Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Lettera di accompagnamento per un dossier teoretico e Ôarcaico'

THIERRY SALMON E I NUOVI GRUPPI: DISCORSI NELLO SPAZIO SCENICO
Cronache del progetto "Crisalide-Eventi di teatro" (Bertinoro, luglio-agosto 1997), di Paolo Ruffini

 

COMMENTI E ALTRI PENSIERI

Raimondo Guarino: "Penso che esistano almeno due piani di cui si è parlato: un piano di interdipendenza con altri fattori, per cui si lavora sullo spazio lavorando sull'azione, si lavora sullo spazio lavorando sulla costruzione, si lavora sullo spazio lavorando per ipotesi drammaturgiche; e, d'altro canto, emerge un'altro piano: lo spazio è una relazione primaria, è qualcosa che è preliminare, che sta prima delle relazioni che nello spazio, sullo spazio si possono creare all'interno del processo creativo. Ognuno di voi ha esposto in maniera più o meno sintetica o indiretta o esemplificata da esperienze concrete, una formula o un atteggiamento per cui stare nello spazio scenico significa formulare la propria idea di una apparizione. Lo spazio è ciò in cui qualcosa appare, o ciò in cui qualcosa accade. Poi c'è un piano che sono indeciso come chiamarlo, forse strategico nel senso che contempla dei fattori di impostazione dell'azione nel teatro che va aldilà del lavoro nella composizione dello spettacolo. E che però incidono nel processo creativo, perchè nel momento in cui si mette in questione una categoria come la continuità, nel momento in cui la la definizione del tempo di lavoro, nel tempo di lavoro nelle collaborazioni di tempi, degli spazi, tra scansione tra spettacoli e studi, ci indica la necessità di pensare a questa strategia che vuol dire di tempi lunghi e che non siano tempi lunghi per la realizzazione di uno spettacolo, ma tempi di una dimensione integrale del lavoro teatrale. Quando parliamo dello spazio, parliamo di una costellazione che è toccata da un'idea che è una pratica del movimento. Che segna le sue stazioni e che ogni volta impone di decidere cosa lasciare e cosa prendere e questo inevitabilmente richiama un sistema di economie. In che senso economia: diciamo per esempio che la prerogativa, la qualità particolare dell'attore è quella di essere, a parte le sue doti fisiche, un buon economo, capace di conservare, in quello che si porta dietro, gli strumenti che sono in grado di sopravvivere agli spostamenti, di servire oggi ma di servire anche domani. Economia, d'altra parte, è una parola paradossale se la colleghiamo a strategie del movimento, vuol dire regole della casa. Allora quali sono queste regole della casa? Cosa va preso? Cosa va lasciato? Qual'è la forma di nomadismo che si sceglie? Diverse accezioni della memoria; apertura e chiusura che cosa vuol dire? Pensiamolo rispetto a un dato molto banale: quante repliche fate voi dei vostri spettacoli e quanto lavoro volete che si manifesti in queste repliche? Quale aspetto del vostro lavoro volete che si imponga in questo nodo che è lo spazio scenico come spazio dove appare qualcosa? Il discorso è del lavoro come tempo reale nello spettacolo, ma se cambiamo piano e diventa il discorso del lavoro come identità di un tempo reale in una strategia più lunga".

Allora il nomadismo avrebbe una motivazione che pertiene all'identità dei soggetti che vanno ad occupare un territorio, spinti da quella che Guarino chiama una motivazione etologica per cui lo spazio scenico è il rapporto tra uno spazio vitale e uno spazio istituzionale. Seguiranno delle domande, o per meglio dire delle questioni sulle quali i gruppi sono chiamati a relazionarsi durante il convegno ma anche, e soprattutto, formulando dei punti di riflessione futuri.

Raimondo Guarino: "Dalla composizione di una realtà chiusa dentro una costruzione come diceva Nicola, dove l'attore, e lo afferma a posteriori, entra in relazione con una costruzione che sembra decidere della composizione: lo spazio vitale è stato fissato in termini di costruzione. Il nomadismo delle case, questi teatri volanti, spesso delle case che si spostano. Ma che cosa si mette in scena? Il nostro rapporto col mondo che ci è dato dalla certezza del vedere, del toccare, è una stanza visiva. Questa è un'espressione di Wittgenstein, il quale dice che noi possiamo pensare la verità nel nostro repporto con ciò che ci circonda come una stanza visiva, in cui non si può entrare e rispetto alla quale non esiste un esterno. é la condizione stessa della coscienza. Cosa mettiamo dentro la scena? Cosa significa mettere in scena l'attenzione che lo spettatore esercita? Ha il senso del manifestarsi, dell'essere presente davanti a qualcuno o in un certo luogo rispetto al quale noi ci spostiamo. Che cosa si porta in scena, quanto dello spazio vitale nel lavoro che ha per oggetto la composizione. Alcune considerazioni sull'attore in relazione allo spazio, sull'implicazione primaria che c'è fra attore e spazio (Guarino cita le lezioni di Mejerchol'd tratte dagli appunti di Eisenstein, ndr): "L'attore è tenuto a chiarire il proprio atteggiamento positivo o negativo nei confronti del mondo, altrimenti è come una marionetta... Gli attori non devono mandare a memoria la parte, ma ricordarla sulla base della memoria loci, ovverosia una memoria che parta da un luogo, dalla posizione del proprio corpo in un spazio e in un tempo determinato. In palcoscenico il compito principale dell'attore è di avere la precezione di se stesso, del proprio pezzo di corpo nello spazio scenico. é un'assurdita creare il personaggio senza conoscere lo spazio dove avrà luogo l'azione". Quando parla di memoria loci noi lo traduciamo come memoria del luogo; però attenzione, il termine che usa Mejerchol'd è un termine proprio della retorica antica, che non vuol dire la memoria di un luogo fisico, ma è un fattore essenziale della mnemotecnica. Cioè si può ricordare, solo se al ricordo, a qualsiasi frammento della memoria si collega qualcosa di concreto, che nei trattati di mnemotecnica corrisponde a un luogo. Per poter ricordare i momenti essenziali di una orazione gli oratori dovevano costruire nella loro mente un percorso di luoghi corrispondenti ad argomenti, persone, azioni necessarie per il loro discorso. Quando si parla di memoria loci si parla di un corpo in un tempo determinato, ma il termine che usa Mejerchol'd riguarda un percorso di immagini, anzi di luoghi interiori che servono a memorizzare. Inoltre la frase "è un'assurdità creare il personaggio senza conoscere lo spazio dove avrà luogo l'azione", fa parte della relazione edipica di Mejerchol'd con Stanislavskij, suo maestro che ha impostato fattori e scelte determinanti della ridefinizione del lavoro dell'attore su un certo tipo di lavoro in relazione al personaggio, che astrae dalle condizioni di rappresentazione, crea uno spazio ulteriore o anteriore, psicologico, anche nel suo esprimersi fisicamente, autonomo rispetto allo spazio della rappresentazione. Allora che cos'è la memoria di un luogo e come lavora la memoria dell'attore nel luogo? Che cosa vuol dire essere attore in uno spazio? E chi e cosa decide riguardo a questa relazione? Qual'è il tempo dello spazio scenico (domanda emersa prevalentemente a proposito della relazione tra la costruzione, la composizione del luogo e il racconto, la narrazione verbale o agìta dall'attore attraverso lo spazio e l'azione, ndr)? Che cosa vuol dire il presente dello spazio e nello spazio? Esiste uno spazio della parola, del suono, dell'immagine che genera un'attitudine particolare nella composizione del luogo? Lo spazio scenico nella nostra cultura è uno spazio guardato, oppure possiamo dire è uno spazio cercato come luogo di incontro; se accettiamo questa definizione, che cosa si mette in scena? Che cosa vuol dire, rispetto allo spazio, mettere in scena l'attenzione dello spettatore? Oppure, che cosa vuol dire mettere in scena un luogo? In che misura la trasformazione del luogo interessa il vostro lavoro? L'ultima domanda la introduco con una citazione da Eisestein: intorno al 1940, scrivendo le sue memorie, Eisenstein ricorda gli anni in cui faceva teatro, i primi anni '20, un'epoca rispetto al momento in cui scriveva separata da una delle più straordinarie esperienze di cinema come creazione artistica, come riflessione estetica che abbia inciso non solo nel fare ma anche nel discorso sul processo creativo; l'estetica pratica di Eisenstein è quella più organica che ci resta come eredità. Scrivendo le sue memorie, appunto, ricorda gli anni del cosiddetto comunismo di guerra, dei suoi pochi ma significativi spettacoli, e definisce in un certo modo il lavoro che lui, ma con lui Eivrenov, Mejerchol'd e Vagtangov, profondevano con comunità intere di artisti interessati al fatto teatrale; e spiega con una frase di straordinaria incisività quella che si chiama la mania del teatro, l'attorismo, quella specie di fame che caratterizzava gli anni intorno al 1920. Dice Eisenstein: "Noi che facevamo teatro eravamo nei bassifondi dell'urbanistica". Non penso che sia possibile un'interpretazione univoca di questa frase perchè in realtà è una grande metafora, che ha sia un senso assoluto sia un senso circoscritto al tempo di cui parlava, come è vero di tutte le affermazioni che hanno un senso assoluto. Fare teatro significava essere nei bassifondi non della città, ma nei sotterranei di un'altra dimensione assolutamente ipertrofica, scatenata dagli entusiasmi di quegli anni che era il progetto della città e la ricerca delle leggi sullo spazio dell'esistenza. I bassifondi dell'urbanistica, gli strati inferiori di questa dimensione progettuale erano il teatro. Questo mi collega all'ultima questione, di come lo spazio scenico sia un ponte che mette in relazione non solo con lo sguardo, con lo spettatore, ma con una topografia di luoghi nella prospettiva di una necessità dello spazio scenico come relazione dello spazio vitale e lo spazio del teatro, come punto di intersezione tra lo spazio vitale e lo spazio del teatro. Può esistere uno spazio specifico della preparazione dello spettacolo e in che rapporto sta con la preparazione e con l'attuazione dell'allestimento? Che cosa si trasmette dell'esperienza dello spazio scenico?".

Lorenzo Bazzocchi: "Mi dice molto lo spazio vitale perchè è quello che in qualche modo da sempre ci ha spinto ad avere una relazione di scambio, se effettivamente per spazio vitale si intende una riflessione sull'operare e l'essere teatrante. Vorrei parlare di "Crisalide" come del tentativo di creare dei luoghi di relazioni. Questo è un momento che noi sentiamo aperto a certe considerazioni relative a un modo intimo di scambio. Da un incontro avvenuto lo scorso anno a conclusione del festival, emerse la volontà di mettere in comune le nostre esperienze. Ora, avendo vissuto queste quattro giornate, mi ha colpito molto la fragilità del contatto che si stabilisce nel porgere agli altri un proprio mondo. Spazio vitale: credo che questa espressione riguardi da vicino il progetto che ci ha portati qui, a incontrare Thierry Salmon".

Fulvio Ianneo: "Ogni spettacolo è anche un territorio di scoperta, avviene uno spostamento dove è in bilico il pensiero, per cui il nomadismo, l'aprirsi a territori che prima non si conoscevano, è un problema anche politico, visto che agli artisti in un certo senso è imposta la stanzialità. Ci sono delle limitazioni che vengono interiorizzate e diventano autolimitazioni; io, per esempio, soltanto quest'anno per la prima volta ho avuto la necessità di portare in giro gli spettacoli con un furgone, perchè per motivi strategici ho sempre fatto in modo che tutto il materiale dello spettacolo entrasse in una macchina. Questo ha prodotto che per me lo spazio degli spettacoli si identificasse con la luce, lo spazio è la luce. Ho citato uno spettacolo su Kafka che era costruito tutto su un controluce e poi uno spettacolo su Balzac, che si basava sull'accecamento, cioè l'azione dell'attore si svolgeva sotto una luce intensa. Io sento la materialità del mio corpo quando ho una luce molto vicina, e nello stesso tempo diventa anche lo spazio. Anche se non mi sono posto un problema di spazialità, quando ho affrontato l'Amleto, e Amleto non è un personaggio è una drammaturgia, mi sono chiesto che cosa era Amleto, perchè in sostanza Amleto è niente per cui trovo che sia un personaggio irrappresentabile e in qualche modo dovevo cercare la metafora della irrappresentabilità, e l'ho trovata nel contrasto di un attore che non voleva fare il personaggio, negandosi alla rappresentazione. Totò diceva che quando faceva uno spettacolo ad un certo punto avrebbe voluto volare, volare in platea: questo per me è un modo di pensare allo spazio. Quando uno fa uno spettacolo supera una prova; il concetto di prova attiene all'idea di spettacolo vitale, cioè che supera la ripetitività della rappresentazione".

Fabrizio Arcuri: "Se lo spettacolo è una prova, evidentemente è un tentativo di risposta a delle domande che ti sei posto?".

Fulvio Ianneo: "Nel momento che faccio uno spettacolo mi pongo due domande principali: la prima riguarda la necessità esistenziale e l'altra una necessità tecnico-linguistica. Se penso alla domanda che cos'è lo spazio scenico, se uno spazio guardato o uno spazio d'incontro, dico che per me sono tutte e due le cose. Faccio l'esempio del lavoro che presentiamo qui a Bertinoro (lo spettacolo ha il titolo Poemetto assassino, un'incursione nella psicologia della protagonista Ross, interpretata da Anna Amadori, che all'interno di una stanza attende la sua vittima; tagli di luce di complicità con i suoi incubi, asprezza da triller metropolitano, mentre Truffaut è nell'atmosfera, ndr). Un giorno mi è venuta in mente una figura e una situazione, una situazione di morte. Nella mia immaginazione ha preso corpo una figura, Aristotele dice che tutti cercano la felicità e questa persona probabilmente cerca la felicità nel modo sbagliato. é una storia. In pratica, per tenere in piedi questa immagine ho scritto una piccola storia. Mi sono posto il problema di come e dove trasmettere questa sensazione. Può uno spazio, un movimento diventare una partitura nella quale un attore costruisce una sua dimensione interna e non viceversa, ci può essere una dialettica fra queste cose?".

Lorenzo Bazzocchi: "Per me lo spazio scenico è una presenza nell'opera, considerando inessenziali le parole in questo quadro senza cornice".

Enrico Bagnoli: "Lo spazio scenico come esperienza di lavoro è forse l'elemento più difficile da formalizzare, in quanto non esiste una traccia scritta, una riflessione come invece c'è negli studi sull'attore. Io vengo da un'esperienza lavorativa diciamo tradizionale, ho fatto il macchinista, ho lavorato con le compagnie classiche: il sapere, quel sapere materiale l'ho appreso da altri. Quindi il lavoro sullo spazio scenico per me si sposta sull'apprendimento e non credo che si possa imparare in una scuola. Ho sempre avuto l'esigenza di cambiare spesso il gruppo con il quale lavorare, rapportandomi a persone diverse".

Angus Farquhar (regista del gruppo N.V.A. di Glasgow): "La prima sensazione nella scelta dello spazio è motivata dall'approccio, dal volerlo vivere, percorrere, conoscere in modo da imparare la qualità di questa prima emozione che lo spazio produce, che è poi quella che rimarrà nel rapporto con lo spazio. Un secondo punto importante riguardo allo spazio è l'introduzione della tecnologia, cioè se si produce tecnologia in uno spazio aperto, questo fatto dà certamente un tipo di impostazione allo spettacolo, mentre se si produce in uno spazio ad esempio a carattere industriale, magari lì il rapporto è più naturale. Se nel lavoro si parte dal punto di vista che lo spazio è importante, l'attore deve essere come un camaleonte per conviverne le parti con la struttura e anche per valorizzare i suoi elementi. Per quanto mi riguarda fare uno spettacolo all'esterno è una scelta, anche politica. Si tratta di tornare indietro nel tempo, recuperare un rapporto con ciò che ti sta di fronte e guardarlo in modo religioso e la tecnologia viene usata in modo sovversivo, cioè per sovvertire la realtà del luogo; si tratta di ritrovare la relazione tra l'essere che è diventato urbano e l'ambiente che lo circonda, dalla tua prospettiva stabilire questa nuova connessione, fare una traslazione con la tua realtà odierna".

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