Ai sensi della Legge 7 marzo 2001 n°62, si dichiara che Culture Teatrali non rientra nella categoria di "informazione periodica" in quanto viene aggiornato ad intervalli non regolari.ng

 

TENTATIVO DI ESAURIMENTO #3 Le Belle Bandiere

LEO, MORGANTI E LA GIUSEPPA
Intervista a Elena Bucci | Le Belle Bandiere
a cura di M.P.

 

M.P.: Pensando ai grandi "registi-pedagoghi", come li chiamava Cruciani, vorrei iniziare il nostro dialogo parlando di maestri. Chi riconosci come maestro, in ambito teatrale e non, oltre a Leo De Berardinis?

Elena Bucci: Maestri e maestre se ne incontrano ogni giorno, quando si è disposti a vederli!
Eccoli, sono una folla di volti. La mia insegnante di italiano del liceo che ci parlava di letteratura, arte e teatro intrecciandoli e rivelandone le intime relazioni. Carmelo Bene sul palco del Teatro Alighieri di Ravenna mi dimostrò che esisteva una dimensione nella quale si potevano esprimere ombre ed ossessioni trasformandole in arte. Avevo sedici anni e diventai una statua per tutto il tempo dello spettacolo. Ero lì per caso, soltanto perché qualche amico di famiglia, abbonato, disdegnava quel tipo di teatro. Ricordo la mia sorpresa quando, nella scena meravigliosa della rivelazione dei nudi, si levarono mormoriì di scandalo e disapprovazione. Fu maestro in quel momento e grande: il mio dissenso nei confronti della mia vita quotidiana e delle regole che mi erano state insegnate poteva esprimersi in quella bellezza disperata.
Ho avuto come maestra la Giuseppa, che aveva la seconda elementare e veniva ad aiutare mia madre a tenere la casa e a tirarmi su. Mi ha raccontato le favole come nessun altro e si prestava ad ascoltarmi quando fingevo di saper leggere e, con il libro in mano, inventavo storie. È stata la prima scuola di scrittura scenica e improvvisazione, visto che, se sbagliavo o ero noiosa, non mi seguiva più. Mi è stata maestra mia nonna, mi sono stati maestri gli animali che per fortuna mi trovavo intorno o che raccattavo in giro tornando da scuola, mi sono stati maestri i ragazzi che avevano creato il gruppo parrocchiale di teatro in un paese deserto di idee, alcuni insegnanti della scuola di teatro di Bologna con una pazienza particolare, altri artisti che, negli anni affollati della ricerca di una formazione, vedevo e seguivo. Mi è stato maestro Morganti, con il suo anarchico rigore e con la sua apparente pigrizia, che non è altro che un riflesso in nero dell’esercizio dell’arte della sintesi e del pensiero lucido. Mi ha insegnato molto sulla libertà e sul gusto di stare in bilico tra improvvisazione e struttura, con un senso del divertimento e della verità che raramente ho incontrato... Ecco: più ne nomino e più ne appaiono. Ricordo gli attori che hanno lavorato con me, quelli generosi e quelli con lo sgambetto, e li ringrazio tutti, ricordo chi ha fondato con me la mia compagnia Le Belle Bandiere, le persone alle quali ho creduto di insegnare e che nello stesso tempo hanno insegnato a me... Mi è stato maestro Maurizio Viani, rivelandomi quanto la luce può esser magìa, spazio, umiltà e quanto la squadra tecnica è importante nel lavoro del teatro. Davvero, l’elenco potrebbe non finire mai. Mi è maestra questa stessa domanda che mi rivela quanto poco ho riflettuto su questo continuo passaggio di saperi e di tesori da una persona all’altra. Come posso dimenticare Claudio Meldolesi e la sua capacità di fondere esperienza teatrale, studio e approfondimento teorico? E che dire dell’Università di Bologna, dove ho fatto bellissime esperienze di insegnamento e regia sostenuta da persone coraggiose e innovative? Che dire della mia famiglia che mi ha sostenuto come poteva? E mi sono stati maestri gli spettacoli brutti e gli attori in difficoltà, indicandomi i pericoli da evitare e la straziante poesia della passione non aiutata dal talento.

Ecco, vedi? per ogni nome che scrivo mi sento ingiusta verso tutti gli altri che ho nella mente e nel cuore... Mi si perdoni. Tutti coloro con i quali ho lavorato ringrazio, tutti quelli che ho incontrato e incontro. Ogni volta che guardo il passato, l’ordine degli avvenimenti si burla del mio tentativo di scriverne una storia e si trasforma. Ho lasciato per ultimo Leo, perché é il primo artista che ho incontrato appena uscita dalla scuola di teatro, perché ci siamo scelti in assoluta libertà, perché è con lui che sono andata in scena la prima volta come attrice ‘di professione’ (orribile parola per un’eterna dilettante come me) in uno spettacolo meraviglioso come Re Lear (al Teatro Testoni di Bologna) e in un ruolo importante, perché gli sono stata accanto molti anni, imparando rigore, tecnica, ribellione e libertà, perché, pur essendo individualista e solitario, ha voluto creare un vero gruppo e mi ha insegnato ad ascoltare e a lavorare con gli altri, perché mi ha consegnato tutta intera alla dannazione del teatro e alle sue contraddizioni. La scelta è stata mia, é chiaro, ma dopo aver assorbito un’influenza grande. Per tutto questo ancora oggi lo odio e lo amo.

 

 

M.P.: Come è avvenuta l’occasione dell’incontro con loro?

 

E.B.: I miei incontri sono sempre stati piuttosto fortunati perché apparentemente orchestrati dal caso. Per quanto riguarda Leo, ricordo che chiesi con aria distratta qualcuno del teatro Testoni di Bologna se caso mai facessero provini, risposero di sì e io dissi che chiedevo per una mia amica. Mi ritrovai una domenica in sala, sola, con lui seduto in platea, con i capelli argento (ed era giovane!), appena uscito dal tunnel alcoolico, serio serio e con un minuscolo cane in braccio. Mi avventurai sul palco attraverso reti, vasche da bagno e altri oggetti dello spettacolo su Dante Alighieri e cominciai la sequenza delle battute di Gonerill, da Re Lear. Lui disse brava, io dissi no, lui mi interruppe: chi decide chi é bravo qui sono io. Poi un’altra lunga giornata per trovare Regan. Entravo e uscivo dalla sala del teatro provando e riprovando con attrici diverse senza capire cosa accadeva. Non era convinto? Cosa stavo sbagliando? E sentivo già crescere una relazione forte. Fui Gonerill e molte volte. Quando poi vidi il Dante Alighieri, ebbi, ancora una volta, la sensazione di una rivelazione. Mi fermo, perché i miei ricordi sono molto precisi, sia per quanto riguarda l’apprendimento della tecnica che per quanto riguarda il percorso di creazione degli spettacoli. Una sintesi sarebbe ingiusta e di certo retorica. Posso soltanto sottolineare che, da un’iniziale pulizia, attraverso l’immobilità e l’esercizio della consapevolezza delle sfumature, fummo condotti verso una graduale e sempre più ampia libertà, per giungere alla scrittura e alla creazione vera e propria di personaggi, guidati con sapienza e grande divertimento. Attraverso il lavoro con Leo ho incontrato Maurizio Viani, Antonio Neiwiller, Mario Martone, lo stesso Claudio Morganti, Alfonso Santagata, Toni Servillo....erano anni nei quali si stava più vicini, o forse è soltanto un’impressione...

Mentre lavoravo ancora con Leo, Claudio Morganti mi chiese di collaborare, per il progetto Riccardo III e per Ubu re, aiutandomi a trovare un’altra me stessa teatrale e un’altro modo di stare in scena. Ricordo che fui colpita da Morganti ad un Festival di Santarcangelo di molti anni fa, quando ancora al teatro proprio mi sembrava di non pensare. Anche in quel caso il segno fu la paralisi ipnotica e l’assenza da me stessa. Il duo delinquenziale formato da lui e Santagata mi chiese di partecipare ad un breve atto teatrale in occasione dell’apertura de Lo spazio della memoria di Leo (il piano superiore di un carrozzeria in zona Fiera che noi stessi avevamo imbiancato). Emanavano una forza creativa ed eversiva che mi aiutò a sentire e superare la mia paura della libertà in scena. A Scandicci, dopo una replica di Totò principe di Danimarca, Claudio mi si avvicinò e mi chiese di provare a lavorare con lui… poi fuggì. Da lì partì la mia lunga collaborazione con lui, dal film, alle Biennali, al premio Ubu. Mario Martone mi aiutò a capire, cosa della quale ero del tutto incosciente, quanto la mia immagine fosse del tutto intrecciata con quella di Leo e del suo lavoro e mi incitò, nel momento del distacco dalla compagnia, a ritrovare sicurezza come attrice e come autrice. Come Leo, anche lui è uomo di teatro e uomo di cultura in senso ampio, che ama proteggere e aiutare gli artisti che stima. In quegli anni ho fondato la mia compagnia, fatto i primi spettacoli e le prime rassegne..e qui si apre un capitolo importante che riguarda la crescita e l’autonomia: molte persone hanno avuto fiducia in quel sentiero che Le Belle Bandiere andavano creando e percorrendo e, con questo semplice atto, l’hanno reso più ampio e imprevedibile. Non posso che accennare a questo percorso, tanto è denso e importante per me.

A parte i rivoli degli aneddoti, che sono il vizio del teatro, so bene che questo è soltanto un accenno alla verità: volevo sottolineare che la fortuna mi ha protetto, tranne alcuni episodi molto rari e isolati, dalla crudeltà dei provini di massa, dall’umiliazione del rapporto con una voce che da fondo sala risponde «grazie» dopo una terrorizzata esibizione, e da molte altre cose che, nel loro precipitare nella sciatteria, hanno piano piano rovinato molta bellezza del nostro lavoro, che pure rimane, nella sua essenza e nella sua ricerca della verità, amoroso e allo stesso tempo spietato.

 

M.P.: Cosa hai preso da loro, allora e nel tempo?

 

E.B.: Anche questa è una domanda che richiederebbe molto pensiero, molte parole e altrettanta capacità di sintesi, fosse soltanto per non mancare di rispetto ed attenzione a chi mi ha aiutato.

Giorno per giorno scopro di avere appreso più di quanto non sappia. Soltanto guidando una compagnia ho potuto comprendere appieno la lezione di Leo, soltanto cercando di mantenerla viva, formando attori liberi e creativi, cercando un incontro reale con il pubblico, investigando testi classici e contemporanei ho rivisto con consapevolezza azioni di Leo che ammiravo e non capivo, o che addirittura criticavo senza vederne l’ampiezza. La stessa cosa vale per tutte le altre persone che ho incontrato. La vita mi ha dato l’opportunità di conoscere molte esperienze e di lavorare in molti spettacoli e in molti ruoli. Ogni volta che ho avuto la responsabilità piena di un lavoro ho compreso qualcosa in più della solitudine e della forza dei miei maestri.

Ho preso quello che potevo da loro e tutto ho cercato di trasformare, anche  per un senso di rispetto nei confronti di quello che mi è stato insegnato: non si imita, si prende e si ricrea, per non essere parassiti ma creatori di forza ed energia. Nel 2009, per la prima volta, ho consapevolmente usato una musica che ho conosciuto attraverso Leo, sicura che non era plagio né copia, ma omaggio affettuoso e diverso. Prima ho sempre cercato di non ripetere immagini e visioni che, pur profondamente radicate in me, non volevo rischiare di imitare. Cito questo esempio soltanto per sottolineare quanto la consapevolezza, arrivata anno dopo anno, spettacolo dopo spettacolo, mi abbia permesso di tornare ad amare e a sentire vicine quelle personalità forti e importanti dalle quali ho dovuto prendere le distanze per esistere come creatrice e per trovare una strada autonoma e originale. Leo mi ha insegnato ad essere libera nell’uso dei suoni e della voce, a non avere pregiudizi né steccati, e allo stesso tempo mi ha insegnato ad essere implacabilmente autocritica, fino all’immobilità! Forse per questo per riuscire a scrivere ho dovuto fare appello all’improvvisazione e all’uso della scrittura scenica e forse proprio per la complessità completa del suo insegnamento la mia scrittura non può prescindere dallo spazio, dalla luce, dal corpo e dal suono.

Ma davvero: mi sento dentro un gioco di scatole cinesi infinite e in ognuna di esse trovo un insegnamento e una ribellione. E poi sono cosciente che gran parte degli insegnamenti non li posso proprio vedere: sono nel mio sguardo, nel mio corpo, nel pensiero....

 

M.P.: Cosa ti rimane oggi di quegli incontri? Ma soprattutto: in che cosa / come li hai "traditi"? Su questo ultimo punto vorrei spiegarmi un po' meglio, attraverso le parole di Marco De Marinis: «Di una tradizione ci si appropria, non si può non appropriarsi, attivamente, quindi tradendola-tramandandola (anche etimologicamente, tradizione rinvia sia al trasmettere-tramandare che al tradire-falsificare-manipolare)», e poi: «Credo che esistano tanti modi per appropiarsi attivamente di una tradizione, dell'insegnamento di un maestro, per tramandarlo-tradirlo. Uno dei modi può essere quello di metterla/lo in rapporto con altre tradizioni, con l'insegnamento di altri maestri». Eugenio Barba nel suo libro La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in Polonia parla del Maestro come «colui che si rivela per sparire».

E infine Grotowski: «Un vero allievo di Stanislavskij era Mejerchol'd. Non applicava il "sistema" scolasticamente. Dava la sua risposta. » e «Dicono i tibetani: bisogna superare il proprio maestro di un quinto, altrimenti la tradizione si deteriora. [...] Ciò che resterà dopo di me non può essere dell'ordine dell'imitazione, ma del superamento. Nello stesso modo, io non ho imitato Stanislavskij, ho cercato ciò che era possibile dopo. Una ricerca non può limitarsi a una sola vita. È una faccenda di parecchie generazioni».

E questo mi fa venire in mente un pezzo della presentazione del tuo lavoro Sale: « Il mio intervento dovrà essere un'improvvisazione, perchè questa fu la questione che fece discutere e riappacificare Leo e me, l'ultimo passo che affrontai con lui e che da allora mi accompagna come pratica, aiutandomi a scrivere direttamente in scena con più forza e sintesi e permettendomi di sporcare le parole, fino a spingerle al canto, con i colori delle persone e dei luoghi dove lavoro, con le impressioni registrate fino all'attimo prima del salto nel vuoto davanti al pubblico. Leo merita tutto il mio rischio». Cosa hai voglia di dire, su tutto questo?

 

E.B.: Ti ringrazio per l’onore che mi fai accostando le mie parole a quelle di ingegni tanto grandi. Condivido in pieno queste riflessioni. Vorrei dire qualcosa riguardo alla necessità che il maestro sparisca e al dolore creativo che questo comporta. Leo non voleva che io andassi e io non volevo andare, ma sapevamo entrambi che avremmo lottato e guerreggiato fino alla separazione, necessaria al reciproco rinnovamento. Pur continuando ad ammirarlo senza condizioni, avevo cominciato a costruire una strada tutta mia e apparentemente quasi opposta, attraverso il lavoro di gruppo, la costruzione di un laboratorio permanente e di una compagnia. Mi sentivo parte del Teatro di Leo, ma non potevo più accettare il ruolo di madre nera che per Leo prevaleva su tutti gli altri che avrei potuto interpretare. Lentamente sono diventata un contraddittorio vivente, ripercorrendo, senza rendermene conto, i passi della diversificazione generazionale aggiungendovi anche quella del percorso artistico. La questione dell’improvvisazione fu soltanto l’occasione del duello: in King Lear n.1 emersero i contrasti già nati ne Il ritorno di Scaramouche. Leo adorava avere attori di talento e allo stesso tempo ne era geloso, voleva essere libero e voleva averci intorno, ci amava e non ci sopportava. Voleva, come spesso gli è accaduto, vivere una nuova vita personale e artistica, dopo avere portato al culmine il percorso con la storica compagnia bolognese. Io desideravo portare la mia esperienza teatrale fuori dal teatro elitario e di qualità altissima nel quale avevo avuto la fortuna, non consapevole ancora, di entrare. Volevo misurarmi con la trasmissione ad altri, con la creazione e con la libertà. Per fortuna la nostra discussione si compose con grande emozione prima che Leo si ritirasse all’improvviso in un mondo tutto suo. Mi è più facile perdonarmi la mia cecità di allora, la prepotenza e l’incapacità di reale comprensione. Ora comprendo, quando vedo allontanarsi gli attori che ho formato, quando li vedo creare compagnie e spettacoli, quando li vedo andare per la loro strada. Sono felice che questo accada senza grossi traumi e con un senso di continuità di trasmissione e di condivisione. Mi fa piacere vedere la tecnica trasformarsi e declinarsi in tanti modi quante sono le persone che incontro e alle quali cerco di trasmetterla. Sono contenta di essere ancora curiosa. Allo stesso tempo, comprendo soltanto ora quanto sia doloroso e difficile sparire davvero, lasciare andare, non esserci. Scopro anche come da questo desiderio di imparare a sparire senza dolore coincida esattamente con il desiderio originario che mi ha portato verso il teatro, arte della quale nulla rimane se non impalpabile ricordo e scia di energia. Per quanto riguarda il tradimento necessario per tramandare e trasformare, penso che tu possa dedurre da quanto vado disordinatamente dicendo che non posso fare altro che tradire e custodire! Siamo chi abbiamo incontrato, credo, e cambiamo ogni momento a seconda di chi e cosa continuiamo a voler incontrare.

Ciò non toglie che, ad ogni separazione, fine di laboratorio e fine tournèe, io debba sorvegliarmi. Detesto  a tal punto queste interruzioni del viaggio che rischio di litigare con tutti, nel vano tentativo di trovare una strada per soffrire di meno. Non condivido i modi di produzione che esistono in Italia: penso che la vera natura del teatro sia custodita da compagnie stabili composte da persone che si sono scelte reciprocamente. È la cosa più difficile da realizzare al presente, pur essendo una via straordinaria, sia economicamente che artisticamente. È anche una via di libertà e indipendenza, certo. Questo dovrebbe far riflettere.

 

M.P.: Rileggo ora sul sito de Le belle bandiere il lungo elenco dei tuoi spettacoli. Mi verrebbe da dividerli, seguendo Eugenio Barba, in due categorie, dal punto di vista testuale: lavori di teatro col testo e lavori di teatro del testo. Ritieni corretta, nel tuo caso, questa suddivisione? Me ne puoi raccontare i motivi e le caratteristiche, magari prendendo ad esempio, per la prima categoria, Autobiografie di ignoti, per la seconda il lavoro con cui hai appena debuttato, Antigone, ovvero una strategia del rito?

 

E.B.: Sono molto curiosa, e penso che sia la scrittura originale che lo studio dei testi di ogni tempo porti a visioni diverse e impreviste. Mi piace molto lasciarmi influenzare da ciò che mi circonda, sia che si tratti di un bar e dei suoi avventori, sia che si tratti della poesia di Pessoa, di un romanzo, sia di un testo antichissimo come Antigone, sia di un famigerato Goldoni che di uno spesso incompreso Ibsen. Mi piace avvicinarmi ai testi scritti da altri con l’atteggiamento di un’ignorante che li trova per caso in quel momento, per poi corredarmi di note, notizie e letture. Mi piace immaginare il pubblico che per primo ha visto quei lavori in scena e mi diverto a scrostarli dai miei stessi pregiudizi. Quante volte, analizzando meccanismi di reazione, intonazioni e pensieri, da sola o insieme alla compagnia, ho scoperto pregiudizi e stereotipi che lavoravano nell’ombra mentre pensavo di esserne del tutto libera. La presunzione della mente spesso devia la corretta e profonda percezione dell’intuito e del sentire. La lettura, allora, l’azione, l’improvvisazione, tornano a rendere vivo il linguaggio, le parole e i gesti mentre finalmente risuonano la risata dell’autore e la sua intelligenza. In quei momenti magici ho davvero la sensazione di poter viaggiare nel tempo e di poter incontrare, per un attimo, chi ha vissuto prima di me.

Per quanto riguarda Antigone la questione è ancora diversa. In questo tempo, che spinge il teatro in un angolo, che elude la morte e i riti necessari a condividere il dolore e la gioia, che disprezza la cura che occorre a mantenere una comunità civile, che scambia l’interesse materiale con il benessere, la difesa di un privilegio con la politica e il potere con l’autorevolezza, ho voluto confrontarmi con un testo che viene da un mondo antico del quale poco sappiamo, ma che di certo si interrogava continuamente e senza presunzione sulla conoscenza, sui suoi limiti, sulla politica e i suoi strumenti, sul contrasto tra individuo e comunità. Credo che il teatro sia davvero una palestra dove si esercita la conoscenza di sè e l’ascolto degli altri. Credo che sia uno di quei luoghi privilegiati dove si può apprezzare il piacere di eseguire perfettamente e con attento studio teorico e pratico un qualcosa che non ha alcuna pratica utilità se non la misteriosa trasmissione di energia da una persona all’altra, anacronisticamente confluite in un unico spazio, pur essendo nell’epoca nella quale tutto si può trasmettere attraverso i media.

Credo sia uno di quei luoghi dove non si può fare a meno di un rituale che, anche nei casi di parossismo divistico, non può non essere collettivo, che anzi rende tutti partecipi di qualsiasi talento individuale.

Volevo riportare nel presente del teatro spesso impoverito le parole di un tempo nel quale lo stesso rito era condiviso e centrale, riconosciuto da tutti nella sua capacità di trasformazione e liberazione.

Ho denunciato la nostra ignoranza, la nostra dispersione e incapacità di comprensione, inventando un modo di dire, cantare e danzare quei segni che ci sono rimasti tra le mani. Ho voluto rinnovare la mia fiducia nel talento come dono divino, intendendo per divino la magìa che non ci appartiene ma che eternamente inseguiamo.

Il coro trascina con sé segni misti del passato, un cilindro, una minigonna, un mantello, le maschere, mentre il suono si impasta con danza e parole in una tessitura che sfiora l’opera rock senza disdegnare elettonica e pianoforti mozartiani. Non voglio ora addentrarmi sui risultati e le sorprese se non per raccontare di come questa storia stia interessando i pubblici più diversi, coinvolgendoli nella storia della follia di Antigone amorosa e in quella dell’ordine di Creonte. È stata una sorpresa inaspettata accorgermi di quanto il pubblico, in questa rivoluzione scura e angosciosa, abbia voglia di tornare a condividere grandi domande. E ogni sera trovo nuove risposte dalle stesse azioni che compio, rinnovando sintesi e intuizioni, ritrovando melodie e intrecci. Sarebbe però ora necessario entrare nello specifico: cosa che credo esuli da questa nostra chiacchierata. Sottolineo ancora una volta però quanto sia illuminante ascoltare quanto non ci appartiene o ci sembra lontano. C’è sempre un interno risuonatore che, insistendo, o semplicemente attendendo, si risveglia e comincia a generare idee di spazi, suggestioni, luci, azioni che sembra appartengano ad una memoria collettiva.

Per quanto riguarda invece i testi scritti da me, spesso suggestionata da autori e scrittori che mi hanno accompagnato e che amo, si tratta di un percorso lievemente diverso. Anche in questo caso spesso passo dalla scrittura all’improvvisazione per poi ritornare a correggere ed arricchire la scrittura, in un percorso che mi pare possa restituire un senso di autentico e parte della ricchezza del reale. Comincio questo percorso quando voglio esprimere qualcosa in teatro che non trovo nei testi che conosco e che spesso scopro soltanto quando mi trovo di fronte ad un pubblico. Per quanto riguarda Autobiografie ad esempio, volevo occuparmi di un certo tipo di artisti che, per eccesso di vitalità, spesso diventano spettatori delle vite altrui, cadono innamorati della realtà a tal punto da non poter più agire ma soltanto osservare, registrare, creare. Volevo occuparmi del naufragio della cultura d’Occidente e dei suoi superstiti resistenti, volevo raccontare la vita da re e regine di persone che ho incontrato e che nessuno racconterà, volevo esprimere quanto ne sia stata incantata. Il bar, pur trasformato in una nave, zattera, isola, esiste davvero in qualche parte del mondo, come esiste il rischio di disperdere il proprio talento in un bicchiere di whisky. Avevo il desiderio di narrare anche alcuni apparenti naufragi individuali, che considero di struggente bellezza. Ho scritto molto e preso molti appunti. Ci sono ritratti che non sono mai riuscita a mettere in scena e che mi piacciono moltissimo, come esistono personaggi che sono emersi all’improvviso in una serata di particolare ispirazione, quando il pubblico spinge a creare e ad improvvisare a fondo. Ci sono racconti tragici che sono diventati comici e racconti comici che fanno piangere. Bellissime sorprese. Dalla sbobinatura delle serate di spettacolo ho spesso ricevuto la prova di come si possano ribaltare i pensieri e le riflessioni fatte a tavolino. Di solito devo farmi aiutare da qualcuno perché rischio di cambiare il testo anche mentre sto scrivendo, disgustata da alcune semplificazioni o scivolate dovute alle modalità improvvisative. Quindi amplifico, correggo, distendo, taglio. Non bisogna dimenticare che questo tipo di lavoro è spesso in musica e che il testo spesso è intrecciato con essa. Una frase che appare troppo semplice può essere perfetta se resa attraverso il canto. Purtroppo, allo stato attuale, non ho trovato il modo di trasferire su carta questo parlato-cantato. Per fortuna possiedo le registrazioni, che risultano assai preziose. Vista però la mia continua ricerca sulla comunicazione tra le arti e la natura degli allestimenti che ho realizzato, sempre incentrati su un linguaggio unico strettamente intrecciato, sto studiando un sistema di scrittura che si avvicina forse a quello della musica contemporanea o dell’opera.

Molto da aggiungere avrebbero le persone che mi accompagnano nelle avventure dal punto di vista musicale...da Andrea Agostini (ora all’I.R.C.A.M. di Parigi) a Raffaele Bassetti.

 

M.P.: Per far maturare questa domanda mi ci sono voluti dieci anni. Spiego. La prima volta che ti ho visto al lavoro è stata, un sabato pomeriggio di circa dieci anni fa, nel foyer di un paludatissimo teatro forlivese in cui raccontavi e presentavi, assieme a Claudio Meldolesi, il tuo spettacolo Non sentire il male – dedicato ad Eleonora Duse. Saremmo stati in venti ad ascoltarvi, in quel foyer orrendo. Non so gli altri, ma io ci sono rimasto secco. Nonostante l’orrendo tavolo da conferenza, e l’orrendo foyer, e l’orrendo neon che avevate sopra la testa, ricordo un’emozione che mi ha ammutolito per qualche ora, dopo, come mi capita in uno spettacolo su mille, grandissima fortuna. Poi ho pensato che lì c’era qualcosa da scoprire. Chissà. Dopo quella volta nel foyer, in questi anni ho visto molti tuoi spettacoli veri e diversi, e sempre quasi mi spuntava una domanda, ma non chiaramente. Chissà. Qualche settimana fa leggo il prof. De Marinis che, anche citando lo studio di Mirella Schino, parla della Duse come super-personaggio: «possibilità, per l’attore, di “travalicare l’unità artistica costituita dal personaggio” e di “usare elementi di una parte per altre parti” fino ad arrivare a una sorta di “dramma continuato” o di vero e proprio “repertorio-canzoniere” […] nel senso di una serie di opere (le rappresentazioni) che hanno vita a se stante, ma possono anche proporre una lettura diversa, in sequenza, come se i singoli frammenti, i singoli personaggi delle diverse pièces, fossero le parti emergenti, le diverse fasi di sviluppo di un romanzo o di un ciclo sommerso». Infine, Marco De Marinis nota come il super-personaggio fisso riappaia anche nel teatro di ricerca contemporaneo, e fa i nomi di Cieslak, Beck, Iben Nagel Rasmussen, Carmelo Bene e – nota – Leo De Berardinis. A me tutto questo è parso illuminante per spiegarmi quel chissà che non riuscivo a definire del tuo lavoro, che in questi dieci anni ho visto a cominciare proprio “dalla Duse”. Dunque: è così? Elena Bucci super-personaggio?

 

E.B.: Queste tue ultime osservazioni e questa tua ultima domanda mi commuovono.

Il fatto che tu abbia intravisto una continuità emotiva nelle mie apparizioni in scena e nelle mie scelte artistiche mi conforta e mi illude che si possa davvero comunicare anche attraverso l’assenza e l’elisione: è importante quello che si porta sul palco, ma è importante anche la forza con la quale si allude alla preparazione e a quanto, dello sforzo di sintesi e visione, rimane nascosto ma necessario e intessuto tra le azioni e le parole manifeste.

Fatte le debite proporzioni con gli esempi dei quali mi onori, mi viene in mente una domanda che, proprio in questi giorni di affollatissime repliche di Antigone a Brescia – città che, attraverso il suo Teatro Stabile, ospita già da diversi anni la progettualità Belle Bandiere – spesso mi è stata rivolta, proprio riflettendo sui personaggi che ho amato e attraversato, da Lady Macbeth a Hedda Gabler, da Juana de la Cruz a Eleonora Duse, da Mirandolina ad Antigone passando per Hildegar von Bingen. La domanda è: cosa lega queste diversissime figure, come mai sono così diverse e allo stesso tempo intimamente legate? C’è in questi anni di lavoro anche lo sviluppo di una visione femminile che prescinde dall’anagrafe e si orienta piuttosto verso un modo di creare e di intendere la propria presenza nella cultura e nel teatro?

Mi viene da accostare questa domanda alla tua domanda e alla tua osservazione sul super personaggio. Forse quel filo, quelle corrispondenze tra personaggi diversi che rileva chi ha visto molti dei miei lavori, sia da autrice che da attrice, forse quella sensazione di non detto e di nascosto che pure si manifesta, non è altro che la mia biografia sommersa dalla quale attingo continuamente trasformando, come fossi un registratore che non si spegne mai.

Spesso mi accade, in occasioni diverse, di riscrivere in diretta, improvvisando davanti al pubblico, ricordi personali, racconti, biografie, magari intrecciandoli a trame di spettacoli già molto praticati, come Autobiografie appunto o lo spettacolo su Eleonora Duse, che mi accompagna da molti anni mutando con  me. In quei momenti di creazione pura, che attinge dal reale e dalle letture in modo anarchico e sorprendente - momenti di assoluto stupore e gratitudine - ho davvero la sensazione di poter attingere ad un materiale dormiente ma presente, che di volta in volta mi viene in aiuto. Forse non è altro che la comprensione della coincidenza, meravigliosa e terribile, tra vita e teatro e l’intuizione di quanto io sia sempre in cerca di una pratica e di un allenamento all’autentico che mi aiuti a far cadere pregiudizi, vizi, automatismi, in un viaggio verso una trasparenza che, superando una tecnica acquisita, mi renda strumento consapevole di un flusso energetico misterioso eppure tangibile e oggettivo, di quel piccolo miracolo che, quando riesce, unisce in un’unica azione pubblico e attori.

Per concludere una piccola nota avulsa dalla domanda: non ho volutamente nominato, in questa intervista, persone importanti con le quali ancora oggi lavoro. Il fatto stesso di averle accanto testimonia della loro importanza e del valore che do alla continuità delle esperienze!

Grazie per queste domande. Le licenzio a malincuore, sapendo che potevo rispondere in mille altri modi e in mille altri modi tradire, non volendo, la verità. Anche qui: accetto l’improvvisazione, un bagliore piccolo, insufficiente, che spero abbia la forza di alludere a quanto non so dire in questo spazio breve.

 
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