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TENTATIVO DI ESAURIMENTO #1_Mariangela Gualtieri

SBIRCIARE I MAESTRI
Intervista a Mariangela Gualtieri/Teatro Valdoca

M.P.: Parliamo di maestri? Ti sei spesso riferita, in tal senso, a Amelia Rosselli, a Dino Campana, a Dante, a Nisargadatta. In ambito più strettamente teatrale, chi riconosci come maestro, oltre ai tuoi compagni del Teatro Valdoca?

Mariangela Gualtieri: Prima di risponderti vorrei che tu non sottovalutassi questi miei “compagni del Teatro Valdoca”. Perché credo che l’esperienza dei gruppi segni proprio una nuova pedagogia: in un tempo in cui i maestri non si trovavano più nelle scuole, noi abbiamo creato delle scuole nelle quali eravamo allievi e maestri di noi stessi. E non propriamente ‘autodidatti’ perché non imparavamo qualcosa di pre-esistente, ma generavamo il nuovo che andavamo ad imparare, e ci nutrivamo di un ‘vecchio’ selezionato e assunto nella grande mobilità che i tempi cominciavano a concedere. A 20 anni  giravamo il mondo e incontravamo per caso e per destino i grandi registi del nostro tempo. Loro spesso non lo sapevano ma noi li divoravamo, con una passione che li avrebbe commossi, o forse irritati, o vitalizzati, chissà. Carmelo Bene e Antonin Artaud sono i miei sommi maestri. Riconosco in loro la stessa tensione, lo stesso tormento, lo stesso furore per la parola. Li sento come ‘coetanei che mi hanno preceduto’. Poi aggiungo Jerzy Grotowski e Peter Schumann.

M.P.: Come è avvenuta l’occasione dell’incontro con loro?

M.G.: I primi due non li ho mai incontrati in un faccia a faccia. Di Carmelo ho seguito tutti gli spettacoli fin dai primi anni di università, perché Cesare ne era entusiasta. Io guardavo e non capivo, ero confusa e incantata, guardavo come una demente e forse in parte lo ero. Poi venne al Bonci di Cesena a provare alcuni spettacoli e di nascosto andavamo a guardare. Incontrammo gli attori di Grotowski a Wroclaw, e lavorammo con loro alcuni giorni in un bel progetto che  si chiamava The tree of people. Chiusi per alcuni giorni in un edificio con finestre oscurate, senza orari per i pasti, per il sonno o per il lavoro in sala, in un flusso che creava momenti collettivi, pause, incontri, solitudini, ecc. Cesare ed io restammo alcuni mesi in Polonia con una borsa di studio. Nessuno allora voleva andare nei paesi dell’est – si era prima di Solidarnosc – ed era molto facile avere una borsa per quei paesi. In Polonia c’era forse il meglio del teatro mondiale di quegli anni (’70): Kantor e Grotowski. Riuscimmo anche a vedere il mitico Apocalypsis cum figuris di Grotowski, mentre un’amica polacca innamorata di Kantor (in Italia non lo si conosceva ancora) ci portava in un sotterraneo, a Cracovia, dove da una grata, nascosti da una tenda, potevamo sbirciare le prove de La Classe Morta. Avevamo le chiavi dei teatri: la notte salivamo gli scaloni coi tappeti rossi e di solito in cima in cima c’era  una stanza con cucina, riservate ai registi ospiti, nella quale alloggiavamo Cesare ed io. Il Bread and Puppet lo incontrai in America, sempre negli anni dell’università, anni in cui ho viaggiato moltissimo, spesso da sola. Partecipai alla grande festa che facevano in Vermont e lì scoprii quel mondo. Poi quando vennero in Italia lavorammo con loro al Masaniello e così conoscemmo Schumann da vicino.

 

M.P.: A proposito della tua partecipazione al progetto The tree of people a Wroclaw: se non sbaglio, è parte della fase para-teatrale di Grotowski, di cui si sa davvero poco. Hai voglia di raccontarmi un po’ meglio questa esperienza, così che io me la possa almeno in parte immaginare?

M.G.: Ti dico quel che ricordo perché stiamo parlando di circa 35 anni fa. Tutto avveniva al Teatro Laboratorio di Wroclaw. Eravamo forse una ventina di giovani, provenienti da tutto il mondo. Penso ci venisse dato un foglio in cui erano scritte alcune condizioni, che poi si riducevano ad una: non avere nessun contatto col mondo esterno per alcuni giorni e parlare fra noi il meno possibile. Dunque niente orologi, l’impegno a non uscire, nessuna possibilità di telefonare ecc. Era un piccolo edificio di tre piani con le finestre oscurate e dunque non si vedeva se fuori c’era luce. Al piano terra un locale con cibo, a tutte le ore: pane nero, burro, affettati, formaggi e poco altro (vista anche la difficile situazione della Polonia in quell’epoca). Al primo piano una grande sala in cui dormivamo, a terra con sacchi a pelo. Più sopra, mi sembra, la grande sala in cui si lavorava. Ognuno entrava e ci stava quanto voleva, ma in alcuni momenti era chiaro che succedeva qualcosa che riguardava tutti. C’erano con noi tutti gli attori di Grotowski. Questo, a pensarci ora, mi fa una certa impressione, ora che alcuni di loro sono entrati quasi nella leggenda. Grotowski non si fece mai vedere. Forse aveva un suo punto di osservazione che gli permetteva di guardarci non visto. Erano gli attori (che dormivano anche con noi) che muovevano il gioco, la danza, direi, perché in realtà si ballava, per ore, fino allo sfinimento, tenendosi sempre in relazione con gli altri, cioè ci si muoveva su suoni che loro producevano, con tamburi, forse flauti - non ricordo bene il sonoro -. Nemmeno una parola, una lezione, della teoria, nulla di questo. Molto silenzio, molta attenzione a tutto. Poi quando si era stanchi ci si sedeva un po’ a riprendere fiato, poi di nuovo ecc. Si arrivava comunque ad una pienezza del corpo che dava molta gioia, almeno a me. Ebbi un contatto più stretto con Rena Mirecka e ricordo un lungo tempo in cui ci appartammo in una piccola stanza noi due a cantare. Lei suggeriva dei suoni e io li ripetevo o cercavo una consonanza con lei. La ricordo dolcissima, leggera, bella. Poi ci fu la coincidenza di una comune partenza: Cesare ed io tornavamo in Italia dopo vari mesi in Polonia e loro andavano a Lecco, su un monte, a ripetere The Tree of people. Chiesi ed ottenni di andare con loro a Lecco e rifare l’esperienza, ma lì eravamo tutti italiani ed era molto difficile tenere il silenzio. Le persone parlavano tantissimo quando non si era in sala - e questo per me fu molto disturbante. Era più definito il tempo di lavoro e di riposo. In quell’occasione feci più amicizia con gli attori di Grotowski, soprattutto con Richard Cieslak e Zbigniew Cinkutis.

M.P.: Tornando a quel che mi dicevi sul tuo rapporto con i maestri, vorrei chiederti cosa hai preso da loro, allora e nel tempo?

M.G.: Da ognuno qualcosa di diverso e di unico, in parte narrabile, in parte no. Le consegne dei maestri solo in minima parte si possono enumerare con una certa lucidità. Il più avviene per contagio e cambia la tua qualità sottile. C’è sempre una lezione di libertà: sei libero, dicono i maestri, sei libero e non avere paura. C’è una lezione di coraggio, di serietà, di impegno estremo: è questione di vita o di morte, questo dicono i maestri. E dicono anche: è un gioco bellissimo. E’ una grande avventura.

M.P.: Cosa ti rimane oggi di quegli incontri?

M.G.: Mi rimane una immensa gratitudine e le loro parole che spesso torno a visitare.

M.P.: Come o in che cosa li hai traditi?

M.G.: Non ho mai potuto tradire perché non ho mai avuto un maestro di cui seguire gli insegnamenti giorno per giorno. Anzi ho sofferto molto per la mancanza di un maestro ‘vero’, quotidiano, con la sua scuola e le sue regole. L’ho cercato, l’ho atteso, l’ho invocato, finché mi è apparso chiaro che la mia strada non lo contemplava, almeno nella forma classica.

M.P.: Vorrei ora citare le parole del professor Marco De Marinis: «Di una tradizione ci si appropria, non si può non appropriarsi, attivamente, quindi tradendola-tramandandola (anche etimologicamente, tradizione rinvia sia al trasmettere-tramandare che al tradire-falsificare-manipolare)» e poi: «Credo che esistano tanti modi per appropiarsi attivamente di una tradizione, dell'insegnamento di un maestro, per tramandarlo-tradirlo. Uno dei modi può essere quello di metterla/lo in rapporto con altre tradizioni, con l'insegnamento di altri maestri». Eugenio Barba nel suo libro La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in Polonia parla del Maestro come «colui che si rivela per sparire». E infine Grotowski: «Un vero allievo di Stanislavskij era Mejerchol'd. Non applicava il "sistema" scolasticamente. Dava la sua risposta» e «Dicono i tibetani: bisogna superare il proprio maestro di un quinto, altrimenti la tradizione si deteriora. (...) Ciò che resterà dopo di me non può essere dell'ordine dell'imitazione, ma del superamento. Nello stesso modo, io non ho imitato Stanislavskij, ho cercato ciò che era possibile dopo. Una ricerca non può limitarsi a una sola vita. E' una faccenda di parecchie generazioni». E questo mi fa venire in mente il tuo verso «C'è in me qualcosa più vecchio di me». Cosa hai voglia di dire, su tutto questo?

M.G.: Io so di essermi nutrita di ciò che altri hanno fatto. So che la mia arte (poesia, teatro) non esisterebbe senza la consegna di alcuni grandi che ho amato. Ed ho amato talmente alcune opere da sentirle depositarsi in me e spostare di millimetri il mio assetto, fino a sentirmi scricchiolare in loro presenza. Il verso che tu citi «C'è in me qualcosa più vecchio di me» ha per me una gittata più lunga, quasi astronomica, cosmica, al di fuori dello spazio e del tempo. Ma lo accolgo anche in questa tua visione, sì, anche nel senso dei maestri è vero, c’è in me qualcosa più vecchio di me e con quello io scrivo, con quello faccio teatro.

M.P.: All’inizio di questa intervista mi hai detto qualcosa del vostro imparare, a 20 anni. Quali affinità e quali differenze vedi fra voi a 20 anni e i giovani che sono al Teatro Valdoca ora? È corretto dire: voi non imparavate “qualcosa di pre-esistente”, mentre un giovane che lavora alla Valdoca oggi impara un modello che tu e Cesare gli proponete? Questo te lo chiedo da vostro ammiratore di lunghissima data: mi pare che ci sia un vostro stile sempre più definito e riconoscibile, e mi pare che anche le “richieste” fatte agli attori siano in un solco di continuità, anche rispetto agli attori più vecchi che non lavorano più con voi (ad esempio, l’uso della voce dell’attrice che lavora in Paesaggio con fratello rotto, rispetto a Gabriella Rusticali di Nei leoni e nei lupi).

M.G.: Difficile stabilire le differenze. La prima è nel rapporto di ognuno con se stesso, con la propria interiorità, e di ognuno con gli altri. C’erano, per noi, maggiori occasioni di trovarsi ‘da soli’ ad affrontare il mondo, gli altri, i luoghi del mondo. Questo fa per me una grande differenza. Credo che noi possiamo sapere chi siamo solo quando siamo soli: è allora che le nostre paure vengono alla luce e con esse la forza, a volte, di nominarle, di guardarle. É allora che possiamo intuire anche la nostra parte in ombra, quella che si sviluppa in modo incompleto, sfavorevole. Ed anche la nostra forza. Ecco, noi abbiamo avuto la possibilità di avere un rapporto con la nostra città da soli, fin da piccoli, di viaggiare, anche molto lontano da casa, e di non avere notizie di casa, né di poterle dare, a volte anche per molti giorni. I ragazzi ora si tengono in una perenne compagnia, sia pur virtuale o cellulare, ma c’è sempre un fuori che interviene e in qualche modo rassicura, impedendo da un lato lo sprofondamento nella paura e la conseguente necessaria reazione ad essa, e dall’altro l’ebbrezza dell’avventura, l’ebbrezza degli slegati, di essere totalmente aperti alla vita senza essere continuamente ricondotti verso il proprio mondo e soprattutto verso l’immagine di noi che esso richiede. I ragazzi e le ragazze ora mi sembrano più intelligenti, più maturi, più fragili e più infelici. Come se tutti fossero diventati come erano allora i figli unici di buona famiglia, molto seguiti dai genitori e molto compatiti da noi che eravamo più poveri, più selvatici e più liberi. Ora non sono solo i genitori a seguirti, ma tutta la tribù che minuto per minuto, con sms, mail, facebook, telefonate ecc, ti chiama a essere quello che sei, quasi ad impedirti di cambiare e di abitare la tua follia. Si sono sicuramente accentuati i contatti orizzontali, quelli fra gli umani, e forse in questo modo vengono impediti quelli verticali, fra ognuno e ciò che lo trascende, fra ognuno e il resto della biosfera, e col misterioso cielo. Questo è indicato anche dal paesaggio: lì dove c’erano croci e campanili, segnali in fondo di un flusso di corrente fra terra e cielo, ora ci sono i ripetitori di cellulari o di televisioni, segnali di contatto fra persona e persona. Dico questo perché penso che l’arte abbia sempre a che fare con ciò che Jung chiamava l’imperituro, con ciò che comincia oltre la fisica e che per comodità possiamo chiamare metafisica. In noi era fortemente presente e viva l’interrogazione metafisica e il mondo, così come era fatto, permetteva ancora questo modo di essere, questo orecchio teso verso il non essere e il suo mistero. Io so che questo era il mio propulsore primo e più forte. Non era l’ansia di successo. Sì, c’era sicuramente ambizione e la voglia di riuscita. Ma non era quella la spinta primaria. Non era fare vedere chi eravamo, o avere soldi o potere. Era sbirciare lì dove nulla era noto. Era possibile tenere quell’orecchio teso senza farne una religione? Sì, era possibile e si chiamava arte. Teatro d’arte, nel nostro caso. Teatro di poesia. Ma qui allo stesso tempo cominciavano molti problemi perché il teatro è anche tanto altro che ha poco a vedere con questa tensione.
Chi viene da noi credo impari un certo modo di essere in pienezza e in libertà dentro la scena. Una volta che si fa esperienza di questo, non lo si dimentica, come non si dimenticano i momenti in cui si è stati splendidi, mitici direi, un po’ eroi e un po’ dèi. E poi si impara, spero, a stare con gli altri nell’attenzione, nella generosità e nel sincero rispetto.
Per il resto mi pare che Cesare spinga gli attori che lavorano con lui a fare altre esperienze, a dotarsi del giusto corredo tecnico, a mettersi in gioco anche da soli. La cosa più aberrante è certo creare dei cloni, dei figli somiglianti: in quel caso verrebbe contraddetta quell’attenzione al puro presente della scena che Cesare così tanto persegue ed insegna. Sarebbe surrogata e disturbata dall’obbedienza ad uno stile a priori, il nostro. Ma constato con grande piacere che chi ha lasciato Valdoca spesso ci porta nel cuore, senza che ciò intralci il proprio segno, la propria ricerca. Chi educa, educa in primo luogo alla libertà.

 
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