Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Lettera di accompagnamento per un dossier teoretico e Ôarcaico'

THIERRY SALMON E I NUOVI GRUPPI: DISCORSI NELLO SPAZIO SCENICO
Cronache del progetto "Crisalide-Eventi di teatro" (Bertinoro, luglio-agosto 1997), di Paolo Ruffini

 

CONGEDI

Le parole che hanno accompagnato "Lo spazio scenico" terminano nel pomeriggio del 3 agosto; in serata saranno L'idealista magico di Teatrino Clandestino e Poemetto assassino di Teatro Reon a chiudere l'edizione '97 di "Crisalide-Eventi di teatro". Parole, e non solo quelle qui riportate, che hanno per vocazione l'idea che lo spazio possa cambiare il significato dei luoghi che si vanno ad incontrare o il senso della loro percezione. E ci ricordano inoltre come, parlando di spazio, inevitabilmente si tratti anche di scelte di vita e di economie produttive operate fuori da un sistema di mercato che predilige il consenso e la buona confezione, piuttosto che riflettere sulle fragilità e le incertezze del proprio tempo. In questo, forse, i congedi che meglio degli altri riassumono le giornate trascorse a Bertinoro, sono quelli di Jorg del gruppo Deposito dei Segni e di Fabrizio Arcuri. Il primo, emotivo nella sua forma di dono finale, dice: "Abbiamo finito, adesso tutti quanti siamo una memoria sofferta e allora ho pensato di salutarvi dandovi dei riconoscimenti: Rita, l'angelo; Catia, il tuareg; Lorenzo, Wittgenstein; Thierry, che mi ha ricordato nel suo lungo racconto tutte le problematiche del teatro politico di Piscator; Fabrizio, Mozart; Anton Roca, che mi ha fatto incazzare molto con la sua performance, tanto che volevo mettermi ad urlare, a distruggere qualcosa".

E Fabrizio Arcuri: "Quando abbiamo iniziato questo seminario, anche se in realtà sapevamo che non sarebbe stato un seminario, non sapevamo esattamente cosa doveva essere ma eravamo decisi che qualunque cosa fosse stata sarebbe dovuta scaturire dall'incontro. Eppure, inevitabilmente, ognuno di noi fin dal primo giorno ha mostrato delle aspettative, che grazie al cielo sono state deluse subito. Da quel momento è iniziato qualcos'altro che era sulla strada di ciò che cercavamo e forse rimarrà nella memoria di tutte le persone che vi hanno partecipato. E dico che avevamo delle aspettative, anche se è abbastanza strano per noi che ci occupiamo di teatro, perchè dovremmo sapere che significa confrontarsi con delle persone che vengono a vedere il tuo spettacolo avendo delle aspettative. é una cosa molto difficile confrontarsi con chi è al di fuori da quello stai facendo. Il mio è solo un invito a riflettere su questo; al fatto che se si hanno delle aspettative è molto facile che queste vengano deluse. Poi vorrei aggiungere che a me piace molto quando le cose finiscono e quindi sono molto contento che siamo arrivati alla fine, perchè nelle cose mi piace la fine e se la fine addirittura interviene in modo non indotto ma all'improvviso, io sarei felicissimo".

Il lavoro dei quattro giorni non è stato un lavoro pratico nè un lavoro teorico, piuttosto una discussione sempre tesa alla ricerca di un punto originario, un ambito dell'esperienza personale che attraversi il tema dello spazio scenico concentrandosi in esso. Si tratta di un momento genetico e formativo, che rimanda forse alla necessità di formulare, attraverso la creazione del sè artistico come esperienza estetica, una precisa identità individuale che rivendichi la propria autonomia sociale, la propria alterità o differenza. Se l'attore pone il problema della percezione dello spazio e con esso, quello della percezione di sè, o se lo spazio stesso si rivela come qualcosa di profondamente intimo, assoluto, per il corpo dell'attore, uno spazio vitale che potrebbe anche correre rischi di espropriazione; o ancora se lo spazio riguarda un territorio quotidiano della nostra esistenza e quindi dello spettatore: allora questo luogo di passaggio di un'esperienza artistica che "genera e divora esperienza" e che identifichiamo nello spazio scenico, colloca la sua ragion d'essere in ciò che Deleuze chiama il "puro espresso che ci fa segno". Così come l'evento non esprime ciò che accade, ma è in ciò che accade, lo spazio non è elemento di costruzione, ma una parte essenziale dei teatranti e del teatro. Una parte che si trasforma fluttuando fra il livello della necessità individuale e quello della materia organizzata. Qui l'accadere ha natura reale in quanto sola realtà possibile, che nell'esperienza del teatro trova la sua forma di rappresentazione temporale. E questo è un termine di responsabilità. L'azione dell'attore, il suo perimetrarsi, trovare lo spazio vitale all'interno di architetture in prima istanza del pensiero (e rispetto al lavoro di alcuni gruppi, possiamo parlare di vere e proprie costruzioni architettoniche, quei teatri volanti che metamorfizzano un territorio, ne connotano una estensione corporea globale), sono strategie applicate attraverso le quali l'attore e lo spettatore riflettono su un presente annullato "che non ha più spessore di un vetro"; siamo di fronte ad un presente istantaneo "che non cessa di anticipare e di ritardare, di sperare e di ricordare" ma, innanzitutto, è un presente che riconosce quell'azione perchè assoluta e intima, e ci responsabilizza di fronte alla sua ripetizione scenica. Scrive Jean-Luc Nancy a proposito del senso e del rischio del presente ("Etica del corrispondere", Micromega, 1997): "Di che cosa siamo responsabili? Per esempio, degli effetti possibili della sonda che viaggia fuori del sistema solare - della fragile costituzione della Bosnia-Erzegovina - dei problemi giuridici posti da Internet - della trasformazione degli oggetti di culto africani in curiosità artistiche - della diffusione dell'Aids - della ricomparsa dello scorbuto - dell'invenzione di un'agricoltura marina - dei programmi televisivi - del sostegno pubblico alla poesia - della poesia, assistita o meno - della memoria e della spiegazione di tutti i genocidi - della storia dell'Olocausto diventato il mondo - e siamo responsabili, se non altro, nel senso indicato da Deleuze quando dice "che non siamo responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime". Noi siamo responsabili insomma di tutto quello che si può definire in termini di attività o di costumi, di natura o di storia, siamo - ci diciamo, o comunque alcuni pensatori e scrittori lo dicono, e questo già ci impegna - responsabili dell'essere, di Dio, della legge, della morte, della nascita, dell'esistenza, della nostra e di quella di tutti gli enti. Ma noi chi? Noi, ognuno individualmente, nella misura in cui è possibile sapere dove comincia e dove finisce un individuo (ed è proprio dal punto di vista della responsabilità che è estremamente difficile determinarlo), e tutti insieme, nella misura in cui è possibile sapere che cos'è un essere-insieme (e anche in questo caso la responsabilità costituisce un problema di scelta). Ora anche questi saperi, con i loro problemi e le loro aporie, cadono sotto la nostra responsabilità. Che cosa poi significhi una responsabilità che non ha limiti nè nello spazio nè nel tempo, nè nei soggetti d'imputazione nè nel campo di applicazione, anche questo, e in definitiva soprattutto questo, cade sotto la nostra responsabilità: e per di più si tratta di una responsabilità che non si esercita di fronte a nessun altro, se non di fronte a noi stessi".

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