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Bellezza e/o Salvezza: la danza e la crisi (del postmoderno)

[ Silvia Mei ] A Reggio Emilia Danza, in intersezione col Festival Aperto, si è succeduta una costellazione di appuntamenti, dal balletto moderno alla performance, passando per il teatrodanza francese, la danza d’autore italiana e le creazioni d’arte del coreografo Shen Wei in collaborazione con la Collezione Maramotti.

Due supernove, due abbaglianti flash, di raffinata origine francese: il Ballet de Marseille e la Compagnie Maguy Marin. Il balletto di Marsiglia (che è anche Centre corégraphique), diretto dal 2004 da Frédéric Flamand, rinnova la sua presenza reggiana aprendo il festival e la stagione di danza dei Teatri di Reggio Emilia con un programma letteralmente postmoderno: Lucinda Childs, William Forsythe, Annabelle Lopez Ochoa, succedutisi però in senso inverso.
Quello che fu dal 1972 il “balletto” di Roland Petit, recentemente scomparso e con questo programma omaggiato, è uno degli ensemble di danza teatrale più interessanti, soprattutto nell’espletamento del progetto artistico pluridisciplinare, e transdisciplinare, di Flamand, oggi anche alla direzione del Festival de Danse de Cannes per il biennio 2011-13, dopo l’esperienza della prima edizione della Biennale Danza di Venezia nel 2003.
Inverses - titolo quanto mai suggestivo e ambiguo, a partire dalle diverse grafie con cui lo si trova scritto - è un quadro astratto, ideato e coreografato dalla belga-colombiana Annabelle Lopez Ochoa, fatto di linee e rotondità rotte da una figurina energica ed espressiva, scalzata e scalza, che monologa nell’apollineo universo di un ensemble dagli echi balanchiniani (ricorda Agon anche la struttura, oltre il bicromia bianco-nero e l’essenzialità del décor). La formazione accademica della danzatrice e coreografa passata nel filtro della tradizione olandese (ha lavorato come solista dal 1997 al 2004 allo Scapino Ballet di Rotterdam) decanta tuttavia una danza patinata e poco ardita, più sostenuta dalla drammaturgia musicale di David van Bouwel sugli inserti poetici della scrittrice e architetta americana Hollace M. Metzger, senza provare una reale inversione linguistica. È comunque un’ottima premessa e preparazione alle spezzature e rotture di un Forsythe d’antan, proposto in programma con Herman Schmerman Pas de deux (1992). La chiusa in duo dell’omonimo balletto è una cristallina espressione della rivoluzione postclassica del coreografo americano, che tornerà nuovamente ospite con la sua Compagnia ai Teatri di Reggio Emilia nel prossimo aprile. Lo scambio di genere, non privo di un’ironia velatamente erotica, trasforma in flirt la classica combinazione, ora spigoloso e graffiante gioco-forza di coppia sulla musica concreta, un tappeto ritmico su cui scivolare, di Tom Willems.
In chiusura, una coreografia perdutamente americana, Tempo vicino di Lucinda Child, nome che non necessita di commenti. Il corpo naturale, sociale, tanto vagheggiato dagli utopisti della Judson, trova espressione e forma ancora oggi in una scrittura coreografica lineare e semplice, al tempo presente. La paratassi apparente diventa sintassi di corpi negli scambi liquidi di linee orizzontali e attraversamenti veloci. C’è la scioglievolezza di un tessuto leggero e serico che cela strutture complesse, principi essenziali di un bios che è movimento cellulare, molecolare, algebrico.

All’interno della terza edizione di FranceDanse, programma di promozione e focus lanciato dal rinnovato Institut Français nel 2007, arriva in Italia, con date esclusive a TorinoDanza e ad Aperto Festival di Reggio Emilia, Salves, ultima creazione della coreoregista franco-spagnola Maguy Marin, in co-produzione con la Biennale de la dance de Lyon e il Théâtre de la Ville de Paris. La figlia ribelle di Béjart, nota per la bruta pratica del dispiacere nel pubblico, lungo il filo di spettacoli mai colpevoli dell’estetica della bellezza, avanza nella sua riflessione sui destini dell’umanità. Come nel precedente Turba, ispirato all’opera di Lucrezio, un giardino pensile faceva da paravento a errabonde e prelinguistiche figure di uomini, ora in Salves (riecheggia nuovamente nel titolo l’eufonia del latino) una varia umanità (di sette performer interetnici), evoluta e progredita, mette in salvo se stessa e le sue, non troppo imperiture, icone - tracce o testimoni dell’arte in un mondo crudele. Piccoli gruppi di fuggiaschi, con cappottini anni Quaranta, come precipitosi e incauti sfollati, spauriti sotto luci da coprifuoco, smobilitano pezzi di case e avanzi di musei su uno sconcerto di eliche falcianti, sirene, ventole e fruscii di nastri magnetici. Oppure imbandiscono ultime cene, apparando in grande stile mense decorate con argenti e limoges, in una catena di montaggio che si dà il ritmo a colpi di voce.
Salves è una composizione per quadri, un montaggio di flash, di reperti di una memoria emotiva e visiva frammentaria e di azioni, sempre nella parsimonia di Marin per la danza pura, residuata in un lift classico o in una corsa duncaniana in diagonale, subito inghiottita dal buio. L’impressione è quella di un film e il montaggio con forti stacchi in nero, cesure ritmiche nell’alternanza tra interni ed esterni, conferma quel già provato talento cinematografico della coreografa. Ma c’è anche un côté tragico-burlesco e un’accelerazione sulle forme del grottesco e del kitsch anni Ottanta che colorano una testura color seppia: un poster di Elvis Presley, religiosamente disteso sulla parete in un’azione reiterata da cloni di donne-modello; un doppie ruote motrici telecomandato che si aggira come blindato tra tavole di esuli; inserti esotici che appaiono da sotto un tavolo o irrompono inattesi; poi, il finale “dipinto” con getti di vernice e risse clownesche tra centrotavola e portate in polimeri.
C’è però un’immagine, centrale, che orienta la visione di un barcone della speranza come questo: è la figura della treccia, quella di una ragazza di spalle con parrucca bionda, sorpresa nell’intimità della sua cura. Questa treccia è il filo di Arianna, è la trama della storia, è l’intrigo della narrazione, ora sfilacciata e smagliata a colpi di shock, come lo stridore di un piatto irrimediabilmente rotto, che scivolando di mano interrompe la catena di montaggio dei suoi attori – un tramandarsi appunto della storia, delle storie, di gesti e di tradizioni. Neanche i tre registratori magnetici, che perimetrano su due lati l’azione, possono archiviare se non parzialmente i fatti, malgrado il loro instancabile moto circolare – un nastro che si avvolge su se stesso ma che annoda e annida solo pezzi di cose. É così allora che interviene il finale - o forse un incipit - su un festino orgiastico, con una citazione, cinematografica, esemplare, dalla Dolce vita di Fellini: un elicottero giocattolo con appeso un Cristo dalle braccia aperte sorvola la sibaritica libagione, quasi fosse una benedizione, o un segno divino, o forse solo l’arrivo in assordante ritardo di un ospite, che si inventa un entrata trionfale a festa finita.

 
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