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RIVISTE D'ARTISTA

LA PAGINA COME CORPO-A-CORPO
Sul numero 4 di “Rivista”





[Fabio Acca] Una busta. Una busta come tante altre. Ne arrivano ogni giorno, tutte sostanzialmente inutili. Quando proprio sei fortunato, qualcuna contiene il programma del Teatro di Monfalcone, oppure il rendiconto del condominio.
A onore del vero, però, una volta il destino mi riservò una sorpresa del tutto inaspettata e mi fece recapitare in busta chiusa una divertente minaccia di morte da parte di un anonimo oltranzista, corredata da ben due preservativi, quasi alludessero a dei bossoli. A questa ne seguì una seconda e pure una terza, che conteneva della misteriosissima ovatta. Non vi dico cosa fu raccontare i fatti ai poliziotti della Digos. Naturalmente non capivano per quale motivo uno che lavora all’Università e che addirittura si occupa di teatro dovesse ricevere delle minacce, perdipiù così creative!
Eppure stavolta, questa busta, se la si guarda meglio di quanto solitamente si guarda una busta, lì, nella buchetta delle lettere, ha alcuni dettagli piuttosto singolari. Prima di tutto un grande numero 4, scenograficamente giocato in primo piano, al di sotto del quale campeggia la laconica scritta “epitaffio”. Sul retro, invece, nella parte bassa, un numero di serie rosso – 565/600 – stampigliato a mano.
In effetti, questo timbro mi avrebbe dovuto maliziosamente suggerire qualcosa di meno burocratico, di più – come dire – “affettivo”. Se non altro la volontà del mittente di farla pervenire proprio a me, cinqucentosessantacinquesimo tra i seicento fortunati a cui è data la possibilità di conoscere ciò che la busta contiene. D’altronde se si tratta, come sembra, di copie numerate, vorrà dire che ciascuna di queste buste racchiude qualcosa di originale, di unico, se non addirittura di prezioso.
Non faccio in tempo a prendere coscienza di questo pensiero che, con un gesto selvaggiamente meccanico, strappo con indifferente violenza l’involucro di carta. E solo dopo aver osservato con attenzione il contenuto della busta, mi rendo conto di aver fatto una cazzata. Sì, proprio una cazzata. Perché la busta non “contiene” un “contenuto”, ma è parte integrante del contenuto, contenuto essa stessa. Un po’ come la copertina di un vecchio vinile, che nel suo assicurare all’oggetto un valore iconografico, mobilita nell’ascoltatore un racconto immaginifico. Devo ammettere che mi sono sentito un discreto idiota.

 

L’austero minimalismo grafico della busta, rigorosamente in bianco e nero, è del tutto corrispondente ai trentacinque fogli, ciascuno della dimensione di un A5 (148x210). Si tratta del quarto numero di una rivista dal titolo “Rivista”, dadaista nel suo essere ironico e tautologico, nata dalla collaborazione di Pietro Babina, Jonny Costantino e Flavio De Marco. Non dovete però pensare esattamente a una rivista, nel senso di un luogo in cui metodicamente far confluire una scrittura che preesiste alla rivista stessa. Quanto un oggetto, che in virtù di questa sua precisa materialità – anche volutamente, politicamente low cost e artigianale – declina possibilità di scrittura in modalità che avrò modo di definire più avanti “performative”, dove per “performativo” si intende la spinta del pensiero a darsi nel mondo in forme concrete di relazione condivisa.
La prima pagina delinea in estrema sintesi, con stile sobriamente avanguardistico, il perimetro po-etico in cui si situa la “Rivista”: «Rivista/è un luogo del pensiero, dell’arte./E’ un luogo d’interrogazione sulla necessità del fare/arte./E’ la rivista di coloro per cui l’arte/ è lo strumento per ampliare la coscienza del vivere». La seconda, la terza e la quarta pagina lanciano invece al lettore (o spettatore? Lo vedremo…) i termini di un plot all’interno del quale inscrivere le pagine successive. Brevissimamente: un Super Dittatore esercita il proprio dominio attraverso un forma estrema di democrazia e libertà, invitando ogni cittadino del pianeta a scrivere “spontaneamente”, tramite un apposito modulo, la propria dichiarazione di fine vita. Il resto delle pagine, cioè la quasi totalità del numero, consta appunto delle copie anastatiche dei moduli compilati a mano da altrettante persone, per lo più appartenenti al mondo dell’arte. Chiude il numero, ribadendo la democraticità dell’operazione, un modulo in bianco che ciascun lettore può compilare e inviare alla redazione della rivista, in modo possa essere in seguito pubblicato nella versione web, insieme agli altri eventualmente pervenuti.

I moduli si presentano come sorta di reliquie: tragiche nella misura in cui l’inequivocabile originalità, con cui la scrittura manuale evoca il corpo di chi scrive, testimonia l’irrevocabilità della morte; allo stesso tempo ironiche e farsesche, perché questa morte viene ostentatamente derisa, sviata, quando non del tutto sbeffeggiata da una scrittura spesso goliardica. Le differenze di questa misura sono tante quanto consente l’apertura concettuale dell’opera. Le cause del decesso variano perciò da “festa di compleanno”, a “ascesso di io”, ad ancora un fumettistico “puff”, fino a un eclatante “eccesso di successo nel cesso”; mentre le parole che valgono da epitaffio snodano imperativi categorici (“Mangiami”), laconici calembour (“se ne andò venendo”), tetri dati cronachistici (“muore falcidiato sotto i colpi di mitragliatrice di un attentatore”). Chiude la sequenza mortifera una dichiarazione di come ciascuno vorrebbe fossero trattate le proprie spoglie: “vorrei essere gentilmente seppellito nel cimitero di Otranto, grazie”; “cremazione e dispersione delle ceneri nel punto più distante dalla terra ferma: Pacifico Meridionale, 48° 52’ 36” S, 123° 23’ 36” W”; “A far concime”.

Al di là delle molteplici ragioni che muovono oggi un gruppo di artisti e intellettuali a condividere l’esperienza di una rivista, trovo sia particolarmente interessante osservare tale esperienza dal punto di vista delle discipline connesse al teatro e alla performance. Questo numero quattro, infatti, letteralmente impagina, attraverso una strumentazione solo apparentemente devota alla scrittura, un complesso intervento concettuale di carattere squisitamente performativo. E ciò è talmente evidente da poter prendere in considerazione l’intera operazione come il risultato estremo di un’azione registica, talmente rigorosa da voler individuare con relativa precisione quel sempre più sottile corpo-a-corpo (il corpo di chi agisce e il corpo di chi guarda) a cui allude la scrittura come rappresentazione. Una regia peraltro così capillare da razionalizzare per quanto possibile anche la modalità d’incontro tra l’oggetto “Rivista” e il suo pubblico, per nulla generico, nelle forme se vogliamo spettacolari che si consumano nell’atto stesso della lettura e contemporanea presa in visione di questa scrittura-calco.

Per concludere, il carattere obliquo con cui Pietro Babina, Jonny Costantino e Flavio de Marco si muovono nel campo dell’arte, fa pensare alla famosa “mossa del cavallo” di Sklowskij. Nel suo muoversi di fianco, il cavallo allude infatti all’impossibilità data all’arte di interrogare frontalmente il mondo – anche lo stesso mondo dell’arte – stando comodamente seduti in platea o dietro una scrivania oppure nella placida intimità della pagina scritta. Da questo muoversi intorno alle “cose della rappresentazione” emerge evidentemente l’ostinazione dell’utopia, il desiderio profondo di trasformarle e ricrearle. Tutta l’avanguardia, in fondo, è sempre stata un cavallo.

 
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