Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna La Soffitta 2003 - TEATRO
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LA SOFFITTA 2003
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facoltà di lettere e filosofia
16 gennaio - 13 aprile
16/25 gennaio 2003
Teatro Valdoca
CHI ARDE NON HA FREDDO
a cura di Marco De Marinis
 
spettacolo presentato in collaborazione con Arena del Sole - Nuova Scena - Teatro Stabile di Bologna
PARSIFAL
'Nel crudele splendore del mondo'
regia di Cesare Ronconi
scritto da Mariangela Gualtieri
con Danio Manfredini, Catia Dalla Muta, Claudia Dulitchi, Silvia Lodi,
Gabriella Rusticali, Carolina Talon Sampieri
danzatori Rhuena Bracci, Giacomo Calabrese, Leszek Chmielewski, Daniela De Angelis,
Caterina Genta, Maria Mazzi, Anna Savi, Giuseppe Semeraro
scomposizione e ricomposizione del suono di Massimo Simonini, Tiziano Popoli
movimento di Catia Dalla Muta
costumi e cappelli di Patrizia Izzo
oggetti di Cose Care
luci di Cesare Ronconi
direzione di scena Antonio Annichiarico
tecnici di scena Uria Comandini, Stefano Cortesi
in collaborazione con Santarcangelo dei Teatri e Teatro A. Bonci di Cesena
Arena del Sole - Sala Grande, 16/17 gennaio - ore 21

Urlo tellurico che non ammette per una volta alcuna morbidezza, ma si leva contro l'attuale sfacelo come una disperata dichiarazione d'amore.
Al centro della vicenda di Parsifal c'è un buco. Il protagonista scompare per alcuni anni, per alcuni capitoli, e non sappiamo nulla di ciò che gli accade. Quando Parsifal ritorna è del tutto snervato, sfinito, confuso e disperato. Lascia le briglie del cavallo e si consegna al destino, a quella mano invisibile che poi lo guiderà fino al Graal.
Il buco segnala un tempo misterioso e uno spazio d'oltretomba: Parsifal viene torchiato e sottoposto al 'duro allenamento dei dolori terrestri'. Ed è lì, in ciò che la storia non vuole o non può raccontare, che si prepara quella condizione di totale abbandono, di disperata prostrazione, grazie alla quale, a volte, la comprensione si dilata, e i sensi, come in un bagno di calce viva, prendono nuovo splendore. È lì che si guadagna il Graal. Ed è lì, anche, che il tempo bastona più forte e si diventa vecchi. È infatti un Parsifal vecchio ad occupare il centro della scena, ed è figura che nell'interpretazione di Danio Manfredini assume pienamente tutte le qualità contrastanti che la leggenda suggerisce: è martire ed è guerriero, è puro ed è folle, è ebete ed è savio.
Dopo Parsifal piccolo, tutto radioso e composto, ci siamo inabissati in quel buco. Quel candore abbagliante resta come traccia, al di sotto di un urto militare, guerriero, dove 'maledetto' e 'benedetto' sono inestricabilmente avvinti.
Ciò che è riemerso è un Parsifal vecchio e sghembo, in cui follia e purezza si strattonano continuamente, nello struggente impatto col dolore.
Attorno a Parsifal un popolo ben strano, dove ognuno è sommatoria scalena di archetipi favolosi: Pinocchio e fatina insieme, ma anche clown bianco, anche povero e goffo saltimbanco, anche figura d'oltretomba, anche teatrante di una scalcagnata compagnia. Qualcuno si stacca dal mucchio per farsi sagoma recitante di un personaggio chiave: re Anfortas, l'eremita, l'irsuta Cundri, la madre. Ma è sempre recita esagerata. Unica figura a sé è il Parsifal piccolo che più di una volta bacia il vecchio Parsifal e gli consegna la canna del comando, povero simulacro della sacra lancia sanguinante.
Tutto avviene dentro una potente battitura ritmica, eseguita dal vivo dal regista che in questo modo esorta o smorza il lavoro degli attori, dialoga con loro, guida la danza. In essa la musica di Wagner viene dilatata, come voce di una natura immensa, vulcanica, sotterranea. E viene anche inceppata, sormontata da suoni incombenti che punteggiano tutta la scrittura scenica.
Questo è quanto il Teatro Valdoca aggiunge alla leggenda incompiuta, che dopo la morte di Chrétien De Troyes ha avuto numerosi continuatori: nel tentativo di compiere questa fiaba e farne figura della ricerca di ognuno, del desiderio di beatitudine qui, adesso, dentro il crudele splendore del mondo.

L’ultima volta che ti ho incontrata mi hai detto che stai lavorando sull’idiozia…
Sto lavorando sull'idiozia. Mi chiedo come mai, mentre da un lato si esaltata l'intelligenza e la ragione, dall'altro compare puntualmente nella storia e nelle religioni la figura dell'idiota benedetto, del sacro folle. È una figura che va nella direzione opposta rispetto agli sforzi che tutti noi compiamo per fare funzionare le nostre vite.
Essa, la figura dell'idiota, non fa sforzi, tutto le è regalato, è gioiosa, amata dagli dei, compie prodigi. La si trova come residuo nelle fiabe, poi nel vecchio testamento e nel nuovo, in alcuni miti. Penso a Parsifal: vorrei riscriverlo per la scena. E però con molta libertà, trascurando i cavalieri della tavola rotonda, re Artù, tutta la pregnanza cristiana che la vicenda ha assunto, tutto l'esoterismo da due soldi che è cresciuto intorno al Graal.

Il ricordo di Biancofiore e l'arrivo dei cavalieri. Purezza e dolore, candore e porpora, contemplazione e azione. Contrasto tra il colore e l'assenza del colore: risiede in questi simboli, anteriori alla parola, il ponte, l'innesto tra il regno del sangue e il regno dello spirito, tra sostanza e vuoto?
Penso al punto in cui Parsifal ricorda la sua sposa. Parsifal vede sulla neve tre gocce di sangue. I colori del sangue e della neve gli riportano al cuore il colorito di Biancofiore, quella carnagione candida, quelle guance e labbra rosse. Allora Parsifal cade in una specie di estasi da cui nessuno riesce a svegliarlo. Arrivano uno dopo l'altro vari cavalieri, lui si batte contro ognuno come un automa: ogni volta vince e ogni volta torna alla sua contemplazione. Si risveglierà solo quando qualcuno getterà un panno sulle tre gocce, interrompendo così la visione.
Non ci sono parole. Parsifal è ammutolito di nostalgia, nel dolore della nostalgia. Ammutolisce per troppa dolcezza, per troppa mancanza, per troppo orrore di quella mancanza, per troppa enigmaticità: perché si trova separato da quel bene immenso, da quel candore, da quel rossore?

Nella prefazione di Umano troppo umano, Nietzsche affronta a un certo punto il tema dello "Spirito libero": si può dire, afferma, che uno spirito libero abbia avuto il suo evento decisivo in una "grande separazione"...
È difficile qui non pensare ai mistici, a San Giovanni della Croce, ad esempio. Difficile non pensare che quella sposa non sia tutt'uno con l'anima di Parsifal. E a questo punto della vicenda Parsifal è così lontano dalla propria anima, dal proprio centro, dalla propria foresta interiore, che quella apparizione è un luogo in cui cade a picco, un luogo molto bello, con molta promessa.

In una Corona rivolgi una domanda terribile e commovente:
"Come ti chiami, come chiami a te?"
Una domanda che suona perentoria come solo un richiamo può essere. Anche per Parsifal?
Il desiderio di quel luogo, la sua mancanza sentita con quella intensità, hanno per Parsifal la stessa perentorietà di una vocazione. È una chiamata a cui non si potrà sottrarre. Un desiderio rovesciato, una violenta necessità di obbedienza.

Da bambino rimasi colpito dalla scelta di nudità di San Francesco, di fronte al padre e ai potenti del suo rango altolocato.
La misura di purezza che può attraversare Parsifal non ha veste, né parola, né significato?
Io per ora non oso immaginare neppure una parola, né sulla bocca di Parsifal, né di qualche altro osservatore. Forse solo parole scritte.
Wagner mi sembra abbia espunto tutta la scena. Ed è strano, se è così. perché oltre che la mistica, c'è qualcosa che ricorda anche la buddità: qui Parsifal sembra un Buddha illuminato.

La tua semplicità mi convince: vedo un Parsifal, chiamato al vuoto, all'omesso, pervaso, obbediente alla radice. La foresta, poi... habitat della radice, luogo del viaggio mistico... Vedo Dante nella selva, e vedo Buddha, che inerte riceve la luce, sotto a un centenario albero di fico......
A partire da questa scena si potrebbe leggere l'intera vicenda come interrogazione del mondo medievale su un altro modo di far funzionare la mente, su quel modo intorno al quale tutto l'oriente si è tanto applicato, e primo fra tutti il buddismo Zen. Qui mi piace pensare, con uno sguardo molto poco storico, che forse crociati e paladini, nelle loro incursioni in terra santa e dintorni, incontrarono quei monaci vaganti, quei pellegrini di Dio, quei Sadhu e Guru che allora erano forse esattamente come noi li possiamo veder ora.

Come?
Quelle figure in piedi su una sola gamba da anni, quei corpi sepolti vivi, quei guaritori, quei santi, quel loro poco agire, quelle lunghe sedute contemplative... Qui davvero Parsifal ricorda anche San Francesco, con quelle sue cadute in estasi così repentine e fuori luogo.

[da: Conversazioni con Mariangela Gualtieri, di Francesco Scarpelli, "Culture Teatrali", 2/3, 2000, pp. 136-138]

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