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Palazzo Marescotti Brazzetti

Scheda storica, artistica, architettonica

 


Palazzo in una città  di palazzi

“Palazzo in una città di palazzi”: con questa felice immagine Anna Maria Matteucci intitolava l’introduzione al suo saggio monografico su palazzo Marescotti Brazzetti. Non è un’osservazione generica: non tutte le città sono città di palazzi. Piacenza lo è; non lo sono Modena e Parma. E si può ricordare il famoso commento di Jan Blaeu (1640), che notava – non senza meraviglia – il cospicuo numero e lo splendore dei palazzi bolognesi, attribuendo proprio ad essi la scelta di Carlo V di fare di Bologna la sede della propria incoronazione.
Su questo numero e questo splendore, spesso tutto da scoprire dietro le austere facciate in qualche misura omologate dai lunghi portici allineati – una morfologia architettonica, com’è noto, anch’essa tutta bolognese -, oggi la meraviglia non è più giustificata. Bologna infatti non aveva una corte, bensì un “governo misto” fra Cardinal Legato, che governava in nome del papa, e famiglie senatorie. A questo governo le diverse famiglie patrizie, pur tenendo spesso nei confronti del Legato un atteggiamento di “contrapposizione dialettica”, speravano di giungere a partecipare. E un sontuoso palazzo era un’ottima carta, l’immagine concreta dell’importanza di una casata.


Il palazzo
All’epoca di Carlo V palazzo Marescotti era ancora lontano dallo splendore odierno, che acquisì a fine Seicento (1680). Lo documentano le notizie archivistiche che ci restano, efficacemente esplorate nel citato volume da Anna Maria Matteucci e Francesca Montefusco Bignozzi, che ci offrono altresì un affascinante spaccato della vita della città e della famiglia.
L’origine dei Marescotti è modesta: a dispetto della tradizione encomiastica familiare che li voleva discendenti dell’eroe Mario Scoto (Mario di Scozia, sec. VIII), essi esercitavano in origine il mestiere di lardaroli, tenendo bottega di fianco alle loro case, all’angolo tra via Barberia e via Collegio di Spagna, dove poi è documentata fin dal Seicento una speciaria.
Una famiglia Calvi, originaria della valle del Lamone e giunta a Bologna nel 1272, aveva infatti assunto il nome di Marescotti da uno dei protagonisti delle sanguinose guerre bolognesi del ’400, Galeazzo, rimasto sempre fedelissimo alleato di Annibale Bentivoglio, benché terribili vicende subìte dalla famiglia ad opera dei Bentivoglio avrebbero potuto autorizzarlo al tradimento. Sarà invece il figlio Ercole a fare vendetta dei torti patiti: passato al nemico, papa Giulio II, sarà tra i principali fautori della rovina dello splendido palazzo bentivolesco.
I primi atti notarili noti documentano che proprio Ercole suddivise le zone di abitazione fra i vari esponenti della famiglia, mantenendo peraltro alcune parti comuni: gli ingressi, le scale, i cortili: un vero e proprio “condominio nobiliare”. Secondo alcuni documenti successivi, sembra che sarebbe stata consentita anche l’alternanza nell’assegnazione dell’appartamento più significativo, in conseguenza di eventuali prestigiosi incarichi ufficiali. Nei primi anni del ’500 il palazzo è comunque un aggregato di episodi edilizi minori; su di esso le lotte cittadine culminate nel famoso “guasto”, ossia nella distruzione di palazzo Bentivoglio (1508), lasciarono per giunta un’impronta devastante (per le ritorsioni della fazione Bentivoglio). A parziale risarcimento di questi danni viene eccezionalmente e velocemente concessa una sovvenzione pubblica che rende possibile la trasformazione di questi ambienti in un palazzo rinascimentale (sia pure rimasto incompiuto). Viene realizzata una facciata interamente porticata, che per l’angustia di via Barberia sottrae l’edificio al vincolo della centralità e lo lascia aperto a successive addizioni e ristrutturazioni: è la risposta tipicamente bolognese, quanto mai pragmatica, al diverso orientamento delle architetture fiorentina e romana, prive di portico e ben isolate nel contesto cittadino. A Bologna simili imprese si realizzano non con accenti monumentali, bensì curando la preziosità e la varietà dei particolari architettonici, come i capitelli, particolarmente importanti per l’abitudine dei portici di cui si diceva: capitelli di uno stile “corinzio” fantastico, con stemmi nobiliari – nel blasone Marescotti figura un leopardo d’oro rampante in un campo di fasce rosse e argento, più tardi inquartato con l’aquila imperiale – incastonati fra racemi, gorgoni e mascheroni, cornucopie, ippogrifi, frutto dell’innesto del decorativismo padano (principalmente ferrarese e lombardo) su più sobri esempi toscani: il nostro palazzo si fregia di una serie bellissima di simili capitelli. In più c’è un riferimento “sotteso” al “guasto” bentivolesco, non solo in quel portale – è proprio il portale del nostro Dipartimento – che si dice sottratto alla distruzione dell’antico palazzo Bentivoglio, ma anche nell’originario numero delle campate dei portici, del tutto corrispondente a quello di quel palazzo: che fu l’unico e l’ultimo palazzo ad avere a Bologna un effettivo risalto esteriore. Citazioni probabilmente dovute a un sentimento di orgogliosa rivalsa nei confronti del papa, col quale l’accordo di Ercole era durato pochissimo (tant’è vero che fu probabilmente ucciso su istigazione dello stesso Legato).
Più difficile è immaginare la qualità del decorativismo delle finestre, che alla data proposta dai documenti, 1546, doveva aver perso la ricchezza e la libertà di cui abbiamo parlato, per acquisire accenti di più sobria e contenuta razionalità. Non potendo conoscere altre imprese edilizie di chi realizzò e diresse questi lavori, Giovanni Beroaldo, non è dato di suffragare quest’ipotesi con le necessarie documentazioni. E fino al 1680 non abbiamo notizia di altri lavori.


La ristrutturazione nel 1680
Negli anni ’80 del Seicento assistiamo a una vera corsa a dilatare, a volte enfaticamente, gli spazi interni di numerosi palazzi bolognesi; in palazzo Marescotti gli esiti di questa corsa sono particolarmente felici. L’assetto attuale degli spazi monumentali è opera principalmente dell’ultimo dei Marescotti del ramo senatorio, l’ambizioso e colto Raniero (1640-1690).
Educato alla corte medicea, era stato prima paggio e poi gentiluomo del granduca Cosimo III, e su di lui si ressero gli amichevoli rapporti, anche culturali, che intercorsero tra Bologna e Firenze. Con la costruzione di questo palazzo Raniero si lasciava definitivamente alle spalle le precedenti faticose tappe della propria ascesa politica: aveva infatti rischiato addirittura la pena capitale, per l’accusa di un omicidio legato a faide familiari. Graziato da Clemente IX Rospigliosi, il papa letterato – com’è noto, si trattò d’uno dei più importanti drammaturghi del Seicento –, aveva soggiornato, oltre che a Venezia, anche nell’Urbe (certamente almeno dal 1676 al 1679), avvicinando ambienti ricchi di nuovi fermenti culturali e filosofici antireligiosi e libertini. Tornato in patria, s’impegnò risolutamente per ottenere il gonfalonierato: l’impresa non gli riuscì, ma riuscirà poi al nipote Filippo Aldrovandi Marescotti, suo erede universale, nonché compagno nelle sue scorribande libertine romane. Ma l’impresa più importante di Raniero Marescotti resta la ristrutturazione del palazzo, anche se concepita in funzione strumentale alle aspirazioni politiche, come risulta chiaramente da una testimonianza resa in un processo istituito dopo la sua morte. Una ristrutturazione iniziata non appena le trattative per il matrimonio di Filippo con la ricca contessa Elena Pepoli si poterono dire concluse, e cioè nel 1680, e conclusa solo nel 1687; una ristrutturazione voluta e realizzata nel segno dell’edilizia bolognese, mentre i numerosi contatti e viaggi a Firenze e Roma gli avrebbero potuto consentire soluzioni diverse, magari anche più splendide.
L’architetto bolognese Gian Giacomo Monti, una figura di notevole levatura sociale ed economica – gli viene riconosciuta, tra l’altro, l’impresa dei portici di S. Luca e dei saloni di villa Albergati a Zola Predosa, nonché una precedente continuativa attività come scenografo presso la corte Estense e i Gonzaga – è incaricato in particolare, per dirla con le sue stesse parole, della trasformazione di una casa ordinaria in un palazzo da cavalliere e senatore. Liberamente interpretando uno spunto veneziano, Monti creava la loggia tangente al cortile d’onore, raccordando l’uno all’altra per mezzo di uno scalone monumentale a due rampe simmetriche e opposte: una soluzione di grande effetto, stante l’esiguità dello spazio disponibile. La loggia, trasformata in tal modo in un aulico palco, ma anche vera antisala prima degli appartamenti nobili, sarà in seguito ripresa anche in esempi stranieri, come quello, supremo, del castello di Bruchsal (Balthasar Neumann).
Come osserva Anna Maria Matteucci, anche a motivo di questo palazzo, la cultura bolognese di fine Seicento può vantare di avere messo a punto le soluzioni in questi anni più prestigiose d’Italia. A garanzia di una vocazione edilizia che non si esaurisce nell’esaltazione dei talenti locali o nella pura progettazione, ma che al contrario si propone come progetto di un’architettura “globale”, coadiuvarono il Monti alcuni maestri comacini (Carlo Perti, Domenico Barelli) e stuccatori davvero straordinari come Carlo Francesco Piazza e Giovan Filippo Bezzi detto il Giambologna, che si dimostra al corrente della ricca produzione decorativa romana, per esempio quella di Giovanni Paolo Schor, il migliore in questo campo (a giudizio del Bernini).
A tanto splendore corrisponde puntualmente l’importanza dei sontuosi arredi, della quadreria (che ospita autori come Guido Reni, il Veronese, il Mastelletta e diversi altri, nonché copie antiche del Perugino, di Raffaello, di Tiziano e del Correggio) e della biblioteca, ricca di 2400 volumi, con cinquecentine e volumi di pregio, in cui tutte le discipline di un uomo colto e avvertito come Raniero possono dirsi rappresentate.
Dopo Raniero le fortune dei Marescotti, parallelamente a quelle di molte altre famiglie bolognesi, declinarono. Assistiamo a molte monacazioni e ordinazioni sacerdotali, incontriamo molte vite dedicate alla carriera delle armi. L’ultimo evento ospitato dal palazzo fu un sontuoso ballo offerto dalla famiglia nel 1726 in occasione della visita a Bologna del Pretendente d’Inghilterra, l’esule cattolico Giacomo III Stuart, che i Marescotti, vantandosi discendenti d’un eroe cattolico scozzese, poterono accogliere come se fosse il “loro” sovrano. Il ballo è puntualmente ripreso in una gustosa miniatura delle Insignia degli Anziani.


Programma iconografico
Assai significativo si rivela il programma iconografico delle decorazioni, di senso allegorico-encomiastico, probabilmente ispirato alle tante imprese del genere viste da Raniero a Roma e Firenze: analogamente a queste, i soffitti sono sfondati con le immagini degli dèi dell’Olimpo o con le personificazioni delle Virtù. Li realizzano il classicista Marcantonio Franceschini, allievo del Cignani, in collaborazione con Enrico Haffner; e il più moderno e barocco Domenico Maria Canuti, già attivo nel romano palazzo Altieri, oltre che in importanti lavori bolognesi (nelle volte del convento di S. Michele in Bosco e nel salone di palazzo Pepoli Campogrande), con gli allievi Giuseppe e Antonio Rolli. Le cornici di stucco più contenute si devono a C. F. Piazza, quelle con volute a rigogliosi fogliami con bordi spesso straripanti all’interno e all’esterno, confusi con l’aquila dello stemma Marescotti in un complicato intreccio fitozoomorfo, si devono principalmente al Bezzi.
L’apertura è in certo qual modo polemica: nell’affresco dell’antica Anticamera (oggi aula del Dioniso fanciullo), il soggetto, Giove consegna Bacco fanciullo a Mercurio (per sottrarlo alla furibonda gelosia di Giunone), adombra la vicenda di Raniero, anch’egli “salvato”, fin dall’adolescenza, con l’allontanamento e l’esilio: una visione del Canuti arditamente scorciata di sottinsù.
Il soffitto della Sala dell’Udienza (oggi aula del Camino), opera del classicista Franceschini in collaborazione col quadraturista Haffner, è di soggetto allegorico ed è svolto con accenti più tradizionali e composti: Felsina tra la Guerra e la Pace, incoronata d’alloro dalla Fama, mentre in basso due putti che inghirlandano di fiori un leone e un agnello sono interpreti del comune desiderio di pace: forse una prova dell’influsso del quietismo, diffuso in quegli anni anche a Bologna; ma il senso intrinseco, a detta dei documenti, è la glorificazione di casa Marescotti, che in pace e in guerra aveva saputo dare uomini degni alla patria Bologna.
Altra opera del Franceschini in uno dei camerini, anch’essa allegorica, è la Venere che ha disarmato Cupido e in un altro Tre putti reggenti la chioma di Berenice in monocromo con ricche incorniciature di festoni, volute e mascheroni di un gusto quasi rocaille dovute allo Haffner; l’argomento allude alla destinazione del camerino, luogo di pettinatura della contessa.
Troviamo ancora questa collaborazione tra un figurista e un quadraturista, tipica della prassi artistica decorativa del barocco bolognese, anche nei due fratelli Rolli, Giuseppe figurista e Antonio quadraturista, attivi nel soffitto dell’anticamera dell’alcova (oggi aula delle Colonne), in cui la cornice architettonica racchiude una Fortuna allattante Giove bambino vegliato dall’aquila, mentre i putti in volo gli recano corona e scettro. Qui, come in un passo del ciceroniano De divinatione, si allude alla necessità della fortuna, qual è quella di Filippo precocemente orfano, posto sotto la salda protezione di Raniero (l’aquila); tutt’intorno, in spericolati equilibri, coribanti e ninfe tra cui una, deliziosa, che munge la capra Amaltea. Del tutto appropriata all’alcova, una leggiadra e morbida Venere con due amorini coricata sulle nubi.
Più freddo, perché ufficiale ed encomiastico, è il soffitto del salone Marescotti, dei fratelli Rolli, che sbandiera l’Esaltazione della casa Marescotti. Su un denso strato di nuvole, a destra la Sapienza con la luce che la sovrasta, a sinistra la Gloria che regge in mano una piramide, simbolo delle magnifiche fabbriche dei principi, sostenuta da uno scudo su cui poggiano anche i simboli delle cariche religiose ricoperte dalla famiglia: croce, mitria e pastorale; intorno al vertice della piramide un cerchio, simbolo d’eternità; putti recano corone d’alloro, libri, bastoni di comando, armi, simboli dei diversi ruoli dei Marescotti; la Fama diffonde il tutto dando fiato alla tromba. Nei quattro medaglioni ovali Bologna, Roma, Siena (città dove risiedevano rami della famiglia Marescotti) e la Scozia (da cui l’origine mitica del casato).
Ancora nel Settecento la famiglia riuscì a mantenere un tenore adeguato: lo dimostrano gli affreschi intinti di vivaci cromatismi alla veneta eseguiti da Antonio Giuseppe Caccioli, allievo di Giuseppe Rolli (1709), sulle pareti del salone. Tali affreschi esaltano illustri personaggi ed eventi del casato. Da un lato troviamo così Mario Scoto di fronte al Papa Leone III che combatté i barbari, il Coraggio che calpesta la Serpe dell’Inganno nella veste di un giovane guerriero che reca sullo scudo il motto della famiglia, Sans douter, illuminato dalla Fede; il Merito annaffia la prima radice dei Marescotti mentre il Tempo addita futuri allori. Nella parete di fronte, un episodio storico: Galeazzo e Tideo liberano Annibale Bentivoglio dalla rocca di Varano; poi la Letizia del Reno che mostra una fanciulla col leopardo dell’emblema mentre offre da bere al Reno, ricordando così l’inalveazione del Reno tra Pieve e Cento (1460) voluta dai Marescotti, un’impresa di pubblica utilità che si inquadra forse in un contesto politico e culturale presago dell’illuminismo; e infine Ercole che regge il mondo sulle spalle, che allude alla fatidica impresa di Galeazzo e Tideo. Sulle pareti finestrate esempi di eccellenza della famiglia: il giureconsulto Ludovico; un antico Raniero cardinale; Marcantonio commediografo di un Astreo, una delle prime commedie scritte e anche valente diplomatico al servizio di Carlo V; e infine Sforza, capitano agli ordini dello stesso imperatore. Tutte opere incorniciate da bianchi, armoniosi stucchi.
Come si vede, non pochi temi rimandano alle nostre discipline. E a questo proposito importa ricordare che – così risulta – proprio in questo palazzo, nel 1616, auspice l’Accademico Gelato Bernardino Marescotti appassionato di teatro e musica, avrebbe avuto luogo il primo allestimento di un’opera in musica a Bologna, la famosa Euridice fiorentina del 1600, ripresa dagli stessi autori, Ottavio Rinuccini e Jacopo Peri.


La storia recente

Il complesso architettonico ha subìto in tempi recenti diverse modificazioni. Estinta la famiglia, nel 1947 il palazzo fu acquistato dal Partito Comunista Italiano. Interessato da pesanti ristrutturazioni attuate allo scopo di farne la sede della Federazione Provinciale del PCI e di enti collegati, come l’Istituto Gramsci e la redazione dell’«Unità» di Bologna, reca in alcuni spazi l’impronta di interventi architettonici di qualità, dovuti a Pierluigi Cervellati.
È l’epoca in cui il palazzo torna a vivere un’inattesa fama, pur perdendo nome e identità: per sineddoche, “Via Barberia” – quasi un sinonimo della politica locale – viene spesso contrapposta a ”Via delle Botteghe Oscure”. Declinando la Federazione, il palazzo passa nel 1997 alla più antica e longeva istituzione cittadina: l’Alma Mater Studiorum. Diviene così sede del Dipartimento di Musica e Spettacolo, che trova in esso una giusta collocazione.
Nel 2003 prende avvio la ristrutturazione attuale, il cui scopo primario è di recuperare completamente l’intero complesso monumentale, assicurandone nel contempo la funzionalità per le esigenze del Dipartimento, che in esso può ora finalmente unificare la disgiunta biblioteca.
            

Prof. Elena Tamburini

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