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ESTATI ROMANE

Micro/Macro segnali di teatro


[Silvia Mei] Ultimi fuochi per la stagione teatrale dell’estate romana in un settembre all’insegna di due diversi ordini di grandezza e operatività organizzative: Short Theatre 7, diviso tra Teatro India e il centro La Pelanda, e Contemporanea Teatro 2012, ospitato in una castanicoltura nella storica cittadina di Segni, a 40 km a sud del capoluogo laziale.
Non si può parlare di culture di teatro differenti, ma di paesaggi e microclimi polari, di temperature sociali e flora locale agli antipodi.


West End informa la settima edizione di Short Theatre, un programma difforme con artisti e compagnie che diversamente interrogano le forme del teatro e il loro farsi nell’incontro con lo spettatore. L’allusione alla decadenza dell’impero occidentale funziona da metafora della (messa in) crisi dei dispositivi dello spettacolo; come evoca, del resto, l’oltranzismo nichilistico del teatro postnovecentesco, un post-teatro (l’espressione è di Grotowski) o un contro-teatro. Non si tratta semplicemente di affermare il contrario della rappresentazione - il rito, la performance - quale evento sincero e vissuto, ma di demolire e rifondare le sue strutture ripensando la relazione con lo spettatore. Lo spettro di realtà in cartellone è davvero sventagliato tuttavia si percepisce più che l’erosione delle forme rappresentative, l’esaurimento di una scena scaduta, che ripete instancabilmente la sua fine e riafferma una stanca assenza di orizzonti possibili per fare teatro se non per quello che si è.

Bis svolge un lavoro coreografico di Ambra Senatore e Antonio Tagliarini, due star che celebrano se stesse nel rito finale degli applausi. La partitura di microgesti istruisce l’ultimo, estremo saluto al pubblico facendosi spettacolo. Gli orizzonti della scena sono a tal punto precipitati che non può esserci altro che un’eterna ineluttabile fine, celebrazione e suggello del “the end” che non fa calare il sipario sulle esequie di una rappresentazione impossibile - ora reverance, congedo, inciampo - piuttosto srotola uno zerbino di prato sintetico a mo’ di ritaglio edenico recuperando il mito dell’Origine. È un plasticoso posticcio kitsch dove neanche la tizianesca venere urbinate della Senatore riesce (o vuole) a peccare col ritroso Adamo-Tagliarini.
Il Teatro della Tosse propone con Generazioni componibili uno spettacolo a tesi, con morale finale (!), fatto di numeri paratattici, tra clip video, letture, racconto e animazione. Uno scenario “componibile” (tratto da People from Ikea di Andrea Pugliese), secondo una drammaturgia scandita sulle sezioni del catalogo Ikea e con la medesima qualità e resistenza dei componibili svedesi - senza poter almeno usufruire di un set ammobiliato. Neppure l’ideale sponsor ha ceduto alla desiderabilità consumistica dello spettacolo. E si capisce anche perché: non è certo una promozione all’usa e getta dei tempi moderni, ma la ricerca di valori sinceri e puri, delle cose che registrano affezioni, di un tempo che consuma ma che lascia anche tracce, a volte.

Di tutt’altra fatta la proposta, apparentemente “rappresentativa”, di Teatri di Vita con L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi dalla drammaturgia originale di Copi (in replica prossimamente a Teatri di Vita di Bologna dal 23 al 25 ottobre e al Teatro delle Saline di Cagliari il 29-30 novembre). La messinscena di Andrea Adriatico, già rodato con le (ri)scritture dell’argentino Raúl Damonte Botana, opta per una semplicità fiabesca, dove ogni segno deve rinegoziarsi, trasformandosi con disinvoltura nel suo contrario. E così i sessi e i generi (multipli, al limite transgender) delle tre donne protagoniste – non troppo lontane parenti delle sorelle cechoviane – non costituiscono affatto un ostacolo psicologico alle attrici (superlative!), che si avvicinano ai personaggi come a figurine manga coi loro dialoghi semigrotteschi.
È una regia en plein air che opta per lo spazio indeciso del canneto del teatro India, uno spiazzo di ghiaia perimetrato da fabbriche dismesse e da un’alta recinzione su cui corre una pista ciclabile, corsia preferenziale di casuali spettatori perlopiù immigrati. La scena è deserta, un "terzo paesaggio" alla Gilles Clément, quando due bagnanti in infradito srotolano come una stuoia il loro demanio, un tappeto in pvc che farà da aire du jeu. Quasi venissero da una terra lontana, estradate, Irina (Anna Amadori) e sua madre (Olga Durano) si sistemano come villeggianti al mare – il fraseggio cantilenante di Colette Magny, Melocoton funziona da refrain – nel ritaglio bianco di un altrove forastico abitato da lupi famelici (forse licantropi?). Il paesaggio del dramma è quello siberiano dei campi di detenzione, gelida steppa di isolamento, ma Adriatico interviene sulle polarità e gli ossimori, suggerendo con accessori e costumi uno scenario marittimo dai colori flash shock. Irina (un ex uomo) cerca di sfuggire al controllo della nevrotica iperprotettiva madre adottiva, Madame Simpson (una ex donna, il cui nome allude non casualmente alla soubrette Wally) per ricercare squallide avventure sessuali: trattata come una bambina – i giochi da mare diventano stoviglie o sanitari dove espellere il piccolo feto che Irina porta in grembo; il termos non contiene tè ma il liquore mirabelle; la bambola gonfiabile si risemantizza in canotto o ciambella – è oggetto delle attenzioni di uomini e donne indistintamente, per quanto in quella terra uomini e donne siano indistinguibili. Madame Garbo, l’insegnante di piano (una raffinatissima Eva Robin’s, musa elegante nel teatro di Adriatico già con Frigo sempre di Copi), la brama, la reclama e le sue profferte d’amore diventano perfino dichiarazioni e promesse di fuga a Pechino. Pur sposata a un mezzo uomo, Garbenko (Alberto Sarti), specie di satiro in mimetica con fallo fluorescente gusto cartoon e orecchie da furetto, è in verità lei l’uomo di casa, anche in virtù dell’innestato sesso maschile. Ma questa non è una storia d’amore e non reclama un lieto fine, piuttosto è una tragedia condita di fiabesco, dove gli aiutanti magici non possono freanare il masochismo della protagonista Irina, mitigare la sua ricerca di oblio contro la disperazione, l’eccesso di esistenza soddisfatto dalla reificazione dell’atto contro l’emarginazione che sconta, contro la differenza che vuole rivendicare fino a autoinfliggersi mutilazioni fisiche.
Nessun happy ending allora per dei personaggi che non riescono ad uscire da quel tappeto bianco, nessun rito d’iniziazione o di passaggio a battezzare i suoi personaggi. Tanto vale arrotolare via tutto: sono bambole rotte che non funziona più, scarti di una subumanità sotto una pioggia di finocchi freschi, gettati da un parapetto come rifiuti in una discarica. È la stessa fine dei burattini pasoliniani di Che cosa sono le nuvole?, una storia d’amore che si fa canzone.

[continua]

 
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