Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Lettera di accompagnamento per un dossier teoretico e Ôarcaico'

 

THIERRY SALMON E I NUOVI GRUPPI: DISCORSI NELLO SPAZIO SCENICO
Cronache del progetto "Crisalide-Eventi di teatro" (Bertinoro, luglio-agosto 1997), di Paolo Ruffini

 

PRESENTAZIONI

L'atmosfera è distesa. Appena arrivati ci sistemiamo in una grande stanza del Ramo Rosso, al piano terra e aperta su un'aia, mentre alcuni degli organizzatori sono intenti a preparare sedie e divanetti a semicerchio: di fronte siederanno Thierry, Renata e poi Patricia e Enrico. Così nei giorni che seguiranno. Ogni tanto si avverte nel rumore di fondo il sopraggiungere di un treno, per il resto le prime parole sono di presentazione, cenni biografici, qualche fuga concettuale: "Cerchiamo di creare delle figure che abbiano una loro indipendenza - confida Gabriele Argazzi di Terza Decade- e una credibilità nei loro rapporti, allontanandoci dalle dinamiche personali che vi sono tra me e Barbara (Bonora). Generalmente i testi sono funzionali a quello che accade nello spettacolo e normalmente sono parole che possono accadere soltanto all'interno di quel luogo, soltanto in quel modo".

E Jorg Grunert di Deposito dei Segni, parla della sua formazione legata alle arti plastiche, del lavoro nelle scuole che da due anni stabilmente condivide con Cam ed è lei a chiarire come questa sia oggi una direzione "di lavorare nelle situazioni e a seconda delle necessità, sicuramente un lavoro che ha molta attenzione al disagio". La storia di Rio Rose non nasconde la propria appartenenza sentimentale: "Abbiamo fatto parte del gruppo dell'Odin di Eugenio Barba, incontrato e lavorato con persone di diversa nazionalità, lavorando sull'energia. Adesso quel linguaggio scenico è una buona base per il nostro lavoro ma non l'unica direzione; difatti abbiamo collaborato con Accademia Perduta per il teatro ragazzi e ci interessa il teatro musicale".

Schizzi di gruppo "Deposito dei Segni"Fulvio Ianneo (Teatro Reon): "Con Anna (Amadori) abbiamo formato un gruppo circa sette anni fa a Bologna. All'inizio una delle idee di fondo del lavoro era quella delle visioni sul flusso temporaneo, infatti la parola Reon significa fluire, scorrere, e questo raccontarsi era un un vissuto d'attore attraverso immagini. Il flusso, più che un tempo generico è una percezione di un tempo e la percezione partecipava alla costruzione di creature, che non sono mai stati dei personaggi veri e propri. Da qualche anno cerchiamo di lavorare su testi preesistenti, poi ad un certo punto è nata anche l'esperienza di teatro in carcere a Modena e questo ci ha resi più sensibili alla necessità dell'espressione, del sentire del corpo. Sull'idea del tempo ci siamo rapportati alla musica, perchè per noi è un riferimento importante, lavoriamo anche durante le prove con la musica".

Fabrizio Arcuri (Accademia degli Artefatti): "Il nostro lavoro si costruisce come uno story board, una griglia molto definita che non prevede improvvisazioni, fondamentalmente legata al rapporto tra il corpo e lo spazio, uno spazio che va ad incidere sulla funzione che quel corpo assume nella partitura e tra questi e la musica. Per cui il progetto relativo a Beckett (lo spettacolo Dati: 1) il bianco; 2) il silezio; 3) radice quadrata di due, ndr) era totalmente in silenzio e la musica era data solamente dal movimento, il respiro e il ritmo dei corpi; mentre l'altro, dedicato all'opera lirica (Altri altari, una farsa di vita assoluta, ndr), ovviamente aveva musica in scena dal vivo che entrava in relazione drammaturgica con l'azione dell'attore. E questa azione definisce anche una particolare qualità del movimento: il rapporto che abbiamo con il movimento è un rapporto totalmente non armonico. Cioè, la relazione che cerchiamo fra i corpi e lo spazio, è una relazione disarmonica, di impatto non compromissorio, di durezza. Per noi è fondamentale considerare lo spazio come il tempo e di dare la possibilità al tempo di avere un'organizzazione spaziale. Questo significa che il tempo può avere delle direzioni, come ad esempio nel film Prima della pioggia di Machewski, dove i tempi si mescolano e la narrazione ha un procedimento assolutamente non logico anche se nel film non ci sono flashback, non ci sono delle ellissi temporali. Dati... è sicuramente uno spettacolo che parte da questo, anche se in qualche modo alla fine abbiamo creato una struttura drammaturgica circolare. E la circolarità sento che non ci appartiene più: vorrei staccarmi da una dimensione drammaturgica circolare dove l'inizio di uno spettacolo coincide con la fine. Inoltre l'incontro con la musica ha fortemente modificato la concezione dello spettacolo, in cui il ritmo è l'unico elemento elementare di cui sento di raccoglierne l'eredità".

Pietro Babina (Teatrino Clandestino): "Lo spazio scenico forse è stata la nostra prima esigenza, di tipo fisico. Ricordo che la prima volta che abbiamo pensato ad uno spettacolo, ci eravamo posti il problema di farlo in tanti posti. Il Manifesto del teatro volante di Majakowski spiegava come doveva essere il teatro proprio dal punto di vista spaziale. Doveva spostarsi facilmente, fatto in tutti posti e raggiungere il maggior numero di persone. Allo stesso tempo non dava però un'indicazione di teatro di strada. La scenografia doveva essere fatta in modo da potere essere trasportata ovunque, e questo è, in un certo senso, sempre stato il concetto da cui siamo partiti. Non siamo stati legati al luogo, ma costruivamo dentro il luogo. Il primo lavoro è stato A porte chiuse di Sartre ed era una piccola stanza che aveva un pavimento fatto da una grata da dove venivano le luci. Con Mondo (Mondo) il lavoro si sposta sulla scrittura, la monumentalizzazione, su ciò che resta permanente, e penso sempre che ogni forma permanente sia un tentativo per automonumentalizzarsi.

Lo spazio fisico, come una sorta di gipsoteca, veniva riempito da calchi di parti umane in gesso: l'attore diventa un monumento, come fatto a pezzi, dove tutto è catalogato. L'immagine è quella di un cimitero dell'attore. Lo spazio metafisico invece appariva come un riflesso, la figura immobile di un medium, perchè mi interessava lavorare sull'attore come larva, non come carnalità. Le luci erano solo sagomatori che delimitavano degli spazi. Con L'idealista magico (ultima produzione del gruppo, spinto sul gioco delle ombre che diventano contorni astratti e condizionano lo spazio dell'attore, ndr), il palcoscenico è diventato una gabbia in ferro sollevata da terra, ambientato nell'800. Un salottino borghese, un laboratorio scientifico o un baraccone di ciarlatani, in cui accadono degli esperimenti di elettrostatica e l'illuminazione è tutta a candele".

Lorenzo Bazzocchi (Masque): "Il nostro modo di lavorare ci fa individuare un luogo che l'attore andrà ad abitare. Un luogo che potrebbe chiamarsi spazio anche fisico, e non solo, in cui la fisicità dell'attore avrà un contatto con il materiale di quel mondo. A volte è il movimento dell'attore che dirige la struttura (quel movimento che va a formulare un percorso di elementi e segni con vincoli molto precisi, e che negli Artefatti, ad esempio, si caratterizza come una partitura coreografica che ridisegna la scena, la assorbe e ne struttura drammaturgicamente i livelli di narratività non verbali, ndr)".

Renzo Martinelli (Teatro Aperto): "Ho iniziato a fare teatro da autodidatta arrivando da esperienze che avevano a che fare con la meccanica o la musica o la pittura. Ho studiato la musica, sempre da autodidatta, partendo dal presupposto di dovermi costruire un metodo, cercando di capire non a priori ma mentre stavo facendo. Riflettevo sulla memoria stupida, cioè svincolata da ogni possibile riferimento. Iniziare a fare teatro, come iniziare a dipingere o a fare scultura, utilizzare dei materiali, era proprio il modo di conoscere di più il perno, una costruzione del tempo. Nella musica mi interessava la materia sonora, poi ho scoperto che Kandinski aveva codificato il suono con i colori. Il mio approccio al teatro era libero, non avevo letto niente, forse Artaud, quindi avevo l'esigenza di avere pochi colori, poche cose con cui giocare. Uno spettacolo per me suona giusto o suona male, può essere anche stonato, però è stonato nel modo giusto e questo è l'unico scrupolo che ho".

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