P.: Invece in Madre e Assassina il sonoro come sottolineatura non della storia che si racconta ma del suo futuro, ovvero di quello che succederà di lì in avanti, secondo un tipico procedimento usato nelle soap opera. P.B.: L’analisi riguardo alla musica da soap opera mi sembra molto interessante, mi affascina. Io non avevo mai fatto questo raffronto perché ho visto qualche soap opera ma non sono un frequentatore.
A.P.: È una musica performativa. Si può dire? P.B.: E in questo caso fa da personaggio. Lo spostamento di ruolo all’interno della drammaturgia, come prima dicevo per il video, avviene anche per la musica. In altri casi invece la musica faceva altri tipi di spostamento, per esempio in Sinfonia Majakovskijana, diventava scenografia. Avevo preso l’idea musicale e l’avevo spostata di ruolo. Infatti c’era stato un annullamento quasi completo della scenografia e l’ambientazione dell’azione invece veniva affidata alla musica. Tutti questi scivolamenti sono un ulteriore ribadimento che affidare a un aspetto un unico ruolo e fissarlo è un errore, è una perdita di ricchezza.
A.P.: Voi parteggiate per uno spettatore affetto da “apnea critica”, come l’attore? Uno spettatore deve essere “punto emozionalmente”? Che ne pensate? P.B.: Io non ho pregiudiziali. Io non mi occupo di questo problema. F.M.: Il pubblico in questo momento va preso per mano. Prendere per mano il pubblico significa non lasciargli un vuoto di senso. Il nostro intento sarà di non lasciargli un vuoto di senso piuttosto sarà la sua vita, la sua motivazione personale che lo ha spinto a venire a teatro a fargli gestire la fruizione in senso emozionale, in senso critico, o in qualsiasi altra maniera. E questo non per buonismo da parte nostra ma per lo stesso motivo forse per cui qualche decennio fa il pubblico doveva essere scosso, preso a calci. Ora, in un contesto socio-politico-culturale come il nostro, solo la mano gli va tesa. Poi chiaramente per ogni spettacolo ci poniamo sempre una questione che è drammaturgica, per esempio in Madre e Assassina avevamo degli obiettivi precisi di relazione, ovvero di tenerlo attaccato attraverso il terrore all’evento spettacolare, ma non al terrore tout court.
A.P.: Però vi aspettate una reazione… F.M.: Sì ma a livello drammaturgico. L’obiettivo è avere sempre un dialogo. Se vuoi far percepire che il teatro può ammettere un video di cinquanta minuti, a favore di una presenza di pochi minuti, che però ti riconduce a ciò che significa essere animali vicino, si può parlare di tragedia che ha qualcosa a che fare con il tuo rapporto con l’essere animale, il sangue versato attraverso un tuo gesto, cioè la tragedia. Questo era il percorso di Madre e Assassina, la nostra Medea, quello che a noi interessava della Medea. Per cui la paura è sicuramente un’emozione necessaria per poter stare in questo discorso, e non perché la gente debba uscire impaurita. P.B.: Teatralmente parlando, per Madre e Assassina l’idea era quella di avere paura assieme e non di avere paura da soli perché il terrorismo vero, quello che subiamo tutti i giorni, è quello di essere messi davanti a un oggetto terrorizzante, senza possibilità di condividere questa paura se non nell’atto isterico del raccontare. L’idea è di ribaltare tutto questo. Tutti hanno riscontrato una certa similitudine con la tragedia di Cogne che stava terrorizzando tutto il paese: portare questa tematica in teatro significava riumanizzare il mostro, grazie al mettere in rapporto quest’ultimo con gli uomini-spettatori che in una posizione di vantaggio dovuta al poterlo guardare in faccia vincendo così l’annichilimento che per esempio la tv produce. Il teatro ti dà quest’opportunità, attraverso la catarsi, si crea un rapporto con lo spettatore. A.P.: È ancora possibile oggi il transfert psicologico tra spettatore e attore. Che tipo di fruizione suggerite? Gli spettatori sono conigli impagliati? A.P.: Ma rispetto al transfert? Avete detto che non fate un lavoro psicologico per cui se non c’è transfert tra attore e personaggio non ci dovrebbe esserci neppure tra spettatore e attore?
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