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lunedì 7 e martedì 8 febbraio | Laboratori DMS - Teatro
MONI OVADIA
COSMOPOLITA DELLA SCENA ITALIANA
a cura di Marco De Marinis
MONI OVADIA
COSMOPOLITA DELLA SCENA ITALIANA
a cura di Marco De Marinis
Salomone
Ovadià, detto Moni Ovadia, è da tempo uno degli artisti di teatro più
importanti e al tempo stesso più anomali della nostra scena. Lo
confermano anche due prove recenti, entrambe del 2009 e diversissime
fra loro, come Shylock: il mercante di Venezia in prova
(con, fra gli altri, il cantante Shel Shapiro e la Moni Ovadia
Orchestra) e il recital-reading (presentato nel nostro programma) Il registro dei peccati, che invece lo vede solo sul palco, secondo una modalità da lui prediletta.
Definisco Ovadia “artista di teatro” perché ritengo che questa qualifica gli convenga perfettamente ma anche perché sarebbe difficile definirlo altrimenti, cioè ricorrendo alle più specifiche qualificazioni utilizzate di solito nel campo dello spettacolo. In primo luogo, perché tali qualificazioni egli le meriterebbe tutte insieme. Infatti Ovadia è, nello stesso tempo, cantante, musicista, attore, drammaturgo, regista (e, per la verità, molto altro ancora: scrittore, in particolare e sempre di più da una quindicina d’anni, con numerosi libri al suo attivo, alcuni dei quali di notevole successo, e ora anche appassionato opinionista: penso, in particolare, alla sua rubrica settimanale su “L’Unità”; e inoltre: etnomusicologo, filosofo, studioso di mistica ebraica). In secondo luogo, perché tutti questi “ruoli” artistici egli li interpreta in modo quasi sempre molto anomalo, appunto, rispetto alla norma dello spettacolo italiano (e non solo).
C’è naturalmente un dato fondamentale alla base del “caso Ovadia”, cioè come spiegazione primaria (anche se non unica) della sua irriducibile diversità nella scena italiana. E questo dato va senza dubbio individuato nella cultura orale e musicale d’estrazione ebraica, e più specificamente yiddish, a cui Ovadia, ebreo di natali bulgari (nasce a Plovdiv, nel 1946, ma a soli quattro anni si trasferisce in Italia, a Milano, con la famiglia), appartiene o alla quale - più esattamente - riscopre, da un certo momento in poi, di appartenere. Il suo originale, inconfondibile, affascinante modo di fare teatro, di stare in scena, di comporre gli spettacoli, viene – in gran parte - da lì: cioè affonda le radici nella teatralità yiddish (si pensi alle irresistibili storielle di Oylem Goylem [1993] e di tanti altri lavori) e nella musica klezmer, con i suoi vari filoni: liturgici, paraliturgici e profani.
Tuttavia, spesso si insiste troppo – a mio parere - nel fare di Ovadia unicamente l’esponente-testimone di un teatro e di una cultura in via d’estinzione, quella yiddish appunto, proponendolo come un estremo campione della Yiddishkeit. Ora, ciò è verissimo, naturalmente. Ma, fermandosi solo a questo aspetto, si rischia di avere una comprensione troppo parziale (e quindi anche distorta) del fenomeno Ovadia e di non riconoscergli fino in fondo i meriti e l’importanza che gli spettano nel teatro contemporaneo.
A mio modo di vedere infatti (al di là della circostanza indiscutibile che si tratta dell’unico caso di vero cosmopolitismo della scena italiana contemporanea), il lavoro di Moni Ovadia appartiene almeno altrettanto al nuovo teatro occidentale, e in specie italiano, novecentesco e post-novecentesco, allo stesso modo in cui ne hanno fatto e ne fanno ancora parte, da noi, personaggi come Carmelo Bene, Leo
de Berardinis, Carlo Cecchi, Dario Fo. E fuori d’Italia: Brook, Grotowski, Kantor, Living Theatre, Pina Bausch, per non citare che alcuni dei più celebri.
Definisco Ovadia “artista di teatro” perché ritengo che questa qualifica gli convenga perfettamente ma anche perché sarebbe difficile definirlo altrimenti, cioè ricorrendo alle più specifiche qualificazioni utilizzate di solito nel campo dello spettacolo. In primo luogo, perché tali qualificazioni egli le meriterebbe tutte insieme. Infatti Ovadia è, nello stesso tempo, cantante, musicista, attore, drammaturgo, regista (e, per la verità, molto altro ancora: scrittore, in particolare e sempre di più da una quindicina d’anni, con numerosi libri al suo attivo, alcuni dei quali di notevole successo, e ora anche appassionato opinionista: penso, in particolare, alla sua rubrica settimanale su “L’Unità”; e inoltre: etnomusicologo, filosofo, studioso di mistica ebraica). In secondo luogo, perché tutti questi “ruoli” artistici egli li interpreta in modo quasi sempre molto anomalo, appunto, rispetto alla norma dello spettacolo italiano (e non solo).
C’è naturalmente un dato fondamentale alla base del “caso Ovadia”, cioè come spiegazione primaria (anche se non unica) della sua irriducibile diversità nella scena italiana. E questo dato va senza dubbio individuato nella cultura orale e musicale d’estrazione ebraica, e più specificamente yiddish, a cui Ovadia, ebreo di natali bulgari (nasce a Plovdiv, nel 1946, ma a soli quattro anni si trasferisce in Italia, a Milano, con la famiglia), appartiene o alla quale - più esattamente - riscopre, da un certo momento in poi, di appartenere. Il suo originale, inconfondibile, affascinante modo di fare teatro, di stare in scena, di comporre gli spettacoli, viene – in gran parte - da lì: cioè affonda le radici nella teatralità yiddish (si pensi alle irresistibili storielle di Oylem Goylem [1993] e di tanti altri lavori) e nella musica klezmer, con i suoi vari filoni: liturgici, paraliturgici e profani.
Tuttavia, spesso si insiste troppo – a mio parere - nel fare di Ovadia unicamente l’esponente-testimone di un teatro e di una cultura in via d’estinzione, quella yiddish appunto, proponendolo come un estremo campione della Yiddishkeit. Ora, ciò è verissimo, naturalmente. Ma, fermandosi solo a questo aspetto, si rischia di avere una comprensione troppo parziale (e quindi anche distorta) del fenomeno Ovadia e di non riconoscergli fino in fondo i meriti e l’importanza che gli spettano nel teatro contemporaneo.
A mio modo di vedere infatti (al di là della circostanza indiscutibile che si tratta dell’unico caso di vero cosmopolitismo della scena italiana contemporanea), il lavoro di Moni Ovadia appartiene almeno altrettanto al nuovo teatro occidentale, e in specie italiano, novecentesco e post-novecentesco, allo stesso modo in cui ne hanno fatto e ne fanno ancora parte, da noi, personaggi come Carmelo Bene, Leo
de Berardinis, Carlo Cecchi, Dario Fo. E fuori d’Italia: Brook, Grotowski, Kantor, Living Theatre, Pina Bausch, per non citare che alcuni dei più celebri.
MONI OVADIA
COSMOPOLITA DELLA SCENA ITALIANA
a cura di Marco De Marinis
lunedì 7 febbraio, h 21
Laboratori DMS - Teatro
Il registro dei peccati
rapsodia lieve per racconti, melopee,
narrazioni e storielle
Recital-reading sul mondo khassidico
martedì 8 febbraio, h 10
Laboratori DMS - Teatro
La voce e il canto nel teatro di Moni Ovadia
Incontro-seminario con Moni Ovadia
INGRESSO LIBERO
COSMOPOLITA DELLA SCENA ITALIANA
a cura di Marco De Marinis
lunedì 7 febbraio, h 21
Laboratori DMS - Teatro
Il registro dei peccati
rapsodia lieve per racconti, melopee,
narrazioni e storielle
Recital-reading sul mondo khassidico
martedì 8 febbraio, h 10
Laboratori DMS - Teatro
La voce e il canto nel teatro di Moni Ovadia
Incontro-seminario con Moni Ovadia
INGRESSO LIBERO