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CONVERSANDO CON...

a cura di Antonino Pirillo

Le quattro interviste - che appariranno a puntate su Culture Teatrali.org - a cura di Antonino Pirillo sono state realizzate cercando con tenacia lo spazio-tempo-disponibilità di Romeo Castellucci, Pippo Delbono, Cesare Ronconi, Pietro  Babina e Fiorenza Menni. Pensate come una sorta di coronamento e prove del nove della serrata analisi che Pirillo ha condotto nella tesi di laurea Fenomenologie attoriali negli spettacoli di Pippo Delbono, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatrino Clandestino, Teatro Valdoca (aa 2008-2009, Facoltà di Scienze Umanistiche, Sapienza, Università di Roma, relatore prof. Valentina Valentini, correlatore, prof. Luciano Mariti) si soffermano su una serie nutrita di spettacoli di ciascuna compagnia in un arco cronologico che va dal 1992 al 2006. Sono stati attraversati:

- Amleto, Orestea e Genesi della Socìetas Raffaello Sanzio
-
Il silenzio, Urlo, Questo buio feroce di Pippo Delbono
- Parsifal
e Paesaggio con fratello rotto del Teatro Valdoca
- Variazioni su Hedda Gabler, Madre Assassina di Teatrino Clandestino

La domanda da cui si è originato il lavoro di ricerca, condotto prendendo in carico vari documenti –  registrazioni audiovisive, recensioni, diretta esperienza dello spettacolo, dichiarazioni degli autori – e producendo, attraverso una rigorosa griglia di analisi, un’indagine dello spettacolo attraverso la ricostruzione delle azioni e dei gesti, del registro verbale e sonoro, dello spazio scenico si è orientata a ridefinire il lavoro dell’attore e il suo ruolo nella scena di fine millennio. Lo studio di Antonino Pirillo ha individuatoo alcuni dispositivi come: lo smembramento dell’organismo in parti del corpo e della voce dal corpo; la vanificazione del senso affidata al linguaggio verbale, l’a solo... - Valentina Valentini .........................................................

CONVERSANDO CON... ROMEO CASTELLUCCI

Antonino Pirillo:  Mi piacerebbe entrare nel suo universo creativo a partire da un luogo problematico. Come definirebbe le presenze che abitano la scena dei suoi spettacoli?
Romeo Castellucci: Immagini. Immagini, direi. Immagini in mezzo ad altre immagini. Pulsazioni, masse di energia, corpi in mezzo ad altri corpi. Forme a bassa definizione, pressioni che si ergono in un avanzamento drammatico verso lo spettatore. Il ruolo dell’attore è in un certo senso più complicato, non è più colui che deve farsi carico del personaggio, ma dei personaggi e delle forze. Piuttosto, una figura completamente allargata, con i confini che escono da ogni forma di determinazione, necessità, intenzionalità. Gli attori non sono là per oggettivare una figura, per giustificarla, ma risultano piuttosto come dei richiami.

A.P.: Resta qualcosa dell’attore inteso in senso tradizionale?
R.C.: È rimasta sicuramente l’assioma, l’aspetto, la superficie. Ma questa superficie è diventata enormemente più complicata, dal mio punto di vista: la superficie che parla come un-tutto-comunicabile, un puro-comunicabile potenziale; da un corpo così com’è, di quello che è già. In questo caso, queste persone, questi attori,  salgono sul palcoscenico con il loro “soma-sema”: il loro aspetto, quanto pesano, le loro esperienze di vita, che età hanno, il giro-vita, se hanno una cicatrice oppure no, la loro capacità tecnica, il loro grado di stupore, il numero di scarpe, se sono felici o depressi.

A.P.: Cosa intende per capacità tecnica?
R.C.:
Sapere, per esempio, parlare ebraico o sapere danzare o cantare o stare immobili, stare in equilibrio su un piede, dislocare le articolazioni, fare piangere e piangere, essere buffi; non tutti sono capaci o se sono capaci ci sono delle differenze e queste differenze fanno la differenza rispetto alla drammaturgia che, in quel momento, risuona. In alcuni casi gli attori sono chiamati per come sono, invocando la potenza della letteralità della forma che riposa in sé stessa. Per fare un esempio pratico, quando ho messo in scena l’Orestea, Clitennestra, che etimologicamente significa “la grande signora”, era interpretata da una donna di duecento chili; ecco, questo rapporto brutale, onesto e oggettivo intendo per scelta letterale.

 
A.P.: Quindi già dei corpi che “significano”?
R.C.:
Necessariamente. Ma cosa significano non sta a me deciderlo. Io avanzo dei sospetti e delle ipotesi. Significano molto, troppo, eccedono il significato, annullandolo. Questo vale non per me, ma per lo spettatore: è la corteccia del cervello che, in prima istanza, legge e riconosce, empatizza la forma, il bagliore di qualcuno che ci sta davanti; tutto ciò appartiene alla nostra struttura sociale, alla parte che struttura la nostra percezione dell’ambiente al minimo grado; come succede anche agli animali che sono immediatamente in grado di capire se hanno davanti  un predatore o una preda in base al riconoscimento di corna, artigli, macchie sulla pelliccia, etc.. etc…
Non si tratta di “tipi”. La tipizzazione scade nella bidimensionalità di un carattere privo di avanzamento drammatico, fissa una cosa piuttosto che allargarla. Il tipo, inteso come personaggio, veicola al sentimento. Il sentimento, in una sala di teatro, io non lo posso sopportare. È sempre condiscendente e stereotipato. Chi rappresenta i sentimenti sulla scena tradisce il peggiore dei difetti; l’ingenuità. Altra cosa sono le sensazioni e le emozioni. Il teatro che mi interessa è un’epifania intima dello spettatore. Sapere come un’immagine, un corpo, un suono, vengano letti, questo, potrei dire, non è un mio problema.

A.P.: Nell’Orestea (una commedia inorganica?) [1995], Pilade e Oreste, sono lo sdoppiamento dell'organicicità attoriale, tra le intenzioni (Pilade) e l'azione. Ciò presuppone una perdita dell’io?

R.C.:
Direi che a questo punto si deve fare un piccolo discorso sul concetto del tragico, della visione della Tragedia Attica; dove l’io esplode in continuazione; con il movimento dell’esplosione occupa tutti gli angoli dello spazio. È un io pervasivo, antibiografico e universale. L’attore, insieme agli altri elementi della scena, produce l’onda emotiva dello spettacolo, frammentando il sé affinché queste schegge possano raggiungere e penetrare il corpo dello spettatore in profondità.
Possiamo parlare di una crisi dell’io e di un sostanziale scisma del sé. Per la verità, quando l’eroe tragico monta sul palcoscenico non sa chi è, non sa perché è lì, non sa che tempo è, se è fuori o dentro dal tempo. Rosenzweig parla dell’arte tragica come dell’arte della solitudine, della parola che “produce” silenzio e uno spazio vuoto e che questa mancanza sostanziale è ciò che forma la città. Anche Amleto non sa chi è, Oreste non sa chi è, sono esseri perduti, scissi, separati dall’io. C’è la dimensione sostanziale della perdita. È una perdita ma, al tempo stesso, suona come una affermazione. Oreste è come se venisse condotto a un gesto che neppure sapeva esistesse: uccidere la madre. Gli viene suggerito, viene condotto a un’azione fuori da lui.

A.P.: …perché il “soccorso” dal braccio meccanico…
R.C.:
Esatto. Indossa un’azione, come si indossa un costume. Questa, è evidente, è la scena di una crisi. Il teatro tragico, che è la radice dell’arte occidentale, mostra in continuazione questo scisma, che divide l’eroe da ciò che fa e da ciò che è, e lo pone continuamente sul baratro del vuoto, della perdita; ma questo è il paradosso tipico della tragedia, fa tutto il contrario perché ciò avvenga. Più si muove e più parla più si inoltra in questa aporia dell’essere, che è la bellezza tragica per il greco.

A.P.: Si tratta di una perdita dell’io tipica del Teatro o più legata ai giorni nostri?
R.C.:
É legata anche ai giorni nostri, direi. La tragedia ha inventato tutto. Non c’è niente di più forte della tragedia, è tutto lì.  Anche il futuro.

A.P.: Paolo Tonti in Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco [1992], che si presta con una generosità estrema, è possibile studiare con accuratezza le varie sfere del lavoro dell’attore/Tonti, ma anche dell’attore in generale, ovvero è come vedere scisse le varie fasi: dall’intenzione al movimento, dal silenzio soffocato alla voce, dalla sillabizzazione alla parola, dall’inazione ai raptus gestuali che restano comunque azioni “abortite”. Si trova d’accordo sul fatto che risulta un lavoro che nasce dal corpo e nel  corpo “abortisce”?

 

R.C.: Si nasce dal corpo anche se il corpo di Amleto è in divenire un fantasma. Il fantasma del padre gli appare in corpore, la cosa curiosa è che si chiama come lui: Amleto. Dal quel momento in poi è un contagio contratto dallo spettro. A sua volta Amleto comincia a comportarsi da fantasma, comincia ad assumere diverse personalità. Abbiamo parlato del sé, che sembra all’opera più per la distruzione che per la ricerca di una coerenza. La cosa strana, ancora una volta il paradosso della tragedia, è che tutta questa distruzione è in realtà un’affermazione. Oreste e Amleto nella distruzione sono persone che affermano nell’iperbole di un doppio “no”; sono figure a venire. C’è un’affermazione, che non afferma niente di visibile, non c’è niente da vedere in realtà, lavorano per produrre del vuoto. Sono produttori di vuoto. Ma questo vuoto è un nuovissimo ambito di pensiero, di collocazione di un nuovo sé. Probabilmente queste persone vogliono rinascere. Amleto sarebbe stato un lavoro impossibile da fare con un’altra persona che non fosse stata Paolo Tonti; con lui ho fatto un lavoro profondo sulla forma e sull’amnesia, durato alcuni mesi.
Abbiamo provato delle cose che nascevano da un’interpretazione scabrosamente letterale: per esempio, quando Fortebraccio saluta il cadavere di Amleto, fa sparare dei colpi in aria a salve, come saluto estremo alla nobiltà di spirito del principe; questi colpi a salve sono dispersi per tutto lo spettacolo. I colpi di pistola sono colpi di pistola dall’inizio alla fine, è un saluto continuo allo spirito di Amleto. Alcune scelte drammaturgiche fondamentali sono state prese proprio a partire dai caratteri corporei di Paolo Tonti e  dalla concezione del tempo che era già contenuta nel suo modo di essere.
Ciascun  attore vive il tempo in un certo modo e lo comunica sostanzialmente attraverso i movimenti e le pause tra i gesti. È una cosa scontata ma bisogna riuscire a vederla. E per me è stato straordinario scoprire  come Paolo Tonti avesse questa capacità peculiare di far colare il tempo attraverso le membra, i passi, la bocca aperta, il suo sentire il palcoscenico, lavorando sull’estensione fino al punto di rottura: poteva tenere una scena sino a un punto esasperato di rottura e soltanto lui lo poteva fare e lo rendeva possibile. Attraverso di lui la mia biografia, in quanto spettatore, veniva assorbita.

A.P.: L’attore ha come “meta, irraggiungibile, la stupidità animale”. Perché non ci riuscirebbe?
R.C.:
Perché se ci riuscisse cesserebbe di colpo di essere un attore. L’animalità è sempre presente, l’animale è quello che è, non può che essere quello che è sempre stato. È un dono chiuso nella perfezione della forma (un cavallo, un cane, un caprone) ma aperto sul cancello che apre un passaggio sull’Olimpo degli dei. Il corpo muto dell’animale rappresenta il sacrificio, nel contesto della tragedia greca. Ma è un sacrificio che la tragedia ha sostituito in tronco con il dramma mutacico dell’eroe. Gli dei sono tutti morti. Questa è la novità e, direi, la buona notizia. L’animale è l’ombra, il sogno e la minaccia per l’attore. Gli dei sono morti, gli animali da sacrificare sono scomparsi. Rimane la presenza dell’attore-eroe, davanti al nulla.

A.P.: Una presenza oggettiva?
R.C.:
Si una presenza oggettiva; riposa in se stesso. L’attore é un animale ma allo stesso tempo è anche una macchina. È quello che è, con il suo corpo fisico, ma è anche chiamato a una funzione come una macchina. In qualche modo fuoriesce sia dal basso che dall’alto dalla rappresentazione dell’uomo. Questa tensione mi interessa perché è presa tra la polarità di forme disumanizzate: si esce dall’umano dal basso, verso il corpo esteso dell’animale, e dall’alto, verso la macchina in quanto pura funzione. Soltanto facendo un passo fuori dall’umano si può richiamarlo, o addirittura vederlo. Vederlo negli occhi, intendo. L’animale non pensa ma è, la macchina non pensa ma fa.

A.P.: Come sempre il regista ha un piano, un’idea che realizza grazie anche alle figure che richiamano le cose. Ma queste ultime che livello di autonomia hanno?
R.C.: Di autonomia l’attore ne ha poca (ma che senso ha la libertà a teatro?...) o meglio, deve continuamente combattere per ricavarsi un suo nuovo ambito di azione; ma lo deve fare entro certi confini, entro certe leggi. L’attore deve essere cattivo. La cattiveria di chi taglia,  taglia per  penetrare, per entrare. L’attore, in questo senso, è l’invasore. L’attore ha dei limiti, ma questa è la sua possibilità; come, se vogliamo, il pittore di icone che trovava la libertà esattamente nel rigore del canone che doveva rispettare.

A.P.: Quindi una struttura rigida che dà il testo, o nel suo caso la regia. Non è cambiato nulla rispetto alla tradizione, solo è che nei suoi spettacoli anziché di azioni si parla di movimenti. L’azione è completa se c’è un’intenzione e un espletamento di quell’intenzione.
R.C.:
Sì è proprio così. In questo caso l’azione potrebbe togliere informazioni piuttosto che darle. Potrebbe esserci anche questo tipo di strategia. Comporre uno spettacolo non significa risolvere una cosa. Molto spesso, come si sa, succede il contrario.

A.P.: Questo va bene, se si intende il progetto complessivo dello spettacolo ma a livello dell’individuo? Amleto manteneva una certa organicità. Oreste  invece sta lì, cammina, indossa “il braccio”, volendo scarnificare il discorso…
R.C.:
Sì, direi ridotto all’osso. Sembra quasi che Oreste sia chiamato solo per quello, per indossare finalmente questo braccio (che era una sorta di manica meccanica azionata da pistoni ad aria compressa) che, tra le altre cose, avrebbe potuto funzionare anche senza di lui. Ma nel caso di Oreste era il gesto (direi la storia universale di quel gesto: una pugnalata) a occupare e a abitare il suo corpo. Qui si ritorna alla stupidità della pure funzione della macchina. È come se non ci fosse coscienza in quel gesto, né  scelta. È una macchina e allo stesso tempo l’artiglio di un predatore.

A.P.: Se con Amleto si giunge al “superamento dell’attore” con Genesi, from the museum of sleep [1999] al superamento sia dell’attore che dell’umano a teatro. Che ne pensa?
R.C.:
Sì, per me si tratta esattamente di questo. Si tratta di tecnologie diverse, da una parte la tecnologia del sé, dall’altra quella del “noi”. Una genesi che ci riguarda tutti perché la Genesi è il libro per antonomasia. Nella Genesi l’uomo viene creato dal nulla. La Genesi è composta da parole che hanno avuto il potere fattuale di formare le cose. Nello spettacolo la parola che crea viene associata a un’altra parola che ne significa il suo più estremo rovescio: “Auschwitz”. Sin dalla creazione del mondo la parola Auschwitz era già lì,  nel fango, accanto all’uomo, dentro di lui.

A.P.: Il superamento dell’umano è che comunque ci si arriva all’osso delle azioni per cui non c’è bisogno di nessuna motivazione interna per fare i movimenti.
R.C.: Motivazione psicologica, intendi? In questo caso no. Gli attori di Genesi, sono molti più vicini a un concetto di forme universali riconoscibili e che appartengono a ciascuno di noi. Se, ancora una volta, Amleto poteva significare un viaggio individuale di un certo eroe, in Genesi, invece, questo fatto è disperso in tutta l’umanità. Ci sono delle icone riconoscibili: Adamo è un corpo confuso, che si deve ancora inventare, che non si sa ancora che forma avrà e che è interpretato da un contorsionista di professione; Eva, la madre asimmetrica, è interpretata da una anziana attrice mastectomizzata; la rappresentazione umana di Dio è affidata a un uomo di colore gigantesco e che dà sempre le spalle al pubblico; Caino, Abele, gli angeli, ciascuno con la propria forma; i bambini nel campo di concentramento. Sono figure che, al di là delle scelte di regia, appartengono a tutti noi ancora prima di ogni possibile teatro. Non sono favole. Non sono racconti. Sono immagini impresse nella coscienza di ciascun spettatore.

A.P.: Pensando ad Amleto… che differenza individua tra l’a solo e monologo?
R.C.: Il monologo ha ancora una struttura fortemente letteraria, molto legata alla struttura narrativa e illustrativa. Nel monologo inevitabilmente si allude alla presenza dell’autore, dello scrittore. È lui che parla in realtà. Noi dobbiamo solo ascoltare e ricevere. Due posizioni. A e B.  Un “solo”, un assolo, invece, può esprimere una solitudine gigantesca. Penso agli assoli sfrenati di Carmelo Bene, per fare un esempio a tutti noto. Carmelo Bene eccedeva il concetto di monologo per via omeopatica. Era l’attore a occupare il posto dell’autore. Ragione per cui Bene poteva recitare Manzoni, Dante o Shakespeare  che rimaneva sempre e comunque lui, l’attore. Ora, in questa epoca, il ruolo fondamentale ce l’ha lo spettatore. L’attore può essere solo, nel suo assolo, davanti a un singolo gesto, per esempio. Si può tacere e guardare lo spettatore e spezzare lo specchio del teatro e non capire più che guarda e chi è guardato. Un assolo più difficilmente può scadere in una lezione morale proprio perché condivide – o nasce da – la stessa solitudine dello spettatore.

A.P.:  Nell’a solo di Lucifero in Genesi le parole sono distrutte, deformate, e come tali assumono una forza inusitata che si sostanzia proprio per la de-costruzione e de-sillabizzazione…
R.C.:
Beh sì. Ma non voglio distruggere niente. Non è un modo automatico, ma avendo io un grande rispetto per le parole e anche una grande paura, cerco di trattarle come le bombe, con tutta la prudenza e la circospezione di un artificiere. Ciò che rimane, che viene pronunciato è l’osso duro, il nucleo di quello che non si può non dire in un’economia della sopravvivenza. Soltanto in questo modo le parole possono avere potenza radiante, senza appartenere alla confezione del discorso di un autore. Non necessariamente legate al testo, perché le parole prima di tutto rappresentano la voce  annunciando il corpo.

A.P.: Mi ricordo che, in Orestea, il ragazzo affetto da sindrome di down che “interpreta” Agamennone  esordisce con un “Romeo non si sente”…
R.C.: Quella era  una parte non voluta. Era una parte che egli stesso si era scritto. Era un momento di assoluta monarchia-anarchia. Era perfetto!

A.P.: Come nel caso di Lucifero… abbiamo parlato nell’Amleto di tempo dilatato e questo vale anche per le parole?
R.C.:
Le parole sono le sopravvissute di un incendio. Devono arrivare da una regione al calor bianco, più profonda. Hanno conseguenze. Non sono bocconi zuccherosi. Non comunicano. Sono.

A.P.: E se in Orestea le voci erano accolte come qualcosa di esterno alle varie figure, in Genesi invece sembra avvenga l’effetto contrario, cioè le voci sembrano abbandonare i corpi. Come ha lavorato con gli “attori”?
R.C.: Nell’Orestea ho utilizzato alcune macchine per sintetizzare le voci. Le voci vengono deformate proprio perché sono gli spiriti che parlano: la voce di Atena è la sommatoria della voce di bambino, di una donna e di un vecchio. La voce del Coniglio Corifeo è quella di un eunuco e quella di Clitennestra resa mascolina con la correzione drastica del pitch. Il processo che seguo è il seguente: la voce si stacca dal corpo per divenire corpo, massa.

A.P.: Il suo teatro se fosse un corpo umano sarebbe senza pelle, un teatro rivoltato, messo a fuoco dal suo “di dentro”. 
R.C.:
È un’immagine icastica se non rimane solo un’immagine figurata. La sola volta che mi è capitato di rappresentarla letteralmente lo è stata nel Giulio Cesare. Un attore, attraverso una sonda endoscopica perlustrava in tempo reale l’apparato fonatorio in piena funzione. Quella era la prima immagine che si mostrava dello spettacolo: un attore visto da dentro, le sue mucose, l’origine della voce nelle corde vocali che vibravano sotto gli occhi di tutti. Un attore rovesciato come un calzino. Vivente e operante.

A.P.: È giusto dire che ciò che si mostra non tanto il teatro ma quello che c’è dentro, la struttura il disvelamento di una meccanica…
R.C.:
Struttura. La struttura è la parola fondamentale, la parola chiave. E come può essere nuovissima visto che è antica come il linguaggio dell’uomo?

A.P.: Quindi un teatro strutturalista?
R.C.:
Strutturalista. Sì. Non ho paura di questa parola ora. Lo strutturalismo secondo me è stato grande. Era uno studio coraggioso, onesto, artistico, perché ha mostrato le menzogne necessarie del linguaggio e delle comunità umane rendendole trasparenti e rivelandole in un’ulteriore struttura. Lo strutturalista può leggere tutti i fenomeni attraverso un prisma di cristallo in grado di moltiplicare le facce delle cose da intendere. Moltiplica all’infinito la superficie.

A.P.: È anche teatro concettuale?
R.C.:
Sì, concettuale, ma non c’è bisogno di riconoscerlo.

A.P.: Infatti non servono etichette però lei sceglie una particolare caratteristica di un personaggio, per esempio Amleto, e poi attraverso quel concetto lo materializza a livello corporeo, attraverso le figure, sulla scena.
R.C.: È un lavoro classico, sul concetto di rappresentazione classica.


A.P.: I rumori/suoni hanno una loro autonomia segnica tale da diventare a pieno titolo elementi vivi della scena. I suoni si presentano come sintesi perfetta di idea e materia, perché non hanno fisicità visibile…
R.C.:
Non hanno fisicità visibile, ma i suoni modificano il voltaggio dell’aria, promuovono una certa azione, la veicolano, la accordano, la preparano o eventualmente la distruggono, come se il suono producesse l’azione. Sono i movimenti che producono il suono: è il caso in Orestea del braccio meccanico che produce onde sonore dovute al movimento o della mano meccanica che in Genesi scrivendo e incidendo il palco, produce rumori. E ho potuto “mettere in scena” questi rumori grazie all’incontro con un grande artista: Scott Gibbons. Lui parte da una tecnica della musica che non nasce dai sintetizzatori ma dai microfoni; capta i fenomeni del mondo. Esterni e ambientali o da quelli dell’interno, come il defluire del sangue, il rumore delle ossa, o i rumori di un’autopsia. O le rocce, il fuoco, la carta, il metallo… Parte dalla sorgente del suono. La radice di ogni suono è aderente alla materia. Sono onde sonore che trovano dei punti comuni con la luce.  Di può illuminare una cosa o un gesto con un suono. Ma anche metterlo in ombra.

A.P.: Poi c’è anche il fatto che il suono è sempre identico a se stesso per cui più vicino all’universale…
R.C.:
Il suono è la via più breve per raggiungere una sensazione. Il suono è una cosa oggettiva, persino apodittica nella sua mancanza di argomenti. C’è. Si manifesta. Colpisce o sfiora. Entra e svuota prima di ogni barriera critica, prima di ogni difesa. Il suono è cattivo. Il suono reale… Sì reale. È la parola  più giusta.

A.P.: Ma il rumore è un fastidio che lei produce volutamente, contro le figure e contro lo spettatore?
R.C.:
L’uso che faccio del rumore nei miei spettacoli non ha alcuna intenzione.  Punto e basta. In  rapporto al suono si può cogliere tutta l’urgenza di un dramma in atto senza neppure riuscire a vederlo, o a comprenderlo del tutto. È questo che probabilmente può spaventare.

A.P.: Se si riferisce ad Amleto, come diceva prima, i suoni sono direttamente suggeriti dal testo di Shakespeare ma in Genesi i rumori di aspirapolvere e di elettrodomestici vari come li giustifica?
R.C.:
In quel caso sono le macchine reali che producono i rumori per quello che sono. Sono pezzi di poesia, sono pezzi di fantasmi microfonati. Cosa ci vogliono dire? Probabilmente alludono alla creazione come al tremendo sforzo muscolare di Dio nella sua operazione macchinica. I rumori delle macchine registrano in continuazione la spesa di energia, descrivendo la tautologia dell’operazione disumana che stanno compiendo.

A.P.: Le macchine, i suoni... tutti hanno pari vita, quindi l’umano ha una minima parte?
R.C.:
È solo una parte. Le macchine producono rumore e nel loro furore (le macchine sono, tout-court, tutte fredde e furiose, senza intervalli) si rapportano metaforicamente alla presenza-assenza dell’uomo.  Secondo me sono forme di disagio che corrispondono a una forma di vera bellezza apodittica.

A.P.: Lei parteggia per uno spettatore affetto da “apnea critica” (V. Valentini)? Uno spettatore “punto” emozionalmente?
R.C.:
Deve assentarsi, nel raccoglimento. È una forma di rapimento della contemplazione. E cosa si contempla? Io credo che la rivelazione sia proprio quella dello spettatore che si vede vedere. Strano, no? Vedersi le spalle e vedersi davanti a quello spettacolo. Crearlo. Vedersi crearlo. L’arte di quest’epoca è la creazione dello spettatore. Lo spettatore è dio che crea in una nuova luce figurativa.

A.P.: Se non è in gioco il transfert psicologico tra spettatore e attore, che tipo di fruizione immagina? Gli spettatori sono conigli impagliati?
R.C.:
Quella era un’immagine poetica degli spettatori nello spettacolo BR.#03 BERLIN.
[1]  Ce n’erano 650, grandi come persone e occupavano l’intera platea dei teatri in cui dava quello spettacolo. No. Io credo nella potenza creatrice dello spettatore. Direi che è la figura più nuova e straordinaria. L’ho detto, per me è dio. La sua urgenza supera persino quella dell’artista che invece dovrebbe diventare trasparente, anzi io la vedo come una forma di necessità: sparire nell’opera. L’arte di quest’epoca è la creazione dello spettatore. Io credo in una certa forma psicologica…o forse psichica… E quando parlo di psiche mi riferisco a quella del vero artista: lo spettatore. Che è potentemente anonimo.

A.P.:  …parlo di transfert riferendomi al processo di immedesimazione…
R.C.:
A me succede solo nel cinema o nei libri. Io credo nel transfert, nel senso che ci casco dentro puntualmente se un film o un libro è ben fatto. E quando succede, devo ammetterlo, è una bellissima sensazione liberatoria. Apprezzo anche il lavoro dell’attore tradizionalista a teatro, ma solo da un punto di vista storiografico, come vedere un bel quadro del passato. Il teatro di finzione tradizionalista purtroppo mi risulta spesso come un tentativo maldestro e abbastanza disperato di attirare la mia attenzione a tal punto che  mi è totalmente impossibile immedesimarmi. Per ora posso solo immaginare di andare al teatro di finzione tradizionalista come si va in un museo, ma francamente qui ci posso trovare Caravaggio… e questa è la ragione per cui mi capita di frequentare molto di più i musei. Voglio dire, davanti a un Caravaggio avviene il transfert, come lo chiama lei, con il personaggio dipinto o addirittura con il pittore. Sto lì, davanti a un quadro e sono così sopraffatto e così senza parole, così spossato dalla bellezza e così stupido che sento di averlo fatto io. Lo so a memoria anche se lo vedo per la prima volta.  Nel nostro caso: transfert vuol forse dire essere registi dello spettacolo. Troppo semplice?
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[1] Tragedia Endogonidia è un ciclo drammatico composto da undici Episodi, che nell’arco di tre anni si è sviluppata in dieci città, in ognuna delle quali  è stato rappresentato un Episodio il cui titolo è formato dalla sigla delle città di riferimento e da un numero progressivo. Il progetto, che ha impegnato la Socìetas fino alla fine del 2004, è dunque così suddiviso: C.#01 CESENA, A.#02 AVIGNON, B.#03 BERLIN, BR.#04 BRUXELLES/BRUSSEL, BN.#05 BERGEN, P.#06 PARIS, R.#07 ROMA, S.#08 STRASBOURG, L.#09 LONDON, M.#10 MARSEILLE, C.#11 ancora a CESENA. La Tragedia Endogonidia comprende anche un Diario messo per iscritto degli spostamenti e, soprattutto, un Ciclo Filmico, costituito dalla versione audiovisiva di ogni episodio.

 



 
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