Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Lettera di accompagnamento per un dossier teoretico e Ôarcaico'

THIERRY SALMON E I NUOVI GRUPPI: DISCORSI NELLO SPAZIO SCENICO
Cronache del progetto "Crisalide-Eventi di teatro" (Bertinoro, luglio-agosto 1997), di Paolo Ruffini

 

GLI SPETTACOLI, UNA CARTOGRAFIA DI IDEE

Proiezione del video Fastes foules del 1984, dall'omonimo spettacolo di Salmon: la scena è a più piani di visione e compartimentata con divisori fatti di tendaggi bianchi, appesi a fili che sembrano degli stenditoi, mentre altre tende dividono il pubblico dall'azione. Ma l'organizzazione dinamica è senza sosta, le tende si alzano andando a creare i volumi, e cioè, come dice Patricia Saive, le aree di relazione tra un attore e un gruppo di spettatori, il pubblico ha a che fare con lo spazio scenico; vi entra facendo parte dello spettacolo. Una parte dello spazio è occupato da alcune donne intente a lavare panni con fare duro, rituale, dall'altra tutta l'area diventa terreno di battaglia in cui si mescolano occasioni private a conflitti di gruppo; dal fondo si alza il rumore di un tappeto vocale portentoso. Il video chiarisce l'uso pratico e immaginario di uno spazio dal punto di vista di Salmon; la sua scelta di lasciare la garanzia del teatro pubblico in Belgio per optare verso soluzioni di un nomadismo affascinato dall'incontrare strutture di grandi dimensioni, quei campi incontaminati di residui urbani lasciati alla deriva delle metropoli in cui recupera un rapporto intimo con l'attore: "Lavorare in uno spazio aperto significa per me usarne anche i rumori che fanno parte di quello spazio, un teatro sonoro più che di linguaggio".

Vito Minoia (Aenigma): "Mi sembra, riguardo al video, ci sia un lavoro di costruzione e decostruzione. Credo che non si possa parlare di spazio scenico prescindendo dal pubblico; quanto è importante nei tuoi lavori il pubblico?".

Thierry Salmon: "In Fastes foules volevamo cambiare il punto di vista del pubblico".

Renzo Martinelli: "Guardando il video di Thierry la prima cosa che mi sono detto è che suonava nel modo giusto. Mi ha incuriosito questo rapporto col suono. Per me il suono vuol dire tutto e il primo elemento che abbiamo utilizzato è stato il rumore; oggi dico che sto cercando il suono del lavoro, magari in assoluta assenza di colonna sonora. Ho costruito Lenti in amore ispirato a La maladie de la mort della Duras, scoprendo che il vetro è una parete che divide ma che ti permette di vedere comunque aldilà e la storia della Duras mi sembrava che funzionasse per l'immagine che ne avevo (la scena di Lenti in amore compendia quattro grandi vetri carellati che vengono spostati in modo tale da assemblare in quei microspazi di volta in volta creati, dei luoghi astratti, di transito ma interiori, in cui esplodono accadimenti, come dice Martinelli, d'amore o di non amore, ndr). C'era un'immagine e una poesia di Alda Merini e nella Duras c'era un sottotesto, quello che lei chiama lo spazio bianco, lo spazio fra le parole, così potevamo non lavorare sul un dialogo".

Il conflitto con lo spazio, la varia natura dei luoghi che può o non può riflettersi in un ambiente specifico, la sensazione della perdita del luogo; tutto ciò porta a raggiungere un'inedita percezione di sè: "La verità - dice Gabriele Argazzi (Terza Decade) - è il tentativo di trovare le cause per cui una certa cosa diventa possibile senza partire dal modo in cui mi vedo. Quello della mente è lo spazio sul quale da qualche tempo ho deciso di lavorare. L'idea della realtà, e parlo di realtà possibile, anche se per anni ho creduto che si potesse ridurre in una rappresentazione, oggi trova la sua dimensione in alcuni spazi incolti, imperfetti, scoperchiati, a cielo aperto, capaci di creare innesti per la drammaturgia di conferimento di senso alle cose che apparentemente non ce l'hanno. Credo al lavoro sullo spazio dove l'attore andrà a lavorare come a una terra di nessuno, una zona, un dominio di possibilità drammaturgica creatrice di realtà".

Renata Molinari: "Non c'è nulla nella vita che non possa essere assunto dentro lo spettacolo, se ti muovi non in una dimensione di naturalismo ma di coerenza organica di sviluppo di vita. Lo spazio, gli oggetti, i colori, i rumori, ogni elemento ha una necessità dramaturgica precisa e sono a disposizione dello spettatore fin dall'inizio".

Viene presentato il video dello spettacolo L'assalto al cielo, primo studio dalla Pentesilea di Kleist che ha debuttato ai Cantieri alla Zisa di Palermo. é uno studio nato da un lungo laboratorio con ragazzi siciliani e attori che avevano già lavorato con Thierry Salmon. Qualcuno fa notare come nello spettacolo gli elementi spaziali si intersechino visivamente con le linee dell'azione.

Lorenzo Bazzocchi: "Su cosa vi basate per creare spazi, rispetto ai luoghi dove andate ad operare?".

Thierry Salmon: "Parto sempre dal testo, cercando di trovare un filo. Non parto cercando di fare a priori un certo tipo di lavoro sullo spazio o sulla musica o sulla luce etc".

Renata Molinari: "Per quanto mi riguarda non prescindo mai dal testo per abitare un luogo. Lo spazio è uno strumento per indagare il testo, può consentire di esplorare alcune situazioni e non è mai una dimensione solo fisica, ma anche di memoria. Non c'è un metodo di lavoro sullo spazio, sulle luci etc; altrimenti sarebbe un lavoro teorico, anche se ripercorrendo a ritroso la nostra esperienza si possono individuare delle costanti. Il lavoro che fa Thierry ha una sua specificità, ovvero portare l'attore a fare esperienza dentro uno spazio e questo spazio viene progressivamente messo alla prova nelle sue possibilità. In questo caso c'è stato prima un tema e poi il testo; con le Amazzoni avevamo individuato come tema il rapporto fra maschile e femminile in una situazione di separazione esasperata. Da lì, partendo dal sistema di relazioni interne fra tema, spazio e lavoro sull'attore, abbiamo deciso che i laboratori sarebbero stati con uomini da soli o con donne da sole. I laboratori si sarebbero dunque svolti sullo stessa tema, ma separatamente, in modo da sviluppare delle energie diverse. Questo comportava anche delle differenzizioni nel linguaggio del testo. Le donne avrebbero usato la lingua di Kleist, sia pure riscritta, e gli uomini una più quotidiana. I due gruppi, pur essendo compresenti, dovevano occupare due spazi con attività diverse. Abbiamo cercato materiali sul tema delle Amazzoni nella mitologia, riscontrando la costante che le Amazzoni non hanno un luogo, anche nei miti diversi, arrivano e vanno, sempre, si sa che devono tornare, ma non si sa dove stiano. Allora abbiamo pensato a quale potrebbe essere oggi un non-luogo, riferendoci ad accadimenti e a immaginari di questi ultimi anni, come, ad esempio, ai campi di stazionamento dei profughi... si trattava di trovare un non-luogo carico di presenze e che fosse possibile oggi, e in questo modo abbiamo cercato di dare un senso al capannone che ospitava lo spettacolo, portando dentro uno spazio reale una costellazione di spazi".

Federica Fracassi (Teatro Aperto): "Mi sembra di capire che quello che conta per voi è la dinamica spaziale, non la scenografia; e quindi la scenografia è un luogo?".

Patricia Saive: "Per me ci sono diversi punti di partenza; può succedere che ci sia già un luogo dove si farà lo spettacolo e non esiste altra possibilità di scelta. Oppure cerchiamo uno spazio a seconda delle idee che abbiamo, uno spazio che corrisponde alla tematica del lavoro. E tutto quello che si trova in quello spazio viene usato, anche gli attori lavorano in relazione con quel materiale. Non impongo la necessità di un elemento scenografico".

Thierry Salmon: "Per me l'attore deve avere la consapevolezza di ciò che gli sta attorno, anche di ciò che accade mentre si svolge lo spettacolo".

Raimondo Guarino: "Chi e come descrive questa idea all'attore?".

Renata Molinari: "Delle volte io, altre Thierry, anche se ci sono spesso momenti comuni. é un processo creativo molto lungo e affollato di avvenimenti, sono esperienze anche dure. Prendere molto tempo per preparare uno spettacolo non è solo un lusso ma una scelta precisa, costosa, non solo da un punto di vista produttivo, ma anche personale, artistico; in compenso, è così possibile realizzare un percorso nel quale si costruisce un patrimonio, un vocabolario comune. Sono molto polemica nei confronti di chi ritiene che prendersi un tempo lungo sia un lusso".

Nicola Danesi De Luca (Accademia degli Artefatti): "Lavoro con Fabrizio da circa tre anni e volevo dire una cosa dal punto di vista dell'attore riguardo allo spettacolo Dati..., uno spettacolo che non riesco bene a descrivere, anche perchè è uno spettacolo che si svolge in completo silenzio, fatto di figure e movimenti convulsi quasi in lotta con uno spazio, che è lo spazio di una scatola con un pavimento dove sono tracciate delle linee.

Il lavoro dell'attore in relazione al proprio spazio, per me che sono arrivato nel gruppo da un altro percorso fatto di teatro di strada, "terzo teatro", clown e guitterie, è diventato un'opportunità importante. Inizialmente, arrivato in questa scatola non capivo che cosa potevo trovarci io e se avrebbe potuto darmi piacere, però ci sono rimasto anche se ero molto perplesso, e ci sono rimasto probabilmente per motivi personali. Pian piano sono entrato realmente in questa scatola, si è creato un tempo e un meccanismo di relazione tra quelle pareti e gli attori (effettivamente sono pareti immaginarie, costruite con geometrie di luce e coreografiche che comprimono concettualmente, di fatto anche fisicamente gli spostamenti degli attori, ndr), che hanno dei legami molto forti perchè sanno perfettamente dove si trovano e cosa fanno. Il mio essere attore dentro lo spettacolo si misura in altri modi. Ad esempio sono contento di vedere una risposta del pubblico ad una mia pausa o ad una mia faccia. La scatola ci fa cogliere l'importanza di un respiro più lungo o di un tempo che si asciuga; senza di lei non avrebbe più senso quel che facciamo. E questa scatola, la stessa in posti diversi, mi fa sentire come se fossi a casa, mi ci sono affezionato. L'unica volta che l'abbiamo dovuta cambiare, per le esigenze del teatro che ci ospitava, non la ricordo come un'esperienza piacevole. Questo per dire: se tre anni fa, prima di questo lavoro ero completamente d'accordo sul fatto che l'attore compone lo spazio, lo domina; adesso non lo so. La mia esperienza mi dice che è lo spazio che ha composto la mia dimensione, in lui ho trovato un senso ad ogni caduta o ad ogni costrizione con il corpo dell'altro attore".

Deposito dei Segni: "Lo spazio scenico per noi è un punto di fuga, o un territorio dove propongo la mia necessità, la mia sfida come necessità di esprimermi. Consideriamo lo spazio scenico come luogo artistico autonomo (luogo mentale e quindi luogo di accadimento) che ha diritto di esistere se si è costretti a negarlo: ci si deve chiedere/interrogare sulla possibilità/impossibilità della sua esistenza e quindi non considerarlo come dato di fatto".

Antonella Piroli (Tanti Cosi Progetti): "Per noi è da intendere come prolungamento dello spazio interiore, non la trasposizione, la traduzione visiva dello spazio interiore, ma il suo prolungamento... una immagine che ci chiarisce meglio questa considerazione è quella di sentire lo spazio scenico alla stregua di un ponte, di un filo, o meglio un insieme di fili di collegamento tra l'attore e il suo lavoro teatrale con lo spazio esterno e con lo spettatore. L'attore con la sua presenza, i suoi gesti, i percorsi che disegna, le parole e i suoi silenzi, gli elementi scenografici, gli oggetti, i rumori, i suoni che vivono in simbiosi mutualistica con l'attore, tutti questi sono fili che si svolgono dallo spazio interiore e si prolungano verso l'esterno... sono gli stessi fili dove scorrono le suggestioni che lo spazio scenico venutosi a creare rimanda alla sua fonte, in una sorta di autoalimentazione: lo spazio interiore come momento progettuale ed emozionale si prolunga nello spazio che a sua volta ritorna ad esso in continua comunicazione. Questi movimenti avvengono soprattutto nel tempo dell'allestimento del lavoro teatrale... un tempo, un luogo dove spazio vitale e spazio scenico si intersecano, si sovrappongono: è il caso di La punta dei capelli dove lo spazio interiore si estende nello spazio Antonella/armadio (la Piroli, che con Danilo Conti condivide l'esperienza artistica di Tanti Cosi Progetti, cita il titolo del loro ultimo spettacolo, ndr). Un primo filo viene lanciato in un punto, un centro, una genesi di altre estensioni, di altri collegamenti. Durante il lavoro delle prove si viene a configurare un intreccio sempre più complesso di fili che conosce una estensione via via maggiore, che va a cercare una comunicazione con altri spazi: quello teatrale e quello dello spettatore. Sono spazi ideali, nel senso più lato del termine: i nostri lavori fino ad ora sono nati nella stessa sala prove, che è la nostra sala prove, un luogo che ha caratteristiche e dimensioni tali da permettere la creazione di uno spazio scenico nei modi e nei tempi a noi congeniali... un luogo che non è semplice contenitore, ma che è già spazio scenico a priori. Ha già quelle connotazioni di dimensioni ridotte, di atmosfere intime che sono quelle dello spazio scenico. Per questo, per noi è importante avere una sala prove che andiamo poi a ricercare/ricreare nei luoghi dove l'evento teatrale viene portato. Lo spazio interiore originario si prolunga in una matassa aggrovigliata, per assurdo si sovrappone, si complica al punto da portarci a sentire lo spazio scenico come uno spazio virtuale, fatto di scarti di tempi e luoghi, un incontro di energie, sensibilità. Proprio per questo chiamo in causa Italo Calvino con una immagine che mi chiarisce il concetto di spazio non tangibile: viene da Palomar e più precisamente dal breve capitolo La pantofola spaiata dove il signor Palomar, appunto, durante un viaggio in un paese orientale, si trova a comprare un paio si pantofole artigianali, tipiche del posto, scegliendole da un mucchio. Se ne prova una, gli piacciono e decide di comprarle. Le indossa per la prima volta entrambe quando torna a casa, in Italia, e solo allora si accorge di avere comprato due pantofole di paia diverse. Dopo il primo momento di perplessità pensa di infilarsele comunque, inizialmente si sente a disagio, riesce a camminare solo con un incedere zoppicante, ma poi prova quasi un senso di conforto, di piacere pensando che da qualche altra parte del mondo, forse vicino a lui, ma forse anche molto lontano, c'è un'altra persona che indossa la sua pantofola spaiata, e che quindi a sua volta anche questa altra persona ha il paio imperfetto. Per lei sente quasi un senso di solidarietà, di empatia. Prova la stessa piacevolezza anche quando pensa che forse la pantofola che a lui manca giace nel mucchio sotto a tutte e chissà quando la sua pantofola verrà comprata. Forse tra molti anni, quando il signor Palomar sarà morto, oppure qualcuno l'ha acquistata molti anni prima - il legame col compagno ignoto è sempre meno concreto, ma non per questo meno forte, meno chiaro - può anche essere che la pantofola non verrà mai comprata e nessun legame si stabilirà. Forse l'essenza dello spazio scenico è molto vicina a questa rete di rapporti immateriali che si svolgono in luoghi e tempi non concretamente individuabili, ipotetici, mentali, emozionali... fino a pensare che lo spazio scenico può essere anche quell'insieme di rapporti, di scambi che non avverranno mai".

Fulvio Ianneo: "Il Teatro Reon, fin dall'inizio, ha espresso un suo bisogno di raccontare frammenti di realtà e di conoscenza umana, svelati attraverso la prospettiva di una condizione limite, al confine di una dimensione spazio/tempo ordinaria. L'invenzione teatrale può essere considerata una zona di confine per eccellenza tra spazio reale e spazio immaginario quando si da forma e vita attraverso il linguaggio della scena a una condizione concreta e sostanziale. L'attore, ma anche il pubblico, coglie e percepisce in sè, attraverso l'ascolto, ciò che lo fa agire nello spazio e si apre ad una particolare dimensione nello spazio scenico che è lo spazio reale di questa sua particolare condizione. Ecco perchè il teatro per me non è comunicazione, ma una forma di percezione dove il linguaggio nasce dalla ricerca di sintonia con una visione intuita, che deve essere trasmessa e che deve perciò mantenere una sua durata attraverso la composizione drammaturgica. La percezione implica la presenza di ciò che è percepito e di chi percepisce. Queste due presenze sono indissolubili, come l'artista e il suo pubblico. Riguardo allo spazio scenico credo debba valere un principio di visionarietà come capacità di trasformazione di uno spazio dato in un luogo dell'evento, come linguaggio della manipolazione dei corpi, delle masse, degli elementi e dei volumi dello spazio attraverso la luce, la composizione scenica e drammaturgica e, soprattutto, la presenza dell'attore. Questo altro mondo di interazioni reali, di relazioni concrete, quanto è più forte tanto più ci da una realtà di confine, una visione intuita e perseguita con la creazione. Un altro aspetto che considero importante è la condizione di realtà dello spazio che mi consente di ribadire come lo spazio non è un contenitore. Le sue caratteristiche fisiche, acustiche e ogni suo elemento e accadimento sono sempre e comunque dentro la rappresentazione".

La condizione di realtà chiamata in causa da Ianneo, è un dato ricorrente nelle riflessioni, anche se il termine ne compendia altri come verità, presenza, consapevolezza, la condizione di realtà manifesta soprattutto una trasformazione del proprio territorio d'azione, che diviene una casa-mondo, una vera e propria tana in cui condividere socialità e arte, andando a rifondare zone di resistenza etica e di visionarietà.

Fabrizio Arcuri: "La scenografia ed i suoi problemi di decoro sono naturalmente un aspetto posteriore, ovvero uno scatto successivo, il problema che si pone come prioritario è lo spazio dell'accadimento. Lo spazio come elemento drammaturgico conserva in sè una serie di domande a cui bisogna evidentemente trovare una risposta. Non si tratta dunque del puro darsi della cosa in una presenza irrelata e così tanto più perentoria nella sua infondatezza; ma l'appartenere della cosa al luogo e insieme il suo stare. Le sale teatrali costituiscono già un primo limite da astrarre, questo è anche il primo movimento verso la creazione di un contenitore pertinente ed adeguato che ignori l'ambiente già esistente ed estraneo che sarà ospite. Il contenitore è il nuovo limite autogenerato, ovvero generato da un'esigenza interna e si assoggetta ai nuovi parametri ricostituiti. Si tratta ora di comprendere quali sono le logiche e le relazioni di questo sistema, poichè esso ora è uno spazio autonomo che evidentemente pretende un tempo autonomo, dunque un suo specifico ritmo, e le azioni e gli oggetti devono necessariamente trovare una relazione coerente. Costituire uno spazio autonomo significa dunque ricreare tutti i sistemi di riferimento. Questo procedimento modifica lo stare e l'essere nel sistema, e spinge verso la ricerca di una possibilità di comunicazione che evidentemente non può essere casuale, ma assoggettata ai limiti temporali e spaziali dati. é possibile dunque, che nella fittizzia e astratta realtà parallela rifondaten, l'essere non si dia come tempo nel senso di sequenza di passato-presente-futuro, come processo dialettico di perdita e ritrovamento di sè, o come sviluppo evolutivo verso un compimento, o come una conseguenzialità meccanica di causa-effetto. é possibile che l'essere nel sistema non costituisca una unità data, ma che si completi dell'umore di una luce che lo colora ma non illumina e che la sua verità rimanga sullo sfondo, intuibile, pensabile, ma non dichiarabile. La costruzione dell'identità dell'essere si da per sommatoria, per fagocitazione dei segni, per accettazione della fattura, per superamento del frammento, per molteplicità. Ma il mondo così ricreato e ripopolato non è autoreferenziale nè ha la forza di esaurirsi in s". Lancia dunque delle coordinate al mondo di chi guarda. La prospettiva dell'osservatore subisce gli stessi condizionamenti ed entra in relazione con il sistema nel modo necessario affinchè compatisca, in quanto essere che abita anche se non indossa".

Pietro Babina: "Per quanto riguarda il nostro lavoro lo spazio scenico-architettonico ha una forte identificazione con un oggetto che si potrebbe anche nomare scenografia, con questo non intendo però riferirmi a strutture spaziali chiuse o meglio non solo ad esse; per struttura chiusa intendo che contenga uno spazio e non che ne sia contenuta. C'è la necessità, nel nostro modo di lavorare, di trovare a priori un luogo immaginario e del tutto ideale, in cui andare a costruire i vari drammi, in questo caso la scenografia ha il potere, e non la finzione, di consentire una più forte astrazione dal circostante, permette di sprofondarsi molto più fortemente nell'argomento ma tutto questo attiene specificamente ad un modo di procedere personale che fa sempre riferimento ad una posizione idealizzata della creazione artistica, dove idealistico non corrisponde a dogmatico. Non è però corretto dire nel nostro caso che spazio scenico e scenografia siano sovrapponibili. Lo spazio scenico è comunque qualcosa di più ampio ed indefinibile rispetto alla scenografia, è il contenente e allo stesso tempo il contenuto della scenografia e pertiene di più alla sfera dell'astratto più che a quella del concreto e volendo fare una piccola forzatura, si potrebbe forse dire che la scenografia ne è la rappresentazione fisica, ne è l'icona e similmente si può dire dell'attore. Nell'affrontare il problema dello spazio scenico in questi anni, mi è parso di poter constatare che ci sono due principali atteggiamenti possibili: la scissione e la fusione all'interno di uno spazio dato, che può essere anche astratto, le manifestazioni fisiche scenografiche possono essere scisse da quest'ultimo oppure fuse, confuse, mimetizzate in esso. trovo interessante il legame che vado sempre più scoprendo tra l'organizzazione dello spazio scenico e lo sviluppo drammaturgico: qui si è in un luogo vero e proprio, un luogo che non riguarda solo l'invenzione di architetture atte a scenografie o scritti atti a sviluppare dei drammi. Ho sempre la sensazione che fare un lavoro teatrale si tratti di riempire un qualcosa che in precedenza si presenta vuoto, l'idea che vi sia un luogo che va riempito mi rimanda sempre alla creazione e di qui l'ossessione per un teatro metafisico; mi diverte pensare di fare questa domanda a Dio: che cos'è per te lo spazio scenico? Quando dico che lo spazio scenico pertiene di più alla sfera dell'astratto, voglio dire che anche una pausa, che è un vuoto, è uno spazio scenico".

E allora lo spazio, o meglio, la particolare relazione che si viene a creare con lo spazio, sposta la percezione della propria perimetrazione spirituale oltrechè fisica, e ci definisce a misura delle cose configurando un interno/esterno dello spazio/tempo della composizione dal quale scaturiscono simbologie e presenze nell'immediatezza della visione. Per Vito Minoia si tratta di sperimentare in quella percezione dello spazio un grado diverso di consapevolezza fisica. Citando l'incontro con il Living, ma anche ricordando come alcuni spettacoli dati in Ungheria o in Feste dell'Unità scatenassero reazioni inaspettate, Minoia si domanda come questa consapevolezza possa lasciare un segno nel rapporto col pubblico: "Ci interrogavamo perchè il teatro costituiva un beneficio per chi lo faceva e non per chi ne fruiva". Per Renzo Martinelli lo spazio deve essere in grado di parlare e il fascino maggiore è nel suo spessore, nel volume, andandolo ad abitare, come chiarisce Federica Fracassi, con il corpo che "ci arriva memore di altri luoghi con attaccate un po' di scaglie ammuffite".

Renzo Martinelli: "La scena è un foglio sul quale si muovono le figure senza un'effettiva base che le sostenga. In questo astratto iniziano i rapporti tra uomo e mondo. Sono rapporti monologanti, senza possibilità di incontro. La figura è un universo sonoro e lo spazio è la dimora di questi suoni. Lavoro con un volume per trattarlo oltre che come materia, come scultura, come linguaggio".

Gabriele Argazzi: "Un attore non può agire al di fuori di uno spazio. Di conseguenza quello spazio vale per lui, in quel momento, come tutti gli spazi possibili. I creatori maggiormente sensibili ai temi legati alla costruzione dello spazio scenico hanno visto questa esclusività nelle sue potenzialità motrici di nuovo senso, coltivando l'esigenza di rapporti sempre più stretti fra l'attore e lo spazio in cui agisce. Molto minuziosa è divenuta l'attenzione alla determinazione precisa dei livelli di restrizione ai quale egli verrà sottoposto e in particolare al ruolo drammaturgico dello spazio. Questo tipo di atteggiamento, anche quando produce risultati semioticamente coerenti, evita, tuttavia, di fornire risposte riguardo alla questione fondamentale, che ha a che fare con l'identificazione del tipo di legalità in cui lo spazio rientra primariamente. Evidentemente non si pensa che l'artista teatrale debba prendersi carico della dialettica fra lo spazio, inteso come elemento concettuale in cui si incrociano tematiche filosofiche e attitudini compositive e gli spazi, intesi qui come prodotti non artistici del lavoro dell'uomo. Lo spazio scenico viene preso come elemento puro, privo di un proprio doppio nel mondo della vita e, di conseguenza, vuoto. A questo punto la creazione teatrale può accogliere liberamente tutti gli spazi dell'arte, da quello pittorico, a quello architettonico, a quello elettronico; la solidità delle scelte estetiche e poetiche del realizzatore è la sola scommessa che garantisce la non arbitrarietà dei significanti. Tutto il lavoro sullo spazio si fonda qui sulla capacità, drammaturgica, visiva o scenotecnica, di trattare una variabile potente, la cui differenza, pur venendo implicitamente riconosciuta, è già stata ridotta a elemento formale e piegata alle necessità contingenti della compiutezza. L'opera acquista ricchezza, ma viene persa l'occasione di un autentico rinnovamento linguistico, che trattenga in ogni momento la consapevolezza del rapporto tra l'uomo e lo spazio della sua vita, che non è mai dato una volta per tutte e soprattutto appare sconvolto da imprevisti azzeramenti e dall'azione continua del tempo e del movimento. Lo spazio della creazione teatrale, l'intera opera teatrale, rischiano di vedere accentuate le proprie caratteristiche di monumentalità. L'artista che pensa al luogo dell'azione scenica ed è occupato ad ideare una entità che poi riempirà di senso, non si cura di confrontarsi con l'elemento centrifugo che questo contiene in potenza, perdendo tutte le possibilità paradossali di quella che si può definire come topo-logia. Questa topo-logia, intesa come argomento ininterrotto di forme struggenti e sfuggenti, che prendono vita tra l'oggetto dell'esperienza e il soggetto, si può ricostruire soltanto dall'interno, volgendo gli occhi alla realtà degli spazi reali, che sempre rifiuta la purezza del concetto. In essi si dispiega, infatti, un'etica tutt'altro che rassicurante, che va praticata per essere compresa. Inutile sarebbe pensare di poter risolvere la dialettica che abbiamo identificata tramite riferimenti metartistici ad altro accadere. Con ciò si suggerirebbe nuovamente il primato della coscienza creatrice sul mondo dei fenomeni, primato contraddetto dal fatto che la nostra comune esperienza dello spazio non è estetica, ma cieca e che, pertanto, il soggetto deve cadere fuori dal proprio tempo per poter percepire qualcosa che disperda continuamente il dato della propria forma. Affrontare correttamente il problema della edificazione dello spazio scenico, significa richiamare la caduta per prepararsi ad invertirne il senso, lasciando che siano, metaforicamente, i luoghi a cadere nel processo di creazione, come elementi autonomi e dissonanti, in grado di riattualizzare l'esperienza originaria e biografica dell'artista. Laddove l'ansia della forma costituisce ancora il motore principale del lavoro, essi possono stabilire i confini tra questa aspirazione intollerante e la ribellione contro di essa, che continuamente si accende, si consuma e muore. Lo spazio teatrale diventa allora il luogo della rappresentazione di un istante spaziale enigmatico, denso di incrinature e di immminenti catastrofi, un istante fissato dal necessario riconoscersi dell'artista in un sistema di elementi. Il suo compito sarà quello di mettere mano ad un processo di semiosi, che operi sugli equilibri casuali prodotti in un momento dato da una intenzione legata ai processi sociali concreti. In questo processo di rappresentazione, che appronta il disegno dello spazio come traccia parallela-incidente rispetto agli altri elementi dell'opera scenica, l'artista non cessa mai di servirsi del concetto di forma, ma essa diviene un compito la cui conclusione è, al limite, negata dalla natura del rappresentandum".

Renata Molinari: "Vorrei raccontare dal mio punto di vista il processo di lavoro svolto a partire dallo spettacolo tratto da I demoni di Dostoevskij. Lo farò cercando di sottolineare gli elementi spaziali che attraverso il lavoro teatrale di Thierry sono stata portata ad applicare al testo. I personaggi non sono la cosa che a me in prima istanza interessa; all'inizio si individuano alcune situazioni e temi portanti che possono corrispondere a situazioni o a scene del romanzo. E per quel che mi riguarda parto dal testo: si legge e rilegge il testo per trovare tutto quello che ad una prima lettura non è emerso o si è colto solo a livello emotivo, individuando alcuni personaggi e le loro possibili relazioni. Dati i personaggi e i temi, quello che è diventato il mio lavoro sulle indicazioni del lavoro fisico e teatrale di Thierry, è stato anche quello di cercare una qualità di movimento legata ai personaggi. E questo è già, per quanto mi riguarda, una concreta possibilità d'azione in uno spazio preciso. Un movimento che ritornava spesso nelle situazioni narrative era quello della spirale, della vertigine: lo svenimento, l'epilessia; tutti movimenti molto vorticosi che non implicano spostamenti. E questa era già un'indicazione. Un altro elemento è stato il tipo di movimento legato alle relazioni. Molto spesso i personaggi vivono delle aspettative proiettate sugli altri; quindi la spirale e il rispecchiamento. Altro elemento, gli spazi. Molto spesso misteriosi, strane case in verticale in cui abitano diversi personaggi che passano da un piano ad un altro incontrandosi; e poi ci sono le strade della città... I personaggi parlano tutti come dei disperati, come degli indemoniati, come se non potessero tacere. Thierry mi ha invitato a lavorare su tre livelli; uno era la confessione, poi veniva la rivelazione e infine la dichiarazione. Il modo di parlare indica una qualità della parola ma implica anche un assetto spaziale tra le persone. Altro elemento molto forte era la moralità, ancora il testo ci portava a una riflessione sulla luce. La luce in questo testo di Dostoevskij non è mai una luce che rischiara, è sempre una luce che ferisce. Parlando con Thierry, abbiamo pensato che una luce che ferisce è una cosa che arriva violenta, qualcosa da cui ripararsi. La luce di uno specchio, per esempio, è qualcosa che ferisce, e questo rientrava anche nel discorso del rispecchiamento e, inoltre, gli specchi hanno tutta una serie di conseguenze nello spazio per quanto riguarda le relazioni fra gli attori e il loro modo di rappresentarsi alle sorgenti luminose".

Enrico Bagnoli: "Fino a La signorina Else, che Thierry ha montato allo Starchi di Modena, non c'erano stati lavori per palcoscenici all'italiana. Si voleva lavorare in un teatro classico ma senza palcoscenico e con il pubblico seduto lo stesso in platea. Il testo di Schnitzler cammina su due piani distinti, in cui la protagonista dialoga e adotta poi un monologo interiore, così il corsivo del testo diviene il suo pensiero espresso. Tutto il palcoscenico era stato murato da una montagna di autoparlanti come in un concerto rock, e da dove usciva il pensiero della protagonista contemporaneamente al suono e alla luce. Lo spettacolo invece di essere coerente a una poetica visuale era coerente con il sistema di regole della verticalità. Alla luce, si sostituisce il controluce come elemento di impossibilità: gli attori non possono recitare sul palco ma in platea, il pubblico è seduto in platea o sui palchetti ed è visibile nonostante non sia illuminato e l'attore deve essere illuminato in faccia e in controluce per ogni spettatore, indipendentemente da dove lo spettatore si trovi, fermo restando che la luce deve uscire esclusivamente da questo muro. Tutti i dispositivi elettrici devono essere comandati da una cabina, nè il suono nè le luci possono essere comandati da tecnici in sala. Alcune scene devono essere dello stesso tipo di un primo piano cinematografico, cioè devono essere illuminate come dei particolare di assoluto rilievo. Uno spettacolo che si deve montare in un giorno e fare in diversi teatri in tournèe. Era la prima volta che lavoravamo in un teatro ufficiale in Italia. Allora si studiò dei proiettori a scarica che facevano passare dei fasci di luce da delle feritoie del muro, attraverso un meccanismo di saracinesche, fasci che andavano poi a sbattere su degli specchi che non erano specchi piani, ma funzionavano come parabole".

Thierry Salmon: "Anche per Le Troiane (memorabile lettura di Euripide, andata in scena a Gibellina in uno spazio fisico e mentale, quella Troia distrutta, totalmente reinventato nella lingua del greco antico, nei cori musicali di Giovanna Marini e, come scriveva allora Pier Vittorio Tondelli, "nelle tracce segniche dell'artista Nunzio", una specie di anfiteatro di legno bruciato, ndr) abbiamo lavorato nell'ambiente ricostruendo, per esempio, con la luce l'idea del campo vicino alla città dove erano rinchiuse le troiane. E questa idea era data da moltissime lampade a scarica al sodio dietro la collina che emanavano un pallore chiaro, segno del riverbero della città".

Enrico Bagnoli: "Si aveva l'impressione di entrare in un mondo totalizzante. E lavorare su spazi enormi è stato anche una grande scuola perchè ti pone problemi che in teatro non hai mai. Lo spettro della luce a gas è molto diverso da quello di una luce alogena, cioè le reazioni luminose sono molto vicine a quelle del giorno. Ma il fatto di aver trovato una sorgente luminosa non risolveva il problema rispetto allo spazio aperto molto grande. Abbiamo allora costruito uno stampo per tornire trentacinque parabole e in questo modo, con una bombola di gas si faceva tutto lo spettacolo senza bisogno di fari".

Lorenzo Bazzocchi: "Partirei dalla coerenza, che dalle vostre parole sembra un punto dominante nel procedere del proprio lavoro. La sento come un punto cruciale dell'arte teatrale, indipendentemente dalle risorse che si hanno a disposizione. Abbiamo progettato Nur mut cercando di individuare il percorso drammaturgico dello schizofrenico, come il testo di riferimento di Deleuze e Guattari indicava, cioè dello schizofrenico come eroe dell'antiproduttività; questa figura la soffriamo e cerchiamo di tradurla nello spazio teatrale. Immaginandoci questa figura isolata da una dimensione di analisi psichiatrica, che nella nostra vita si ricollega al malato, in Nur mut viene liberata e assunta quasi come unico uomo possibile. E a questo punto diventa fondamentale il limite che non liberi dalla schiavitù della percorrenza terrena. Nur mut (una complessa architettura di congegnerie meccanico-organiche frontali allo spettatore, una sorta di pulsanti figure in bassorilievo che traversano il proprio spazio esistenziale, ndr) potrebbe essere una macchina industriale, ma anche la cucina dello schizo, un viaggio nella sua camera da letto che interpreto come una vasca che è stata riempita d'acqua dove lui si deposita in una sorta di stato catatonico (o una casa delle bambole, nella versione rivisitata, ndr). Parlare dello spazio scenico, per me significa considerarlo un problema che ci spinga a riflettere sulla costruzione drammaturgica della rappresentazione. E in questo, guardando il mio lavoro a ritroso, nella visione da regista coordinatore che sento vicina al mio modo di essere nel teatro, ritrovo dei punti in comune col lavoro di Thierry. Il nostro primo lavoro era un tentativo di creare un mondo degli spazi: Prigione detto Atlante, era una statua di vetroresina alta cinque metri, volevamo individuare dei luoghi che impongono dei limiti fortissimi. L'attore, assumendo il limite dell'obbligo, esplicita delle forze diverse. Gli attori posti su questa statua erano come una sorta di scalatori e le situazioni si svolgevano unicamente in blocco, obbligate a viaggiare e a mostrarsi. Un'altra espressione di mondo potrebbe essere Coefficiente di fragilità, con lo spettatore convogliato in diverse stanze, sempre in una tensione verso la spazialità di un luogo estremamente coerente che il pubblico percepisce come unico".

Gabriele Argazzi: "A proposito della presenza all'interno di un lavoro di elementi che provengono da spettacoli precedenti (Argazzi richiama quanto è stato detto da Bagnoli in merito ad alcuni oggetti o parti scenografiche di spettacoli, vedi le canne di bambù in A da Agatha, che vengono reinseriti nei nuovi lavori come una sorta di memoria di continuità e contiguità materica e sentimentale, quella che più avanti sarà definita come memoria loci, tutta interna allo spettacolo, ndr), mi chiedo in prospettiva fino a che punto può essere portata la presenza di questa continuità; e penso a quegli elementi, per certi versi assurdi dal punto di vista dello spettatore eppure così interessanti, che provengono da altri spettacoli e rimandano alla vita e all'esperienza intellettuale del gruppo: fino a che punto possono garantire la leggibilità di quello che si vede. L'idea che mi interesserebbe provare sarebbe quella di poter costruire uno spettacolo che possa in qualche modo vivere di tutti gli episodi precedenti, alle fasi di lavoro che stanno prima dello spettacolo e renderli riconoscibili anche quando questi si contraddicono fra loro".

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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna