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TRE VOLTI DI UN DUO

Gabriele Ceci, violino; Mirco Ceci, pianoforte

L. van Beethoven, Sonata n. 9 in La maggiore op. 47, “a Kreutzer”
C. Franck, Sonata in La maggiore
M. Ravel, Tzigane

 

dove: Laboratori delle Arti/auditorium
quando: martedì 26 febbraio, h 21

 

Il pianista Mirco Ceci (1988) e il violinista Gabriele Ceci (1990), figli d’arte – il padre è pianista, la madre violinista -, hanno studiato entrambi al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari e si sono perfezionati con illustri maestri: Mirco con Boris Petrušanskij, Louis Lortie e Aldo Ciccolini; Gabriele con Ana Chumachenco, Mariana Sirbu e Salvatore Accardo.

Vincitori di importanti concorsi internazionali, svolgono un’intensa attività concertistica in Italia e all’estero, sia in duo sia come solisti e in varie formazioni da camera.

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La Sonata n. 9 in La maggiore op. 47 “a Kreutzer”, composta nel 1803, riflette i caratteri del cosiddetto secondo periodo creativo di Beethoven, quello definito “eroico”, in cui predominano le proporzioni imponenti e uno stile musicale ricco di grandi tensioni di forte impatto emotivo. Dedicata al violinista francese Rodolphe Kreutzer, questa sonata trasferisce i tratti del concerto nell’ambito del genere cameristico; il titolo della prima edizione recitava infatti «Sonata scritta in uno stile molto concertante quasi come d’un concerto». L’Adagio sostenuto si apre con una serie di accordi discendenti del violino solo. Il dialogo col pianoforte è, in seguito, caratterizzato da forti tensioni armoniche. Il successivo Presto, in forma sonata, è segnato da episodi di altissima concitazione, a tratti quasi furiosi, che solo nel brevissimo secondo tema si placano consentendo ai due strumenti di raggiungere un precario equilibrio. Nell’Andante, una serie di variazioni sul tema esposto all’inizio, predomina un tipo di scrittura marcatamente virtuosistico; verso la conclusione, un repentino cambiamento di atmosfera prepara la vivace cadenza finale. Nel Presto conclusivo, violino e pianoforte si rincorrono in un ritmo quasi di tarantella, di nuovo segnato da grande eccitazione emotiva, interrotta anche qui dalle brevissime oasi create dalla seconda idea tematica; nella coda, la corsa a perdifiato dei due strumenti sembra arrestarsi per un momento, ma solo per lanciare con impeto ancor più travolgente l’ultima riproposta del tema principale.

La Sonata in La maggiore di César Franck rivela un approccio al sonatismo più dialogico di quello beethoveniano. Uomo di indole mistica e grande cultore del Settecento e del recente passato, Franck, da una posizione appartata e al di fuori delle correnti dominanti, contribuì in maniera significativa all’evoluzione del linguaggio musicale dell’Ottocento. Ebbe come punto di riferimento la musica mitteleuropea e fu fervido sostenitore del poema sinfonico dal quale trasse stimoli per la sua ricerca stilistica. A lui si deve l’idea della “sonata ciclica”, principio che si basa sull’impiego dello stesso materiale tematico per tutte le sezioni o movimenti di un brano. La genesi della Sonata si colloca in un periodo di serrata ricerca e sperimentazione nell’ambito della musica sacra sia strumentale sia vocale. A lungo elaborata e dedicata al violinista Ysaÿe, che la eseguì in prima assoluta a Bruxelles il 16 dicembre 1886, l’opera è segnata da un ricercato equilibrio fra i due strumenti. Il lavoro è basato su tre temi, il primo dei quali, variamente presentato, costituisce l’elemento portante dell’intera opera mentre gli altri due si delineano in maniera progressiva nel corso dei quattro tempi della sonata.

Nel 1922 Maurice Ravel fu stregato dal fascino delle improvvisazioni in stile tzigano di Jelly d’Aranyi, violinista ungherese nipote del virtuoso Joseph Joachim e amica di Béla Bartók, alla quale dedicò, due anni più tardi, la prima versione della Tzigane (una seconda, per violino e orchestra, risale al ’26). Bartók, uno dei padri della moderna etnomusicologia oltre che compositore sommo, si avvicinava in quegli anni alla musica popolare dell’Europa orientale con spirito scientifico. In questo brano Ravel volle più che altro ricreare un carattere popolareggiante nel quale il discorso musicale e la fisicità dell’interprete avessero un ruolo paritario. Per questo, la Tzigane venne considerata un prodotto intellettualistico, poco spontaneo e attraente; un giudizio oggi abbandonato. Nella lunga parte iniziale dell’introduzione, Lento quasi cadenza, il violino solo suona esclusivamente sulla quarta corda ottenendo sonorità di grande intensità, ora aspre ora sensuali. Nel seguito, nell’alternarsi di passaggi eseguiti con l’arco ad altri in pizzicato, sembra di assistere alla ricerca del primo tema: ad una lavorazione artigianale che “materializza” a poco a poco la musica, sinché su un tempo rubato le frasi non si fanno più nette. Col definirsi dei temi, il tempo si fa più serrato e il tema viene enunciato in forme sempre nuove con dinamiche estreme e ritmi vertiginosi. Il violino, autentico mattatore, fa sfoggio di colori sempre cangianti e di una frenetica virtuosità, la cui fisica estroversione tocca l’acme nella entusiasmante cadenza finale.

Luca Amodio
Laurea magistrale in Discipline della Musica

 

coordinamento e redazione
Paolo Valenti