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PRIME VISIONI

Una vetrina modenese sul giovane teatro
di Silvia Mei


Proponiamo alcune istantanee dalle creazioni delle compagnie vincitrici del Bando Teatro 2011 per la rassegna Prime Visioni, svoltasi dal 4 al 7 ottobre tra Modena e Castelfranco Emilia in collaborazione con la Fondazione ERT. Un bando e una rassegna che guardano all’effervescenza di un territorio in effettiva ebollizione.
Gli scatti sono rispettivamente di Futura Tittaferrante e di Chiara Ferrin.


 

Il tourbillon di proposte, linguisticamente variegate e sfrangiate, della vetrina giovanile e di ricerca di Prime Visioni affaccia sull’evento irripetibile - non solo per la magnificenza numerica (circa settanta attuanti) quanto per il rito finale che compie - Del bene, del male di Stefano Cenci per Dimensioni Parallele Teatro (con la collaborazione artistica della Compagnia Tardito/Rendina). Quella che il regista modenese convoca è un’adunanza che celebri il rito delle fine: fine del mondo secondo le predicazioni Maya, fine della civiltà occidentale, ma soprattutto morte di un teatro che sopravvive a se stesso nello sterile e polveroso ritrovo di spettatori addormentati (mirabile la tirata burattinesca di Simona Ori dalla barcaccia come antica, più che vecchia, spettatrice, che implora il silenzio contro un teatro decaduto e disabile).

Del bene, del male diviene allora la celebrazione fastosa ed elegante di un’apocalissi che raccoglie a giudizio una varia umanità allucinata e statuaria (appropriato il leitmotiv tratto dalla colonna sonora di Mondo Cane, film cult del 1962 che montava bizzarre violenze e trivialities delle diverse società, civilizzate e non), al cospetto di una dama platino (Francesca Ferri) nel lussuoso piano nobile del suo palazzo (le scene e i costumi sono della parmigiana figlia d’arte Emanuela Dall’Aglio). Una domestica e un maggiordomo danzanti (il dinoccolato Aldo Rendina e l’impeccabile Federica Tardito), tra passi di tango e movenze da spiritati, predispongono l’arrivo di una folla di invitati mentre una abat-jour da silhouette umana cerca con un’adeguata posa la giusta collocazione nella stanza e un busto maschile si mette in cornice, sorta di ritratto plastico, scivolando da una parete all’altra. Con un ritmo da contromarea, rarefatto e poco mosso, si avvicendano così i diversi turni di ospiti organizzati in gironi danteschi con una mezza guida di capitano (Tiziano Meschieri), quasi naufraghi storditi della celebre zattera della Medusa: dal modello vincente del girone televisivo “Vivere come se non ci fosse un domani”, ai retrò del Titanic per l’ondata “E la nave va”, fino al “Girone della merda”, ovvero il popolo, che esce (o entra) da un lampeggiante caminetto. É invece della serie “Cuori di cartone” la troupe di attori che intrattiene gli ospiti come nell’Elsinore scespiriana, e difatti è uno stralcio da Amleto (a pranzo e a cena) quello che Oscar De Summa e il suo seguito circoscrivono con una partecipazione straordinaria, cambiando decisamente ritmo e tenuta allo spettacolo, prima della sfilata carnascialesca dell’ultimo girone di valzer “Le 120 giornate di Disneyland”. Il finale diventa così la “soluzione finale” ad un’umanità smarrita e debosciata, voluttuosamente gasata dai due inservienti ma salvata dalla promessa di Paradiso nel canto bianco, accompagnato live, Pure Imagination.
È un’operazione pretenziosa, quella messa in piedi da Stefano Cenci, che dà prova di bravo orchestratore di attori e non attori - scuola Armando Punzo, di cui è aiuto regista - ma con una drammaturgia ingenuamente paratattica e posticcia (sicuramente è voluta la pezza da objet trouvé dei comici che siglano l’eterna polarità tra teatro e spettacolo), per cui anche gli ospiti e gli attori più rimarchevoli faticano a oliare gli ingranaggi. Troppa retorica negli aforismi un po’ logori delle tirate dei coreuti e un coro che somma categorie troppo approssimative per riallestire un reale prismatico. Del bene, del male in questa forma reclama per Stefano Cenci la necessità di un proprio personale timbro, di una cifra stilistica, perchè troppo cita ad esempio il teatro (non contraffabile, per l’appunto) di Pippo Delbono: dal salone purpureo che riecheggia l’ultimo Dopo la battaglia, alla struttura a varietà fatta di un’umanità assortita e sghemba, bizzarra e varia, fino alla conduzione peripatetica à la Kantor di un coro di persone che hanno fatto del teatro la propria vita e non della vita un’occasionale momento di spettacolo.

È un trattato bellico, un compendio di sopravvivenza, senza negarsi i tratti del galateo politico e del manuale di bon ton sociale, la dottrina declamata e predicata da Raimondo Montecuccoli (1609-1680) a un manipolo di giovani nostrani concorrenti a un’audizione o all’ennesimo colloquio di lavoro. La nuova produzione del collettivo MOH autori riuniti in co-produzione col Teatro in Polvere, Aldes e Teatro dei Venti (quest’ultimo per l’ospitalità), secondo la regia di Valentino Infuso, Giulio Costa, Roberto Castello e Roberto Zanisi, Pecunia! Pecunia! Pecunia! Ovvero ‘Cuculo’ sul monte’, ovvero come vincere tutte le battaglie (ma proprio tutte) scalare il potere, convertire gli infedeli ed essere Raimondo Montecuccoli, occhieggia fin dal titolo alla trattatistica seicentesca e non risulta poi così bizzarro o anacronistico che l’erudito e valoroso condottiero dell’Impero possa proporsi oggi come promotore finanziario nella guerriglia post default delle grandi economie occidentali. Con una gestica composta e pacata il luogotenente Montecuccoli può ordinare i livelli di un ponteggio edile – sobria ma simbolica scenografia, in tempi di dimostrazioni civili e scioperi operai – secondo un catalogo di qualità utili al moderno precariato.
Lavori in corso dunque per il sovrintendente del cantiere, che stila metateatralmente i costi dello spettacolo, avvolto da metri di carta srotolata da una indefessa calcolatrice: opera come un ministro l’applicazione trasversale dei tagli riducendo il progetto di spettacolo, quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, al trenta per cento dell’idea iniziale. Questa oculata mannaia si compie poi letteralmente nell’allestimento di una scena di vita del Conte Montecuccoli: il testo a furia di sottrarsi si liofilizza in smorfie e glossolalie (le vocali hanno notoriamente un costo); i costumi si riducono a citazioni di panier, a sbuffi barocchi, lembi di broccati e calze di seta; la danza e l’azione stessa vengono disossate con tagli netti ad una drammaturgia di cui rimane un’apparenza di coreografia. Complice il Conte stesso che didascalicamente, facendo anche da servo di scena, predica la necessità di procurarsi i giusti mezzi per i propri ambiziosi progetti e pontifica sulla condotta morigerata e temperante dell’uomo di successo, che non si abbandona a orge lubriche ma assennatamente preferisce il riposo a dispendiosi onanismi.
Pecunia! Pecunia! Pecunia! è uno spettacolo didattico, nel senso brechtiano del termine, che gioca secondo differenti modalità sull’esposizione e smentita della rappresentazione teatrale nel filtro narrativo del Cavaliere Montecuccoli, con un virtuoso intermezzo di sonorità e ritmi esotici stratificati live nella piattaforma loop del maestro Roberto Zanisi, musicista di un’organologia amplissima. Ma si parla non senza comicità e non senza mordente – il tocco di Roberto Castello, generoso di non sense e gusto comics e ancora reduce dalla felicissima ricerca vocale di Carne trita (con danzatori e performer di prima scelta, quali Fabio Pagano), è ben temperato nella drammaturgia complessiva – dell’oggi e dei suoi tagli (leggasi piaghe) in un’Italia che di cultura e di teatro non si cura più, neanche nei suoi nuovi programmi di governo.

 
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