Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna La Soffitta 2003 - TEATRO
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LA SOFFITTA 2003

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facoltà di lettere e filosofia
16 gennaio - 13 aprile
27 febbraio/27 marzo 2003
IL FIORE DEL TEATRO NO
Le radici della scena giapponese
a cura di Giovanni Azzaroni e Matteo Casari

LO SPECCHIO DEL FIORE
proiezioni dal teatro NO
Palazzo Marescotti, 27 febbraio, 6-13-20 marzo - ore 17
video introdotti da Giovanni Azzaroni e Matteo Casari

13 marzo 2003, ore 17 · Palazzo Marescotti, via Barberia 4

Gakuya. Il dietro le quinte del teatro no
video originali di Matteo Casari


Il termine gakuya, letteralmente stanza della musica, è qui a indicare non solo i camerini in senso stretto com’è nel suo significato d’uso ma, estensivamente, tutto ciò che pertiene il prima dello spettacolo vero e proprio. I video proposti si riferiranno, quindi, tanto al training quanto alle prove e alle attività specifiche del dietro le quinte: la gakuya – i camerini propriamente detti – e la kagami no ma – la camera dello specchio.

Note da un’esperienza sul campo*

Il mio apprendistato presso il Maestro Umewaka Manzaburo è passato attraverso lo studio di quattro coreografie shimai (danze d’addestramento) e del relativo breve verso utai da intonare prima di cominciare a danzare: nelle fasi preliminari di apprendimento non sono stato direttamente seguito da lui, ma dai due allievi giovani con cui lavoravo quotidianamente.

Dopo mezzora circa di hakobi (tipica camminata strisciata del no) in kamae (posizione base dello stare in piedi) la lezione cominciava in questo modo: inginocchiato in seiza di fronte a chi era in quel momento il mio maestro (sensei) mi piegavo in un profondo inchino e pronunciavo il ringraziamento e augurio di buon lavoro: "yoroshiku onegaishimasu". Ricevuta medesima risposta dal sensei questi cominciava a cantare per intero lo utai da danzare, due, anche tre volte consecutive, quindi era il mio turno, ma solo per la strofa iniziale.

Terminata la lezione di canto si passava alla danza. Sempre in seiza, di fronte al palco (butai), potevo osservare per due o tre volte di seguito l’intera esecuzione della shimai, durante la quale chi danzava cantava anche a mezza voce l’intero testo poetico. Finita la serie dimostrativa era il mio turno, sempre seguito, nel primo e secondo giorno d’esercizio, dal mio maestro che danzava in parallelo a me per indicarmi le direzioni e le kata (forma, modello). Abitualmente si partiva dalla prima kata e si terminava, a prescindere da miei errori o incertezze, solo con l’ultima. Questa pratica era per me difficile da seguire perché dovevo fin dal primo tentativo cercare di pensare alla danza come ad un blocco unico, non potevo concentrarmi, almeno inizialmente, su sezioni ridotte più facilmente memorizzabili. Durante la fase di memorizzazione della coreografia, comunque, a meno che non fosse strettamente necessario nessuno era con me particolarmente esigente circa lo stile di esecuzione. […]

Il teatro no è un teatro di repertorio. Le prove per uno spettacolo risentono, nel modo di essere condotte, di questa contingenza e, soprattutto in quelle più informali, assomigliano ad una semplice prova di memoria per verificare la conoscenza del testo e della coreografia. Sempre, tranne in rarissimi casi, la prova consiste nella ripetizione completa del dramma dall’inizio alla fine senza interruzioni: la correzione avviene solo al termine dell’esecuzione.

Il Maestro, quando non ricopre il ruolo di shite (attore protagonista) in prima persona, non dà all’attore principale nessun tipo di indicazione su come interpretare il ruolo o su come rendere alcuni passaggi chiave, osserva semplicemente e interviene solo nelle correzioni finali.

Esistono, a seconda dell’importanza della rappresentazione, vari tipi di sedute di prova e le principali sono il keikono o keikokai e il moshiawase: tenuti abitualmente nei due giorni precedenti la recita, ad un giorno di distanza l’uno dall’altro, possono essere considerati rispettivamente una prima prova e la prova generale.

Con il termine keikono (esercitazione di no) si indica una prova formale fatta dall’attore designato come shite, dal coro e dagli strumentisti dell’orchestra (hayashi). Vi è a volte una fase di prova più informale, chiamata semplicemente keiko o okeiko (esercizio), nella quale lo shite si esercita da solo con l’ausilio di un unico o alcuni aiutanti e in certi casi utilizzando apparecchiature per la riproduzione audio di nastri magnetici. Mentre il keikono e il moshiawase sono richiesti e pianificati dal Maestro, il keiko è generalmente richiesto dall’attore stesso. Questi chiede la partecipazione di alcuni compagni in qualità di coristi e a volte anche quella del sensei per avere una prima opinione e correzione.

Il moshiawase, termine questo utilizzato solo nel no e nel kyogen, si tiene solitamente il giorno precedente lo spettacolo e la sua esecuzione è sostanzialmente identica a quella di un keikono, con la differenza che il waki (attore deuteragonista) e gli eventuali wakitsure (compagni del waki) non devono essere sostituiti dai koken (servi di scena) perché presenti.

Un aspetto curioso afferente le prove concerne l’uso o meno della maschera durante la sessione: i maestri affermati - l’ho visto fare solo a Manzaburo sensei e a suo fratello Masaharu sensei - provano sempre senza maschera perché la loro maestria glielo consente; tutti gli altri, tranne nel caso in cui interpretino uno hitamen (ruolo a viso scoperto), devono assolutamente utilizzarla: non importa che indossino proprio quella afferente il personaggio interpretato, ne basta una qualunque. I costumi di scena, invece, vengono adoperati esclusivamente il giorno di spettacolo, per la prova sono sufficienti kimono e hakama. […]

Mentre una parte degli attori si dedica agli tsukurimono (oggetti di scena) lo shite, aiutato dal suo koken e da almeno altre due persone, comincia a indossare lo shozoku (costume di scena) nell’apposito spazio attiguo la camera dello specchio. La vestizione è molto complessa ed elaborata e l’attenzione al più piccolo particolare ne è la norma guida. Tutto deve vestire perfettamente, gli abiti devono cadere simmetricamente e simmetrici devono essere anche gli accessori. Una volta vestito lo shite è fatto sedere su di uno sgabello di fronte allo specchio del camerino in cui è stato vestito: inizia così la ricerca della giusta concentrazione e l’analisi di ogni singolo particolare del proprio costume, anzi, del costume del personaggio.

Solo in un secondo momento, pochi minuti prima di entrare in scena, lo shite viene accompagnato di fronte allo specchio della kagami no ma dove comincia il processo di spersonalizzazione culminante nell’atto di indossare la maschera, atto che dovrebbe portare l’attore ad obliarsi per diventare, secondo i dettami di Zeami, il personaggio stesso: l’attore deve fare il vuoto dentro di sé per consentire al personaggio di manifestarsi liberamente. In questo lasso di tempo lo shite è seguito a vista, quasi vezzeggiato e accontentato in ogni sua richiesta: il suo koken deve restare inginocchiato al suo fianco pronto ad intervenire per qualunque necessità.

Lo shite, mentre coro, orchestra e waki entrano in scena, si accinge ad indossare la maschera (nomen) - adagiata di fronte a lui sulla mensola alla base dello specchio - la prende fra le mani, la osserva come fosse la sua immagine riflessa e compie un primo inchino; poi la ruota invertendo la posizione della fronte e del mento e vi si inchina per la seconda volta, quindi la capovolge, l’accosta al volto e il koken gliela lega saldamente.

La camera dello specchio - già greve dei suoni e delle parole provenienti dal butai - quasi completamente oscurata ma scaldata dalla luce colorata prodotta dal traslucido del goshikimaku (sipario a cinque colori), ricorda un luogo e un momento aurorale, di nascita o di creazione: il personaggio, e non più l’attore, si appresta a manifestarsi.

Nei pochi minuti che separano le due parti in cui un no è tradizionalmente diviso, occupati in scena dallo ai kyogen (intermezzo), la concitazione in gakuya è massima: si hanno pochissimi minuti per cambiare a volte l’intero costume, la parrucca e la maschera per la seconda parte del dramma. Lo shite, ricondotto nei camerini, è letteralmente circondato da aiutanti che lo spogliano e lo rivestono: ho contato anche otto persone contemporaneamente. Questo poi è guidato nuovamente davanti allo specchio dove qualcuno avrà provveduto a far arrivare la nuova maschera e un bicchiere d’acqua.

La maschera è indossata con lo stesso protocollo della prima volta: nei pochi secondi che restano all’attore per riflettersi con la nomen indossata si realizza quella che è una tipica espressione giapponese: kagami ni terasu, guardare la verità nello specchio. La verità nello specchio è il personaggio, non più l’attore. Di più, il personaggio sembra scaturire dallo specchio ed è quindi a questo che sembra appartenere. […]

* Materiali tratti da Casari Matteo, La verità dello specchio - Cento giorni di teatro no con il maestro Umewaka Makio, Il principe costante Edizioni, Pozzuolo del Friuli (UD), 2001.

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