mercoledì 20 aprile
Laboratori DMS - Auditorium
ore 17
I teatri di Pasolini
Presentazione del libro di Stefano Casi
(ed. Ubulibri, Milano 2005)
intervengono Giacomo Manzoli, Claudio Meldolesi,
Franco Quadri, Cristina Valenti
STEFANO CASI
si è laureato al Dams di Bologna nel 1987 con una tesi vincitrice del Premio Pasolini e segnalata al Premio Zorzi. Su Pasolini e sul suo teatro ha successivamente scritto diversi libri e numerosi saggi. Giornalista professionista e direttore artistico di Teatri di Vita, collabora con la cattedra di Organizzazione ed Economia dello Spettacolo al Dams.
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Pier Paolo Pasolini
In questo libro l’autore propone un rovesciamento ‘copernicano’ dell’approccio al teatro di Pasolini. Se finora si è sottolineata maggiormente la dimensione letteraria delle tragedie di Pasolini, quasi negando una loro teatralità, e se anzi si è sempre parlato del loro autore come di un poeta lontano dal mondo del teatro, in questo lavoro emergono le numerose tracce di una “vocazione teatrale” che attraversa l’intera vita e l’intera opera di Pasolini, e che arriva a piantare saldamente l’arte e il pensiero di questo autore al centro della storia del nuovo teatro degli anni ’40/70.
Ecco, dunque, “i teatri di Pasolini”, al plurale, come plurale è stato il suo impegno in questo linguaggio artistico, che si è evoluto affiancando le più significative realtà del suo tempo. Al plurale anche perché il libro affronta non solo i testi e le esperienze teatrali di Pasolini (con particolari spesso inediti o poco conosciuti della sua vita e della sua opera), ma indaga i segni del teatro anche nella poesia, nella prosa, nel cinema, nella saggistica, nella pubblicistica e in tutti i campi toccati da Pasolini.
Si inizia con i “teatri della formazione” conosciuti a Bologna tra il 1938 e il 1943, quando Pasolini, prima liceale e poi universitario, dimostra non solo interesse alla scrittura teatrale al punto da vincere a soli 16 anni un concorso di drammaturgia, ma anche alla recitazione e alla regia, entrando ben presto in contatto con l’area dei giovanissimi Paolo Grassi, Ernesto Treccani e Giovanni Testori che a Milano stanno cercando di far nascere il primo teatro alternativo a quello ufficiale del regime fascista.
Il libro affronta poi la lunga esperienza a Casarsa, dal 1943 al 1949, quando Pasolini, impegnato nel dar voce alla comunità locale e ad accreditare il dialetto friulano come lingua, dà vita a una sorta di “teatro della polis” che riprende il senso poetico e politico del teatro ateniese. Sempre in Friuli Pasolini dà addirittura vita a una compagnia teatrale, recitando egli stesso, fino ad approdare al “teatro dell’io”, dove l’autore scopre una nuova funzione della scena: quella del rispecchiamento dei suoi conflitti interiori, nella scopertà dell’omosessualità e nell’affermazione della diversità.
Dal 1950 al 1965 è la volta dei “teatri capitali”, quelli introdotti dalla presenza magnetica di Laura Betti, l’outsider delle scene romane che interpretava le canzoni degli scrittori. Una rivoluzionaria traduzione dell’Orestiade di Eschilo per Gassman e poi una pirotecnica traduzione da avanspettacolo del Miles gloriosus di Plauto introducono Pasolini nel cuore della scena ufficiale italiana. Sono gli anni della scoperta di Brecht, di Carmelo Bene e del Living Theatre, e Pasolini si dimostra instancabile utopista dello spettacolo, scrivendo pezzi di cabaret e perfino balletti. Ma intanto guarda al cuore del problema della crisi del teatro italiano: la lontananza della recitazione accademica dalla società reale.
Si arriva così all’elaborazione di un “nuovo teatro”, esattamente negli anni dell’affermazione in Italia del dibattito sul nuovo teatro. Pasolini interviene con una propria drammaturgia sperimentale: sei tragedie borghesi, in versi. Una scelta sconvolgente e radicale per l’inattualità e il respiro internazionale, che affonda le radici nella grande tradizione che va da Yeats a Claudel, ma che ha come compagni di strada Peter Weiss, Heiner Müller e Yukio Mishima. Pasolini è talmente consapevole della portata rivoluzionaria delle sue intuizioni da decidere, a partire dal 1966, di dedicarsi principalmente al teatro: scrive testi, progetta centri teatrali, trasferisce nel cinema i suoi soggetti teatrali, elabora perfino una teoria. Il Manifesto per un nuovo teatro è la più stupefacente elaborazione teorica del teatro sperimentale degli anni '60, con alcune formidabili intuizioni, dalla centralità dell’attore con una propria responsabilità intellettuale, alla riflessione sulla qualità dello spettatore. Poi, la regia di Orgia al Teatro Stabile di Torino, nel 1968: spettacolo estremo e frainteso, un insuccesso che porta Pasolini ad abbandonare l’idea di poter coltivare davvero un suo teatro.
Siamo così all’ultimo capitolo della vicenda di Pasolini, dal 1970 al 1975, quello dei “teatri dell’esistenza”, quando la mai ripudiata vocazione teatrale trasuda nel cinema di Salò, e quando le numerose tracce di insofferenza ai confini della letteratura e dei generi portano Pasolini a concepire sé stesso come un eroe tragico nella vita pubblica, fino alla realizzazione di sessioni di body art e teatrini fotografici.
Il libro si conclude con un capitolo in cui vengono passate in rassegna le più significative messinscene italiane delle tragedie pasoliniane, dal mitico Calderón di Luca Ronconi alla recente trilogia di Antonio Latella, passando per gruppi come i Magazzini o il Teatro dell’Elfo. Una teatrografia propone l’elenco dettagliato di tutti gli allestimenti italiani: quasi cento, a dimostrazione di una presenza niente affatto secondaria dell’opera di Pasolini nel teatro italiano.
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