Urlo tellurico che
non ammette per una volta alcuna
morbidezza, ma si leva contro l'attuale
sfacelo come una disperata dichiarazione
d'amore.
Al centro della vicenda di Parsifal
c'è un buco. Il protagonista scompare
per alcuni anni, per alcuni capitoli, e
non sappiamo nulla di ciò che gli
accade. Quando Parsifal ritorna è del
tutto snervato, sfinito, confuso e
disperato. Lascia le briglie del cavallo
e si consegna al destino, a quella mano
invisibile che poi lo guiderà fino al
Graal.
Il buco segnala un tempo misterioso e uno
spazio d'oltretomba: Parsifal viene
torchiato e sottoposto al 'duro
allenamento dei dolori terrestri'. Ed è
lì, in ciò che la storia non vuole o
non può raccontare, che si prepara
quella condizione di totale abbandono, di
disperata prostrazione, grazie alla
quale, a volte, la comprensione si
dilata, e i sensi, come in un bagno di
calce viva, prendono nuovo splendore. È
lì che si guadagna il Graal. Ed è lì,
anche, che il tempo bastona più forte e
si diventa vecchi. È infatti un Parsifal
vecchio ad occupare il centro della
scena, ed è figura che
nell'interpretazione di Danio Manfredini
assume pienamente tutte le qualità
contrastanti che la leggenda suggerisce:
è martire ed è guerriero, è puro ed è
folle, è ebete ed è savio.
Dopo Parsifal piccolo, tutto
radioso e composto, ci siamo inabissati
in quel buco. Quel candore abbagliante
resta come traccia, al di sotto di un
urto militare, guerriero, dove
'maledetto' e 'benedetto' sono
inestricabilmente avvinti.
Ciò che è riemerso è un Parsifal
vecchio e sghembo, in cui follia e
purezza si strattonano continuamente,
nello struggente impatto col dolore.
Attorno a Parsifal un popolo ben strano,
dove ognuno è sommatoria scalena di
archetipi favolosi: Pinocchio e fatina
insieme, ma anche clown bianco, anche
povero e goffo saltimbanco, anche figura
d'oltretomba, anche teatrante di una
scalcagnata compagnia. Qualcuno si stacca
dal mucchio per farsi sagoma recitante di
un personaggio chiave: re Anfortas,
l'eremita, l'irsuta Cundri, la madre. Ma
è sempre recita esagerata. Unica figura
a sé è il Parsifal piccolo che più di
una volta bacia il vecchio Parsifal e gli
consegna la canna del comando, povero
simulacro della sacra lancia sanguinante.
Tutto avviene dentro una potente
battitura ritmica, eseguita dal vivo dal
regista che in questo modo esorta o
smorza il lavoro degli attori, dialoga
con loro, guida la danza. In essa la
musica di Wagner viene dilatata, come
voce di una natura immensa, vulcanica,
sotterranea. E viene anche inceppata,
sormontata da suoni incombenti che
punteggiano tutta la scrittura scenica.
Questo è quanto il Teatro Valdoca
aggiunge alla leggenda incompiuta, che
dopo la morte di Chrétien De Troyes ha
avuto numerosi continuatori: nel
tentativo di compiere questa fiaba e
farne figura della ricerca di ognuno, del
desiderio di beatitudine qui, adesso,
dentro il crudele splendore del mondo.
Lultima
volta che ti ho incontrata mi hai
detto che stai lavorando
sullidiozia
Sto
lavorando sull'idiozia. Mi chiedo
come mai, mentre da un lato si
esaltata l'intelligenza e la
ragione, dall'altro compare
puntualmente nella storia e nelle
religioni la figura dell'idiota
benedetto, del sacro folle. È
una figura che va nella direzione
opposta rispetto agli sforzi che
tutti noi compiamo per fare
funzionare le nostre vite.
Essa,
la figura dell'idiota, non fa
sforzi, tutto le è regalato, è
gioiosa, amata dagli dei, compie
prodigi. La si trova come residuo
nelle fiabe, poi nel vecchio
testamento e nel nuovo, in alcuni
miti.
Penso
a Parsifal: vorrei riscriverlo
per la scena. E però con molta
libertà, trascurando i cavalieri
della tavola rotonda, re Artù,
tutta la pregnanza cristiana che
la vicenda ha assunto, tutto
l'esoterismo da due soldi che è
cresciuto intorno al Graal.
Il ricordo di Biancofiore e
l'arrivo dei cavalieri. Purezza e
dolore, candore e porpora,
contemplazione e azione.
Contrasto tra il colore e
l'assenza del colore: risiede in
questi simboli, anteriori alla
parola, il ponte, l'innesto tra
il regno del sangue e il regno
dello spirito, tra sostanza e
vuoto?
Penso
al punto in cui Parsifal ricorda
la sua sposa. Parsifal vede sulla
neve tre gocce di sangue. I
colori del sangue e della neve
gli riportano al cuore il
colorito di Biancofiore, quella
carnagione candida, quelle guance
e labbra rosse. Allora Parsifal
cade in una specie di estasi da
cui nessuno riesce a svegliarlo.
Arrivano uno dopo l'altro vari
cavalieri, lui si batte contro
ognuno come un automa: ogni volta
vince e ogni volta torna alla sua
contemplazione. Si risveglierà
solo quando qualcuno getterà un
panno sulle tre gocce,
interrompendo così la visione.
Non
ci sono parole. Parsifal è
ammutolito di nostalgia, nel
dolore della nostalgia.
Ammutolisce per troppa dolcezza,
per troppa mancanza, per troppo
orrore di quella mancanza, per
troppa enigmaticità: perché si
trova separato da quel bene
immenso, da quel candore, da quel
rossore?
Nella prefazione di Umano
troppo umano, Nietzsche
affronta a un certo punto il tema
dello "Spirito libero":
si può dire, afferma, che uno
spirito libero abbia avuto il suo
evento decisivo in una
"grande separazione"...
È
difficile qui non pensare ai
mistici, a San Giovanni della
Croce, ad esempio. Difficile non
pensare che quella sposa non sia
tutt'uno con l'anima di Parsifal.
E a questo punto della vicenda
Parsifal è così lontano dalla
propria anima, dal proprio
centro, dalla propria foresta
interiore, che quella apparizione
è un luogo in cui cade a picco,
un luogo molto bello, con molta
promessa.
In una Corona rivolgi
una domanda terribile e
commovente:
"Come
ti chiami, come chiami a
te?"
Una
domanda che suona perentoria come
solo un richiamo può essere.
Anche per Parsifal?
Il
desiderio di quel luogo, la sua
mancanza sentita con quella
intensità, hanno per Parsifal la
stessa perentorietà di una
vocazione. È una chiamata a cui
non si potrà sottrarre. Un
desiderio rovesciato, una
violenta necessità di
obbedienza.
Da
bambino rimasi colpito dalla
scelta di nudità di San
Francesco, di fronte al padre e
ai potenti del suo rango
altolocato.
La
misura di purezza che può
attraversare Parsifal non ha
veste, né parola, né
significato?
Io
per ora non oso immaginare
neppure una parola, né sulla
bocca di Parsifal, né di qualche
altro osservatore. Forse solo
parole scritte.
Wagner
mi sembra abbia espunto tutta la
scena. Ed è strano, se è così.
perché oltre che la mistica,
c'è qualcosa che ricorda anche
la buddità: qui Parsifal sembra
un Buddha illuminato.
La
tua semplicità mi convince: vedo
un Parsifal, chiamato al vuoto,
all'omesso, pervaso, obbediente
alla radice. La foresta, poi...
habitat della radice, luogo del
viaggio mistico... Vedo Dante
nella selva, e vedo Buddha, che
inerte riceve la luce, sotto a un
centenario albero di fico......
A
partire da questa scena si
potrebbe leggere l'intera vicenda
come interrogazione del mondo
medievale su un altro modo di far
funzionare la mente, su quel modo
intorno al quale tutto l'oriente
si è tanto applicato, e primo
fra tutti il buddismo Zen. Qui mi
piace pensare, con uno sguardo
molto poco storico, che forse
crociati e paladini, nelle loro
incursioni in terra santa e
dintorni, incontrarono quei
monaci vaganti, quei pellegrini
di Dio, quei Sadhu e Guru che
allora erano forse esattamente
come noi li possiamo veder ora.
Come?
Quelle
figure in piedi su una sola gamba
da anni, quei corpi sepolti vivi,
quei guaritori, quei santi, quel
loro poco agire, quelle lunghe
sedute contemplative... Qui
davvero Parsifal ricorda anche
San Francesco, con quelle sue
cadute in estasi così repentine
e fuori luogo.
[da:
Conversazioni con Mariangela
Gualtieri, di Francesco
Scarpelli, "Culture
Teatrali", 2/3, 2000, pp.
136-138]
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