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Prospettive sulla realtà

Intervista a Fabrizio Arcuri
a cura di Giorgia Marino


Quattro palcoscenici per quaranta compagnie e artisti, nazionali e internazionali, per tre settimane non  stop di eventi e spettacoli. Emma Dante, Motus, Ascanio Celestini, Socìetas Raffaelo Sanzio, Virgilio Sieni, Filippo Timi, la Compagnia della Fortezza, Teatro Valdoca, ConiglioViola, e ancora Jan Fabre, il fenomeno argentino Rafael Spregelburd, il genio della techno Carl Craig sono fra gli ospiti di Prospettiva 09, il Festival d’Autunno con cui il Teatro Stabile di Torino diretto da Mario Martone apre quest’anno la stagione. Fino all’8 novembre, una finestra sul contemporaneo che intreccia le lingue della scena con le nuove tendenze di musica, danza e arti visive, tentando un’operazione di autentico respiro europeo. Perchè se le barriere tra i linguaggi artistici sono cadute già da qualche tempo, è ora di abbattere anche le separazioni (fittizie?) fra categorie di spettatori. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Arcuri, regista dell’Accademia degli Artefatti e curatore della rassegna torinese...


La gestazione di questo nuovo festival del TST è stata un po’ travagliata. La storia comincia con un progetto, poi naufragato, per trasformare il Teatro Vittoria, in pieno centro di Torino, in un polo per il teatro di ricerca...
In realtà la storia non è stata particolarmente travagliata, direi anzi piuttosto definitiva... I tagli che hanno colpito il teatro hanno cominciato a farsi sentire anche a livello locale: il Teatro Stabile si è così trovato a non poter più tenere aperti tutti gli spazi di un tempo. Il progetto del Vittoria sarebbe stato possibile solo in luogo capace di trasformarsi in un “salotto” per la città, un centro in continua attività con eventi, spettacoli, mostre, laboratori... Essendo venuti a mancare i presupposti economici per portare avanti quel progetto, Mario Martone ha cominciato a riflettere su come mantenere, all’interno della stagione della Stabile, un’area dedicata alla ricerca e all’avanguardia teatrale. Abbiamo così pensato a un festival che guardasse in modo trasversale a varie esperienze, partendo da quanto si fa a Torino per arrivare a quanto si produce a livello internazionale.
I Pescecani
Nel panorama dei festival italiani, qual è la peculiarità di Prospettiva?
Per prima cosa è un festival che raccoglie al suo interno, in modo protagonistico, la danza, il teatro, l’arte contemporanea e la musica. Il fatto che ognuna di queste sezioni abbia un programma, una direzione artistica e un spazio definito, fa sì che nessuna rimanga in subordine rispetto a un’altra. Prospettiva vuol essere una sorta di contenitore che al suo interno accoglie Torinodanza con la direzione di Gigi Cristoforetti, Artissima, sedicesima fiera internazionale di arte contemporanea curata da Andrea Bellini e Club to Club, nono festival di musica elettronica diretto da Sergio Ricciardone. Il tentativo è quello di mescolare le diverse categorie di pubblico e di consegnare allo spettatore un’idea più articolata dello spettacolo dal vivo e dei linguaggi dell’arte.

Manca solo il cinema...
A dire la verità stiamo lavorando per avere anche il cinema, costruendo un ponte con il Torino Film Festival o con Cinema Ambiente.

Cinema a parte, il sottotitolo, “Festival d’Autunno”, fa pensare a una parentela con il festival parigino...
Prospettiva, di fatto, si svolge in autunno e così ci è sembrato divertente definirlo come “un“ festival d’autunno, richiamando nel nome il celebre festival di Parigi. Ma le due manifestazioni hanno natura diversa. Il Festival d’Automne di Parigi mette insieme tutti i teatri della città ed è un’iniziativa voluta dall’amministrazione più che da un singolo teatro o una compagnia: c’è una differenza sostanziale. Se Prospettiva strizza l’occhio al modello parigino, è piuttosto per la volontà di fondere le diverse categorie di spettatori, aspetto che ha in comune con tutte le manifestazioni che si preoccupano realmente di costruire un pubblico adeguato ai nuovi linguaggi.
Dietro la scelta dei vari spettacoli in programma si scorge una linea guida decisamente forte.
Sì, è appunto l’altro aspetto che fa l’identità di questo festival. Non volevamo una vetrina di debutti e prime teatrali. C’è un’idea di fondo a cui in vari modi rispondono tutti i lavori scelti: capire in che modo l’arte può rispondere alle problematiche di rappresentazione della realtà contemporanea. La realtà è in continuo mutamento e cambiando la realtà, devono evolversi anche i modi di rappresentarla. In un’epoca particolarmente complessa e totalmente mediata come la nostra, abbiamo la sensazione di essere sempre informatissimi su ciò che avviene intorno a noi, ma paradossalmente abbiamo perso il rapporto diretto con quello che succede. Di conseguenza il nostro rapporto con la realtà è sempre falsato, filtrato: la fotografia, la penna di un cronista o la telecamera rivelano delle porzioni di realtà che non sempre corrispondono al contesto complessivo. Diventa così più importante la percezione dell’evento piuttosto che l’evento stesso. Come si fa allora a rappresentare questa realtà?
Abbiamo scelto spettacoli che si ponessero questo tipo di domande, andando a pescare anche nel repertorio delle compagnie e non solo scegliendo novità. È il caso dei Pescecani della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo o di Appunti per un film sulla lotta di classe di Ascanio Celestini, che a Torino non erano ancora arrivati. Lo stesso criterio è stato usato per gli spettacoli stranieri, e in questo caso ci siamo preoccupati di rintracciare dei gruppi poco noti in Italia, di cui tuttavia si parla molto a livello internazionale...

Come l’argentino Rafael Spregelburd, che ha aperto la rassegna con il suo Paranoia...
Spergelburd è uno dei drammaturghi più interessanti degli ultimi 6-7 anni e ha una storia incredibile. Ha cominciato a scrivere testi seguendo il modello delle soap-opera, creando strutture narrative come catene di episodi televisivi. Tanto è stato il suo successo in quelle che potremmo definire le “cantine” di Buenos Aires, che subito è finito di diritto a rappresentare i suoi testi nel teatro nazionale argentino con tanto  di merchandising legato ai suoi personaggi: spillette, bamboline, adesivi... È molto rappresentato anche in Inghilterra, Francia e Spagna, ma in Italia ancora non era arrivato.
Un esempio di cultura pop teatrale?
Sì, ma non si pensi che il suo non sia un teatro raffinato. Semplicemente tiene conto della contemporaneità e degli stili di fruizione dei prodotti culturali. Lo spettatore di oggi in poco tempo vuole avere tutto, come nelle fiction: ogni puntata dura poco e risolve un caso, lanciando un aggancio per la puntata successiva.

Il famoso problema della soglia dell’attenzione...
Che non è nuovo, lo aveva anche Omero! I testi di Spregelburd hanno appunto una dimensione di ciclo epico: non sono brevi, ma l’importante è che all’interno si chiudano dei cerchi, così da dare a chi segue una soddisfazione piuttosto rapida. Una specie di parcellizzazione dell’informazione.
Lo stesso aspetto si ritrova anche in Shoot / Get treasure / Repeat dell’inglese Mark Ravenhill, che metto in scena con la mia compagnia, l’Accademia degli Artefatti: si tratta di un ciclo di sedici pièce ispirate a classici del cinema, della letteratura o della musica, sedici episodi autonomi che però raccontano tutti la stessa storia.
A ben guardare, dietro questo tipo di rappresentazioni c’è Brecht. E Brecht è anche il filo rosso che lega diversi altri spettacoli in programma: I Pescecani di Punzo è ispirato all’Opera da tre soldi, Too late! dei Motus è uno studio sull’Antigone brechtiana e René Pollesch, in rassegna con uno spettacolo sul mondo del lavoro moderno, è un regista tedesco di scuola brechtiana, assistente di Heiner Muller. In fondo questa dichiarata influenza brechtiana non fa che ribadire l’idea di un teatro che cerca di riflettere sulla realtà e di trovare un modo per rispecchiarla.

A proposito di influenze, Prospettiva 09 è dedicata a Pina Bausch...
La Baush è stata una delle prime registe che, ignorando le distinzioni fra generi artistici, ha aperto una nuova strada per lo spettacolo dal vivo con lavori che mettevano insieme tutti i linguaggi. Era doveroso dedicarle un festival come questo.

Parliamo allora delle commistioni fra linguaggi dell’arte e delle collaborazioni che contribuiscono a creare l’identità di Prospettiva. A parte Torinodanza, il cui rapporto con il Teatro Stabile è già piuttosto consolidato, incuriosiscono le intersezioni con Club to Club e con Artissima.
Non si tratta di commistioni arbitrarie, ma di un semplice riflesso di ciò che sta avvenendo nel mondo delle arti. Per esempio, la danza contemporanea già da tempo guarda al teatro in modo molto evidente: pensiamo ad Artifact di William Forsythe che ha aperto questa edizione di Torinodanza. Allo stesso modo molte performance di artisti contemporanei rivelano un forte approccio teatrale, così come c’è molto teatro che guarda all’arte contemporanea e alla musica. Nel programma di Prospettiva ci sono almeno tre casi in cui la musica è assolutamente protagonista: i lavori di Pathosformel, lo show multimediale di ConiglioViola e Antonella Ruggiero, e Ingiuria della Socìetas Raffaello Sanzio, che vanta le musiche originali di Teho Teardo e la partecipazione di Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten. Sono contesti in cui la musica non è accessoria, non è una colonna sonora, ma è fondante. E se questi sono i segnali che arrivano dall’arte, allora va creato un ambiente opportuno per farli conoscere. Probabilmente un appassionato di techno ignora l’esistenza di eventi teatrali in cui la musica elettronica ha un ruolo fondamentale.


È per questo che l’anteprima di Club to Club sarà al Teatro Carignano? L’evento ha quasi il sapore di un compromesso storico...
Sì, e non solo per il luogo. State of indepen/dance vedrà insieme sul palco il padre dell’house music, Carl Craig, e il pianista classico Francesco Tristano Schlimé: un incontro fecondo, che consente a entrambi di spingersi più avanti nell’elaborazione e nell’esplorazione di nuove strade. E il fatto che ciò avvenga al Carignano, il teatro più antico della città, invece che in uno spazio “alternativo” dà all’evento una forza maggiore, perchè c’è la speranza che si incontrino diversi tipi di pubblico. Devo dire che quando si fanno queste scommesse sul pubblico, la sorpresa più grande è sempre per gli organizzatori... In fondo i cosiddetti “abbonati” non sono una categoria a sé, ma delle persone che frequentano e si fidano di ciò che propone una determinata struttura.

Veniamo alla sezione curata da Artissima, dal titolo beniano di Accecare l’ascolto. Di cosa si tratta?
Quando si è presentata l’occasione di collaborare per il Festival, gli organizzatori di Artissima si erano in realtà già attivati per portare in Italia alcuni artisti internazionali, chiedendo loro delle creazioni originali per la sedicesima edizione della fiera. Si tratta di artisti che lavorano al confine fra arte e teatro, in quel territorio ribattezzato da alcuni critici “teatro senza teatro”. Una nuova frontiera che però ha una tradizione nell’arte contemporanea: basti pensare alle esperienze di artisti degli anni ’60 e ’70 come Vettor Pisani, Pistoletto, Luigi Ontani, Joseph Beuys I loro lavori già si ponevano il problema del rapporto con lo spettatore, della frontalità, della presenza del corpo umano, della necessità di intervenire sul tempo... L’opera d’arte, una volta creata, generalmente viene esposta e in questo modo ha un rapporto abbastanza individuale con lo spettatore: ogni fruitore decide il tempo, lo spazio, la necessità di ciò che sta vedendo. Ma nel momento in cui si affronta la dimensione teatrale, l’opera stessa diventa una contrattazione. È su questo concetto che lavorano gli artisti invitati a Torino per Accecare l’ascolto.
Carl Craig
Quasi tutti, infine, raccontano qualcosa: un’esperienza personale, una storia...
Si può dire che rispecchiano una tendenza assolutamente attuale. In un saggio dei Wu Ming si parla proprio del moderno e generalizzato ritorno all’epica: la New Epic. In un’epoca in cui , come si diceva, è scomparsa la realtà, come si fa a raccontare delle storie? Che storia si racconta? E questa storia che livello di realtà contiene? Il rapporto tra privato e pubblico, tra soggettivo e oggettivo diventa così uno stimolo fondamentale per l’arte.

Si può dire, insomma, che si passa attraverso la soggettività per raccontare la realtà oggettiva?
Sì, per tentare di recuperare un rapporto con la realtà. Del resto, qual è la prima e più elementare verità a cui si può credere? Sé stessi. Io stesso sono la più piccola verità a cui mi posso appellare per cominciare a raccontare qualcosa.
 
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