TENTATIVO DI ESAURIMENTO #2 Teatro Due Mondi |
MESTIERE E RIVOLTA M.P.: Il mio interesse per il teatro è nato per caso, quando nel 1992 venni a vedere la dimostrazione di un tuo laboratorio, uno spettacolo che si intitolava Coro, e che faceste nel cortile interno di una casa di Faenza, al tramonto. Venni per caso, invitato da un’amica che partecipava al laboratorio, e rimasi folgorato. Nel tuo caso, come è avvenuto l’avvicinamento al teatro? Alberto Grilli: Avevo un professore di italiano alle medie, Mario Zoli, che faceva teatro con una sua compagnia amatoriale. A scuola abbiamo cominciato a fare teatro con lui, si teatralizzavano degli oggetti di studio: si faceva un canto dell’Inferno a coro, abbiamo fatto delle scene all’aperto de L’anello dei Nibelunghi, in terza media facemmo un collage di testi di Shakespeare.
M.P.: Facevate queste cose solo all’interno della classe, come vostro apprendimento, o erano anche visibili da altri?
A.G.: C’erano cose che si facevano solo in classe ed altre, come quella su Shakespeare, che abbiamo mostrato ad altri studenti, ne abbiamo fatto uno spettacolo. Tutta la classe faceva spettacolo… io facevo Amleto, la scena quando incontra il padre… Quando poi andammo alle superiori, dieci o dodici di noi, rimasti molto legati a questo professore e a questa esperienza di teatro, fondammo con lui la compagnia Alterego: non facevamo teatro dialettale e non eravamo legati alle parrocchie, e questo già era un fatto eccezionale. Lui era il regista, noi avevamo 15-16 anni, poi c’era un blocco di “vecchi”: suoi amici di forse 25 anni. Abbiamo fatto Mistero buffo di Majakovskij e tre Beckett: Finale di partita, Giorni felici e Aspettando Godot. Io non ho recitato in Aspettando Godot : ho smesso abbastanza presto di fare l’attore, mi occupavo delle luci, delle scenografie, cominciavo a fare l’aiuto regista. Quindi ci sono cascato dentro senza mai nemmeno decidere di fare teatro. M.P.: Mario Zoli era un regista dispotico? A.G.: Era un regista tradizionale: si prendeva il copione, si leggeva, lui faceva sempre sentire come si doveva fare, faceva un’accurata analisi dei personaggi da un punto di vista psicologico, poi si imparava il copione a memoria e si andava in scena. Un metodo molto, molto convenzionale. Poi, quando avevo 17 anni, la compagnia decise che noi giovani dovevamo fare uno spettacolo da soli. Io ero il suo assistente, lui mi propose come regista, gli altri miei compagni pensavano fossi la persona giusta. Cominciammo le prove dello spettacolo, scegliemmo un testo di Nello Saito, Spudorata verità, radunammo una ventina di amici, tra attori e band di musicisti; dopo qualche mese di prove, portate avanti con la stessa metodologia convenzionale, lo facemmo vedere a Mario e ai vecchi. Mario ci disse: “Non potete andare in scena con questo spettacolo, non è il momento, non siete pronti”. Lì ci fu la ribellione, era il ’79, avevo 18 anni, noi pensavamo di essere pronti, così ci staccammo e fondammo il Teatro Due Mondi, mettendo in scena questo spettacolo. Così abbiamo “ucciso il padre”. Nell’83, dopo quattro anni di spettacoli sulla falsariga di quelli fatti con Mario Zoli, incontriamo Gigi (Bertoni), che ci indica la possibilità di andare a fare un laboratorio con Mario Chiapuzzo a Bologna, il “secondo” Mario nostro maestro.
M.P.: Ti ha messo subito a tuo agio! A.G.: Eravamo tutti nella stessa condizione. Tornammo e mettemmo gli altri di fronte al fatto che avevamo vissuto un’esperienza straordinaria, e che non avremmo più potuto fare il teatro come prima. Tutti gli altri smisero, quella fu la seconda nascita del Teatro Due Mondi. Avevamo una stanza con una scrivania per fare le prove. Togliemmo la scrivania, mettemmo una moquette e cominciammo a fare il training. Comprammo La corsa dei contrari (Barba) e Per un teatro povero (Grotowski) e cominciammo. Un anno dopo, nel 1984, Cieslak faceva un laboratorio a Bologna, Angela (Pezzi) e Renato (Valmori) andarono. Poi, fino all’88, ci fu una fase molto chiusa di lavoro interno e pochi spettacoli, anche molto diversi l’uno dall’altro, sperimentando cose molto diverse. Nell’88 uscì Ubu re, che fu, dal punto di vista della poetica, il nostro primo spettacolo compiuto. Con questo spettacolo cominciammo a farci conoscere e a conoscere il nostro mondo di riferimento: Grotowski, Barba, De Marinis, Meldolesi. M.P.: Oggi chi riconosci come maestro? A.G.: Brecht è il mio primo riferimento per la regia, per l’attore, per il senso del lavoro. Grotowski e Barba lo sono per l’idea del gruppo, per il modo di concepire il teatro come ensemble di lavoro continuativo, per il training. Siamo dei “terzoteatristi” un po’ anomali: non abbiamo mai messo in scena il training, abbiamo molta tradizione di teatro d’attore italiano, abbiamo fatto quasi sempre spettacoli frontali, siamo arrivati al teatro di strada molto dopo. La nostra drammaturgia non è un montaggio di improvvisazioni, abbiamo un drammaturgo, una figura a sé che affianca il regista. Del terzo teatro, più che le questioni artistiche e lo stile in senso stretto, riconosciamo le questioni dell’etica, del pensiero.
M.P.: A proposito di Brecht: per il tuo allestimento de Il cerchio di gesso del Caucaso del 1994 ti sei rifatto all’allestimento che ne aveva fatto lui?
A.G.: No. Incontrai Meldolesi, che come sai era un esperto di Brecht, vidi alcuni suoi libri di regia, delle foto, lessi più volte L'acquisto dell'ottone (Breviario di estetica teatrale e altre riflessioni, 1937-1956), in cui Brecht presenta la sua visione, il suo stile. Ho studiato molto Brecht, ma poi ho cercato una mia strada. Di Brecht ho usato spesso i Drammi didattici, anche nei laboratori, come esercizio. Di lui mi piacciono la scrittura, l’uso della terza persona, il narratore, il prologo, il personaggio che esce dal personaggio. Quando abbiamo fatto Ubu, abbiamo fatto uno spettacolo brechtiano senza ancora conoscere Brecht: nel nostro Ubu c’erano già la non-immedesimazione, lo straniamento, l’attore che narra di se stesso… anche il fatto di essere in pochi ci obbligava a questo. C’è dunque una specie di identificazione “a posteriori” con Brecht: l’approccio alla politica, il pensiero di fondo, l’atteggiamento didattico.
M.P.: Da sempre affianchi al lavoro con i tuoi attori esperienze di laboratorio con gruppi di persone in difficoltà. Penso, negli ultimi tempi, a tuoi lavori fatti assieme ai rifugiati africani, ai tossicodipendenti, alle ex operaie dell’OMSA, ai bambini dei due orfanotrofi di Tuzla e Scutari. Quali affinità e quali differenze trovi nei due percorsi, quello con gli attori e quello con i non-attori? A.G.: Noi siamo un gruppo di persone in difficoltà, per esempio per quanto riguarda la ricerca del senso; c’è un incontro fra due gruppi in difficoltà, dove uno può aiutare l’altro. Il lavoro con i non-attori è per me molto diverso dal lavoro con gli attori. I non-attori funzionano quando non “fanno gli attori” e hanno una grossa motivazione extra-teatrale: per esempio, per i bambini degli orfanotrofi, la motivazione poteva essere: “andiamo in Italia a fare lo spettacolo”. Queste motivazioni danno presenza: l’importante è non farli “recitare”, e chiedere loro di compiere delle azioni concrete. Così possono diventare veri per chi li guarda. Gli attori, invece, hanno bisogno di costruire tecnicamente la presenza: la sola “motivazione artistica” li rende immediatamente falsi. Con gli attori lavoro sulla consapevolezza dell’effetto delle cose che fanno, con i non-attori no.
M.P.: Quindi con i non-attori non fai un lavoro sul personaggio. A.G.: Con i non-attori non posso parlare di personaggi, perché non hanno gli strumenti tecnici per costruirli, per cui con loro lavoro sull’oggettività di azioni concrete, a cui sarà il pubblico, successivamente, a dare un significato. Con i non-attori lavoro sulla loro condizione esistenziale, su cose che li riguardano direttamente, con i miei attori invece no, con loro cerco di raccontare una visione del mondo più collettiva. Le affinità nel mio lavoro con gli attori e con i non-attori sono quelle di riferirmi sempre a un gruppo, senza prime-donne, e proporre le stesse regole che facilitano il lavorare assieme: parlare poco, aprirsi agli altri.
M.P.: Con i tuoi attori hai un approccio maieutico? Come lo realizzi concretamente? A.G.: Di solito facciamo i kridati (è una parola indiana che significa offerta, regalo): ogni attore ha un paio di settimane di tempo per preparare una scena da proporre. Si parte da alcuni elementi dati (un testo, sapere se lo spettacolo sarà all’aperto o al chiuso e dove starà il pubblico), e da lì ogni attore puo’ costruire la sua proposta. Mi interessa infatti che gli attori lavorino sulle associazioni di idee, perché è un modo di riferirsi, ma indirettamente, al proprio vissuto. Quando vedo i primi kridati, inizio a immaginare la scenografia e a definire e restringere il campo di lavoro. A quel punto chiedo agli attori di preparare altri kridati, con indicazioni via via più precise. Alcuni di questi kridati, trasformati e lavorati, entrano negli spettacoli, altri no. Noi non creiamo con le improvvisazioni collettive, se non partendo dal kridati di un attore: un materiale già almeno un po’ solido, come punto di riferimento; ad esempio, se dal kridati nascono dei personaggi, si può lavorare su come i personaggi interagiscono. Un kridati di un attore è utile se fa venire in mente delle idee anche agli altri attori, magari per sviluppare cose che loro stessi hanno fatto o hanno visto fare da altri.
M.P.: A proposito di improvvisazioni, e di rischio di cliché: ti ricordi, in Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, il racconto che Thomas Richards fa delle prime improvvisazioni con Grotowski? Mi hai già spiegato come gestisci il pericolo-cliché con i non-attori. Come fai, invece, con gli attori? A.G.: Il cliché è quando si fa quello che genericamente si immagina di dover fare; invece, occorre essere non-generici, riferirsi a modelli concreti, precisi. Prima del 1988 facevamo improvvisazioni collettive, poi abbiamo smesso di farle, perché venivano fuori sempre gli stessi cliché: l’improvvisazione, se lasciata libera, andava verso l’asilo, o il funerale o il matrimonio. Nell’asilo tutti regredivano ai giochi d’infanzia, si incominciava ad andare a quattro zampe, ci si rincorreva, si ridacchiava. Nel funerale tutto era drammatico, uno si buttava in terra fingendo di morire e tutti gli andavano attorno. Nel matrimonio c’era un amore, una storia che finiva bene, tutti erano felici. E questo a noi capitava con qualsiasi tema dessi per l’improvvisazione: si finiva sempre all’asilo o al funerale o al matrimonio.
M.P.: E quindi adesso come gestisci questa cosa? A.G.: Adesso, per fare le improvvisazioni, bisogna avere dei materiali e soprattutto dei personaggi, magari venuti fuori dai kridati: il personaggio deve avere un certo atteggiamento fisico, un certo modo di reagire alle cose. Ogni attore deve insomma costruirsi una gabbia fisica, per non essere se stesso e, con un’idea di personaggio in testa, deve decidere come reagire alle situazioni. L’improvvisazione quindi non è tanto inventare cose nuove ma inventare gli incastri nuovi: è tutta questione di relazioni fra le cose esistenti, che possono produrre una nuova situazione. Ma sono le relazioni che producono, non le invenzioni. E più l’attore lavora su un personaggio complesso e sfaccettato, più le possibilità di incastro si moltiplicano. Cieslak, quando Angela e Renato fecero il laboratorio con lui nel 1984, faceva improvvisazioni secondo un suo metodo: lui dava un tema, ad esempio l’amore, e si finiva che tutti piangevano, o si denudavano, o si toccavano, quelle cose catartiche. Angela e Renato erano spaventati… Cieslak però era a volte ubriaco, non era sempre credibile, anche se si intuiva comunque in lui un grande attore. Un’attrice del Théâtre du Soleil farà da noi a febbraio un seminario sul loro metodo di improvvisazione, sono curioso di vedere come funziona. Quando eravamo in Brasile (a ottobre 2011) ho visto per la prima volta uno spettacolo del Théâtre du Soleil. Loro sarebbero stati certamente un mio riferimento, se li avessi conosciuti prima, fanno il teatro che per me è il teatro. Più del Barba di oggi, quello è il teatro che mi piace: è tutto così finto, tutto così a vista, semplice, efficace con niente. Tornando alle improvvisazioni, l’importante è non fare cose spontanee, altrimenti, se non c’è un personaggio, qualsiasi tema si dia verrà sempre fuori la persona per come è: se uno è aggressivo, in qualsiasi improvvisazione sarà quello che strattona gli altri, che urla, eccetera. Un’altra strada è avere un bagaglio di cose lette, di immagini, da cui partire per creare: si improvvisa avendo accumulato tutta una serie di possibilità. M.P.: Che è come facevano nella Commedia dell’Arte, pescando dai generici. A.G.: Sì. Se chiedi a Mario Barzaghi di improvvisare con un personaggio del Kathakali, non fa altro che utilizzare elementi che conosce.
M.P.: Molti anni fa ho partecipato qui da voi a un seminario di Chiapuzzo in cui abbiamo usato le maschere del Topeng balinese. Mi puoi parlare del tuo lavoro con le maschere, oggi?
A.G.: In tutti i nostri spettacoli di strada ci sono le maschere, in teatro, invece, le usiamo molto poco. All’aperto mi servono per avere un impatto visivo più forte, anche da lontano. In teatro il pubblico sa di essere pubblico, e che lì c’è lo spettacolo. In strada, invece, è necessario essere molto più fortemente non-quotidiani, non-naturali, non-nella vita, almeno per il tipo di teatro di strada che facciamo noi, che non vuole infilarsi nella vita senza farsi notare, anzi!
M.P.: Penso al percorso di Grotowski, alle sue varie fasi: tutte organiche e funzionali al raggiungimento dei suoi obiettivi, ma, da un punto di vista concreto e tangibile, molto differenziate l’una dall’altra. A voi è capitato qualcosa di simile? A.G.: Dal seminario di Chiapuzzo fino a Ubu, abbiamo fatto degli spettacoli montando delle improvvisazioni su un tema, da Ubu in poi abbiamo lavorato su un testo, che vuole rimanere evidente, chiaro, con inizio-sviluppo-fine che si capiscono. Io adesso ho bisogno di un testo, senza testo non comincio neanche.
M.P.: Faccio allora l’avvocato del diavolo: quindi, fra te e Glauco Mauri che differenza c’è? A.G.: Secondo me la differenza sta nell’idea del gruppo: perché, nel nostro caso, uno stesso gruppo di persone sta insieme negli anni a fare teatro. La differenza vera non è nello spettacolo, nella sua estetica, ma nell’organizzazione che sta dietro, nel senso che si dà al fare le cose, nel fare anche progetti diversi dagli spettacoli, e nel domandarci ogni volta: è servito a qualcosa? È cambiato qualcosa nel mondo? Le persone possono cambiare - in termini di presa di coscienza, di attenzione - se ricevono informazioni e concetti collegati ad un’emozione: lì forse si segna qualcosa. Se bastassero le informazioni, sarebbe sufficiente leggere i giornali. Dobbiamo pensare che, in questo senso, il teatro serva a qualcosa. Deve servire a qualcosa.
M.P.: Per finire: il nome “Teatro Due Mondi” da dove viene? A.G.: Dal titolo di una canzone di Lucio Battisti… “voglio te, una vita / far l’amore nelle vigne”… questo però adesso non lo diciamo più! |