COSTRUZIONE ESPRESSIONE PERCUSSIONE
Maria Perrotta, pianoforte
J. S. Bach, Preludio e fuga in La minore BWV 894
L. van Beethoven, Sonata n. 31 in La bemolle maggiore op. 110
S. Prokof’ev, Sonata n. 6 in La maggiore op. 82
dove: Laboratori delle Arti/auditorium
quando: martedì 5 marzo, h 21
Maria Perrotta, cosentina, si è diplomata con lode al Conservatorio di Milano ed ha conseguito il Diploma Superiore di Musica da Camera all'École Normale de Musique di Parigi, dove risiede. Si è perfezionata con Franco Scala, Boris Petrušanskij e Sergio Perticaroli. Ammirata ovunque per il rigore e la limpidezza delle sue esecuzioni, ha vinto numerosi concorsi internazionali, tra cui il “J. S. Bach” di Saarbrücken, che l’ha imposta come una delle più interessanti interpreti bachiane del nostro tempo.
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Il Preludio e fuga in La minore BWV 894, pagina di più raro ascolto rispetto ad altri capisaldi dell’opera per tastiera di Johann Sebastian Bach, risale agli anni in cui il compositore si trovava alle dipendenze del duca di Weimar con il doppio incarico di organista e di musicista da camera (1708-1717). Già allora il giovane Bach aveva dato prove formidabili nelle diverse forme della musica per clavicembalo attraverso una vasta produzione di suites, toccate e partite, cosicché nel Preludio e fuga in La minore sono presenti molti elementi caratteristici delle sue opere mature; esso rappresenta un esempio preclaro di sintesi fra stile italiano, che Bach aveva assimilato studiando e trascrivendo i concerti di Vivaldi, e stile tedesco, in particolare quello praticato dai maestri della Germania del nord (Buxtehude, Böhm, Reincken). Il richiamo alla struttura del concerto è evidente nel preludio, tutto giocato fra il tema principale, ripreso continuamente a guisa di ritornello orchestrale, e le sezioni libere di impronta solistica, nelle quali le terzine che scandiscono ritmicamente l’andamento del brano cedono il passo a rapidi passaggi di biscrome per dar modo all’esecutore di sfoggiare il proprio virtuosismo. Questo aspetto, così come l’uso sapiente delle risorse timbriche dello strumento, testimonia la prodigiosa padronanza tecnica che rese celebre l’autore. A conferma della concezione concertante sottesa al preludio, valga osservare che Bach lo riutilizzò nel suo Concerto per flauto, violino, cembalo e archi BWV 1044; espressione di uno stretto legame con la tradizione musicale della Germania settentrionale è, fra l’altro, il tempo di dodici sedicesimi della fuga, che le conferisce un travolgente andamento di giga.
Composta nel 1820 e pubblicata nell’agosto del 1822, la Sonata in La bemolle maggiore op.110 costituisce il pannello centrale del trittico che chiude il ciclo delle 32 sonate beethoveniane, trittico in cui emergono i nuovi princìpi formali che caratterizzano la fase più matura della sua produzione. Definita da András Schiff «grandiosa sintesi di ordine e libertà», essa è il frutto di un processo creativo che si distanzia dalle strutture classiche della forma sonata in favore di una libera cantabilità e di un contrappunto di tradizione riscoperto e rielaborato. La sonata si apre con un Moderato cantabile molto espressivo dalla spiccata sensibilità lirica; segue uno spigoloso Allegro molto, costruito su temi di matrice schiettamente popolare. Il finale è preceduto da un Adagio ma non troppo in cui sembra di assistere al tentativo della musica di articolare dei vocaboli, attraverso frammenti di recitativo e la sillabazione di note ribattute. Segue un Arioso dolente imperniato su un tema cantabile di bachiana intensità, che conduce ad una fuga in due sezioni, la seconda delle quali si basa sull’inversione del soggetto. Mentre la prima fuga si snoda con un tono torvo e introverso, la seconda, dopo un ritorno dell’arioso e una serie di masse accordali di primitiva potenza, rovescia in positivo il carattere della prima, e sfocia in una coda dal piglio eroico, in cui il soggetto della fuga viene svincolato dall’intreccio contrappuntistico e trasfigurato in una sorta di inno trionfale. Molti studiosi hanno voluto ravvisare nella sonata, e soprattutto nel movimento conclusivo, echi della grave malattia che afflisse Beethoven in quel periodo; e ne sarebbero vivide testimonianze anche le indicazioni espressive disseminate dal compositore nell’autografo: Ermattet, klagend (perdendo le forze, dolente) e Nach und nach wieder auflebend (a poco a poco di nuovo vitale).
Come l’op. 110 di Beethoven, anche la Sonata n. 6 di Sergei Prokof’ev fa parte di un trittico, fortemente connotato in senso programmatico. Il trait d’union che accomuna le sonate n. 6, 7 e 8, composte rispettivamente nel 1940, 1943 e 1944, è dato dalla loro stessa cronologia: esse costituiscono una drammatica riflessione sulla guerra che in quegli anni devastava l’Europa. Tale suggestione si evidenzia sin dal primo movimento, strutturato in forma sonata, dall’incedere ritmico incalzante e dai vigorosi contrasti tematici, elementi che sembrano prendere spunto dall’inventiva bartokiana. I più distesi brani centrali, un Allegretto e un Tempo di valzer lentissimo, non riescono a dissipare la tensione generata dall’andamento percussivo dell’Allegro moderato iniziale, il cui tema principale si riaffaccia nel quarto movimento, dominandone l’ultima sezione in un climax terrifico e violento. Il grande pianista Svjatoslav Richter, uno dei massimi interpreti di Prokof’ev, ebbe a dire della Sonata n. 6 che «il compositore vi aveva infranto gli ideali del Romanticismo con un’audacia selvaggia e aveva incorporato nella sua musica la pulsazione tremenda del XX secolo».
Matteo di Cinto
Laurea magistrale in Discipline della Musica
coordinamento e redazione
Michele Vannelli