Il concerto del duo pianistico Poccia – Cattabiani, previsto il 20 marzo nell'Aula Absidale di Santa Lucia, è annullato causa grave lutto occorso al Maestro Poccia.
martedì 20 marzo, h 21 | Aula absidale di Santa Lucia
EN BLANC ET NOIR
Duo pianistico Domenico Poccia - Barbara Cattabiani
Nella Parigi del primo Novecento accadeva spesso che opere nate per duo pianistico conoscessero una versione orchestrale o che, viceversa, trasmigrassero dall’orchestra alla tastiera, circolando così sia nelle grandi sale da concerto, sia nei salotti frequentati dalla nuova borghesia e dall’élite artistica. Non si sottrassero a questa prassi Debussy e Ravel, e nel duplice senso: dell’uno ascolteremo il celebre trittico sinfonico nella trascrizione autografa per pianoforte a quattro mani; dell’altro, altrettanto celebri pagine concepite originariamente per duo pianistico e solo dopo orchestrate.
La Mer, composta tra il 1903 e il 1905, è uno dei capolavori orchestrali del XX secolo. Sebbene i tre schizzi sinfonici siano accompagnati da titoli descrittivi, essi non sono da considerare un esempio di musica a programma nel senso fino ad allora conosciuto del termine. L’autore stesso parla di tentativo «non di diretta imitazione, ma piuttosto di catturare l’invisibile sentimento della natura». L’intera opera è giocata sul filo della memoria dell’ascoltatore, il quale, sommerso da un pelago di sonorità e idee musicali, «con l’aiuto dell’immaginazione, ricostruisce l’insieme dai dettagli», e puo’ «provare piacere da questa ricostruzione» (Boutarel). Il primo schizzo dipinge il mare albeggiante, che dal silenzio placido si sveglia per arrivare progressivamente, attraverso la proposizione, ripetizione e intersecazione di frammenti tematici, all’inondazione di luce del meriggio. Di seguito, il mobile gioco di onde si materializza tramite lo scintillio di discontinue figurazioni ritmiche e melodiche che lasciano intuire accenni a passi di danza (possono distinguersi un valzer, una tarantella ed un bolero), salvo poi inabissarsi nella quiete marina. L’ultimo episodio si apre ancora all’insegna della frammentarietà, ma, dopo un’introduzione animata e tumultuosa, un tema longilineo ed apneico farà il suo ingresso, e condizionerà l’andamento di questo dialogo fino all’esplosione sonora finale.
La versione per pianoforte a quattro mani della Rapsodie espagnole risale al 1907; l’anno dopo Ravel ne ricava il suo primo grande lavoro orchestrale. L’opera riflette la profonda influenza dell’eredità musicale derivata al compositore da sua madre, di origine basca. Un misterioso ostinato di quattro note, di profumo andaluso, ingabbiato in un ritmo ternario e ripetuto ossessivamente, è alla base della costruzione dell’intero Prélude à la nuit. Dalla medesima figura, che verrà riproposta ciclicamente nel corso della Rapsodia, scaturiscono anche i languidi slanci melodici. La breve Malagueña si apre con un disegno decisamente ritmico, dal quale nasce una melodia caratterizzata dalla tipica terzina spagnola. Tra sensibili oscillazioni di tempo, monta il primo grande crescendo dell’opera, seguito da una melodia tzigana, composta quasi esclusivamente da cadenze ornamentali, che dopo appena sei battute viene zittita dall’ostinato del Prélude, contrapposto al ritmo iniziale del brano. La Habanera, composta nel 1895, e già allora ammirata da Debussy, è un capolavoro di spossatezza e seduzione. Un ritmo leggero, scandito da ipnotici rintocchi, culla una melodia di sapore modale, caratterizzata dall’alternanza tra terzine e duine. Feria, ultimo episodio, ha una struttura tripartita: al centro una sezione lenta in stile lirico improvvisativo, in cui ancora riecheggia l’ostinato; ai due estremi una jota, tipica danza spagnola, che scatena tutta la potenza dinamica sin qui risparmiata, lanciandosi verso il turbinoso crescendo finale, quasi ad anticipare i toni parossistici della Valse. Quest’ultima, un poema coreografico già ideato nel 1906 con il titolo Wien, ma completato solo nel 1920, è «un omaggio alla memoria del grande Strauss» e al Valzer viennese. Come Ravel teneva a precisare, la musica venne scritta pensando alla scena, inizialmente commissionata dal coreografo russo Djagilev che, dopo averne ascoltata l’esecuzione, ebbe a dire: «È un capolavoro, ma questo non è un balletto, è il dipinto di un balletto». Il poema è divisibile in due parti distinte. Nella prima, da un magma di sonorità pressoché impercettibile, si materializzano progressivamente diversi temi di valzer, almeno sette, a tratti graziosi e nostalgici, a tratti più energici, spesso interrotti bruscamente da figurazioni violente. Nella seconda parte, che principia di nuovo da una bruma sonora indistinta, l’elemento energico prende decisamente il sopravvento, fino al prevalere di un moto sempre più vorticoso e ripetitivo, che risuona come l’apoteosi e la morte stessa del Valzer.
Lorenzo Orlandi
Laurea magistrale in Discipline della Musica
coordinamento e redazione
Anna Quaranta