Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna MUSICA URBANA Introduzione (GLFB)

Conferenze e convegni

 
BOLOGNA, 17 - 19 maggio 2002
CONVEGNO di STUDIO
Musica urbana: il problema dell’inquinamento musicale
 
Bologna, palazzo Marescotti, via Barberia 4
 

Giuseppina La Face Bianconi

Introduzione: Storia di una casa, di un seminario e di alcuni tacchini
 

Il 14 novembre 2001 in Afganistan cadeva il regime dei Talebani: le televisioni di tutto il mondo trasmettevano le immagini di un popolo povero ma fiero, che, provato dalla tirannide, s’inebriava della libertà. E questo popolo si riappropriava subito della musica: proibita dal regime, essa, mediante radioline e stereo gracchianti, ritornava nelle strade di Kabul. Dava voce ad emozioni per lungo tempo represse e diveniva simbolo di speranza: di un futuro migliore, di una vita più degna.

Due mesi prima, un altro popolo, quello americano, fiero anch’esso, ma ricco e tecnologicamente avanzato, impietrito dallo sgomento di fronte alle macerie delle Twin Towers intonava spontaneamente God bless America: alla musica dell’Inno nazionale consegnava il suo dolore e la speranza della ricostruzione; nella musica cercava consolazione ad una disperazione senza luce.

In quei giorni drammatici ogni musicologo comprendeva tali atteggiamenti. Il musicologo sa che la musica organizza le emozioni, dà forma a moti dell’animo scomposti o disorganizzati, e sa che può esercitare un’azione consolatoria. Lo hanno d’altronde proclamato i filosofi: per Marsilio Ficino la musica è "consolazione delle fatiche e pegno di vita duratura" (De vita, II, xv), per Schopenhauer "panacea di tutti i nostri dolori" (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, iii, § 52); lo sapevano gli operisti del Settecento, che alla musica chiedevano di procurare il plaisir des larmes: efficace per lenire l’animo dolente e stemperare le sofferenze in una dolcissima malinconia.

Immanuel Kant non era di questo parere. Nella Critica del giudizio mette a confronto arti figurative e musica, e dichiara la superiorità delle prime. Della musica elenca una serie di qualità negative; tra l’altro dice: "Alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità – ein gewisser Mangel an Urbanität, dice proprio così –, specialmente per la proprietà che hanno i suoi strumenti di estendere la loro azione al di là di quel che si desidera (sul vicinato), per cui essa in certo modo s’insinua e va a turbare la libertà di quelli che non fanno parte del trattenimento musicale; il che non fanno le arti che parlano alla vista, bastando che si rivolgano gli occhi altrove, quando non si vuol dare adito alla loro impressione" (§ 53).

Il che è come dire: le orecchie non hanno le palpebre.

Personalmente credo, come Marsilio e Schopenhauer, che la musica sia dono degli dèi, medicina dell’anima, compagna della nostra vita, consolazione dei nostri dolori. Da musicologa, ho fatto di essa la mia professione. Ho tuttavia avuto l’occasione di sperimentare come, su questo punto, in molte circostanze il grande Kant abbia ragione: la "mancanza di urbanità", connaturata alla musica, può venire esasperata dal suo uso violento o dal suo abuso. E ciò comporta una conseguenza: la musica, da consolazione, si trasforma in disperazione. Perdonerete se farò un riferimento personale, nel quale, tuttavia, altri si potranno riconoscere.

Ho una casa al mare, al Sud: ci ritorno ogni anno per un mese. Sono nata lì, e mi piace ritrovare i colori, i suoni, i sapori dell’infanzia. L’imbrunire è un momento magico: la notte arriva dolcemente, dal terrazzo si vedono chiarissime le stelle, si odono i grilli. È stato così per tanti anni. Poi, all’improvviso, una sera è finito tutto. Da un bar vicino provenne una musica intensa: canzoni che conoscevo, perché erano quelle della mia giovinezza. Sul momento, pensai ad un avvenimento sporadico, ma la sera dopo fu uguale, e così ogni altra sera. Mi accorsi di non udire più i grilli, di non poter dialogare in libertà con gli amici, di non poter guardare le stelle in silenzio. La musica s’intrometteva come un ospite non invitato, la sua compagnia era pervasiva e fastidiosa. L’incantata "ora che volge il disìo" aveva perduto la sua dolcezza, si tramutava in un momento ansiogeno, perché sapevo, e temevo, che di lì a poco la musica sarebbe giunta, implacabile. Ero diventata scorbutica e intrattabile: perché ero impotente a fermare il fenomeno, e perché mi sentivo aggredita. Che nel suono, anche il più dolce, ci possa essere un quoziente di aggressività, è fenomeno risaputo. Lo dice molto bene Eugenio Borgna nel confrontare esperienza visiva ed uditiva. Il noto psichiatra enunzia lo stesso concetto espresso da Kant, ma illustra con un’immagine suggestiva la violenza devastante che l’esperienza sonora può esercitare nella sfera dell’Io. Ecco le sue parole: "La relazione che un’esperienza visiva (un colore ad esempio) ha con l’oggetto colorato, è radicalmente diversa dalla relazione che un’esperienza uditiva ha con la sua sorgente sonora. Un suono ‘si stacca’, come acqua che scaturisce da una fonte, dalla sua sorgente sonora, mentre un colore ‘aderisce’ fenomenicamente a un oggetto. Il contenuto di una percezione visiva ‘resta’ insomma al suo posto, mentre quello di una percezione uditiva ‘si muove’ e si avvicina. Un suono ci insegue e ci assale: non ci si può difendere se non ‘dopo’ essere stati afferrati. Dal contenuto di un’esperienza visiva si può invece fuggire ‘prima’ di essere stati afferrati".

Dalla musica di quel bar io mi sentivo assalita, invasa, violentata. Cercavo scampo nella fantasia immaginando un’arma-laser che zittisse gli altoparlanti o un apparecchietto che impedisse alle onde sonore di penetrare nella mia casa, nel mio terrazzo. Mi accorgevo intanto che la casa della mia infanzia, così amata, mi stava diventando invisa: incominciavo a detestarla. Non era più ‘casa amica’, ‘ventre materno’, si trasformava in uno spazio vischioso, in una prigione, in ‘casa nemica’. Ma mi accorsi anche – e ne ero costernata – che la musica stessa si metamorfizzava. Le canzoni della mia giovinezza non erano più loro. Quelle canzoni io le avevo amate, adesso le odiavo: risuonavano sinistre, bieche, insopportabili. Dunque non a me soltanto, ma alla musica stessa veniva inferto un danno: risuonava stravolta, si tramutava in strumento di tortura, suscitava sentimenti d’odio.

I paesani erano infuriati: ci furono battibecchi, denunzie, raccolte di firme. Ci si appellò ai vigili, ai carabinieri, si andò dal sindaco, si parlò con la giunta. Non si ottenne molto; crebbe la sfiducia nei vigili, nei carabinieri, nella giunta, nel sindaco: insomma, nella Pubblica Amministrazione. Il barista intanto procedeva imperterrito. Un giorno gli parlai, mi guardò incredulo, e mi rispose quasi accorato: "ma come, anche a lei che è musicista la musica non piace?". Tacqui, annichilita. Poco dopo ritornai a Bologna. Ero triste: per il mio paese, per la mia casa, per il Sud che – mi ripetevo – è arretrato, terra di nessuno, senza il senso dello Stato. Ma non era un problema Nord-Sud. Anche nella civilissima Bologna il fenomeno si andava espandendo: interi quartieri risuonavano come discoteche, e non c’erano distinzioni fra quartieri popolari e quartieri in. La musica, in questo senso, attuava una perfetta ‘eguaglianza’. Sul "Resto del Carlino" e sulla "Repubblica" di frequente si leggevano – e si leggono tuttora – lettere di cittadini esasperati, tutte accomunate dal leitmotiv dei miei paesani: la sfiducia nella Pubblica Amministrazione.

In questi anni ho riflettuto e qualche deduzione, forse banale, l’ho tratta. Se la musica talvolta diventa ‘disperazione’, se le abitazioni possono tramutarsi in ‘case nemiche’, in prigioni, ciò dipende da vari fattori. Ne elenco qualcuno.

(1) La musica, la più temporale delle arti, occupa spazio: fisico e psichico. Pertanto può ridurre quella zona privata, fisica e psichica, essenziale per la vita dell’Io e per la vita di relazione. Con l’eccesso di decibel può occupare brutalmente le abitazioni; ma sottovoce – è il caso della musica di sottofondo – può inserirsi nello spazio comunicativo che più persone condividono; in ambedue i casi, se l’uditore non vuole sentirla, essa occupa, o addirittura colonizza, lo spazio privatissimo della psiche.

(2) Si dà per scontato che sempre e dovunque, in ogni luogo e in ogni momento, la musica piaccia. Questa credenza risale ad un’idea condivisa, ad un luogo comune inveterato: ‘la musica unisce’. È vero sì che la musica unisce ed aggrega, ma solo chi da essa vuol essere unito ed aggregato: ossia unisce coloro che in una data musica si riconoscono. Proprio in forza di ciò, essa separa e segrega chi non vuole in essa riconoscersi. In tal caso, la musica di un gruppo diventa nemica degli individui che in quel gruppo non intendono inserirsi. Al mio paese, le canzoni del bar univano chi voleva ascoltarle, e a costoro risultavano gradite; ma segregavano me e gli altri poiché non volevamo sentirle, e a noi risultavano disperanti. (E qui – sia detto en passant – si manifesta tutta l’illusorietà di una credenza diffusa, e cioè che la musica all’aperto sia un antidoto efficace contro il degrado e la microcriminalità endemici in intere zone dei nostri centri storici. Un pubblico esercizio che di notte attiri gli avventori mediante musiche diffuse da altoparlanti all’aperto potrà magari tenere alla larga qualche malintenzionato, ma il prezzo che si paga è la devastazione della quiete notturna per i cittadini che abitano nella zona; è mai proponibile l’alternativa tra due violenze egualmente insopportabili, l’angoscia dello scippo o la nevrosi da insonnia?)

(3) Manca nella nostra società la coscienza diffusa che la musica produca inquinamento, e che questo inquinamento non sia equiparabile sic et simpliciter a quello acustico generico, ossia al rumore. L’inquinamento musicale è un inquinamento subdolo, perché particolare è l’elemento inquinante. Essendo la musica ‘linguaggio organizzato’, incide sul sistema limbico ed induce, con il ritmo, attivazione senso-motoria: anche i capolavori di Chopin o le più belle canzoni di Gino Paoli possono risultare insopportabili se in quel momento non si è psichicamente disposti a seguirli. (Ciò è tanto più vero se l’ascoltatore è musicalmente alfabetizzato. Per un musicista può essere particolarmente difficile compiere attività intellettuali, come leggere o scrivere, o anche solo conversare, se c’è musica; a guisa di una lingua nota, essa cattura il sistema cognitivo ed emotivo nella rete della sua organizzazione ritmica armonica melodica: il tapino non può fare a meno di seguirla.) Dai tre punti enunziati ne discende un quarto, importantissimo.

(4) L’amplificazione elettronica, è ovvio, aumenta a dismisura l’invadenza della musica, e i danni connessi: perché somma violenza a violenza con lo spostare i confini del suono e coll’aumentare la cerchia dei succubi. Reputo che la semplice abolizione degli amplificatori abbasserebbe ipso facto i livelli dell’inquinamento musicale. Ma sappiamo che molte musiche del giorno d’oggi non vivono, non esistono senza l’amplificazione.

Quegli anni in cui la mia casa fu occupata dalla musica io li definisco di ‘lutto’: è il termine col quale gli psichiatri indicano la perdita dolorosa di qualcosa che ci è caro; ed io infatti avvertivo di aver perduto la mia casa. Però stavo maturando la consapevolezza che il problema fosse assai diffuso: pensai dunque che bisognasse perlomeno discuterne. Magari con altri intellettuali, se è vero che il primo compito dell’intellettuale è di elaborare la comprensione della realtà, di coglierne le dinamiche per indirizzarle verso un’evoluzione propizia. Fu così che, grazie alla Soffitta e al "Saggiatore musicale", organizzammo una prima giornata di studio, interdisciplinare: nel 1998, proprio in questa sala. Responsabile scientifica fu Tullia Magrini, antropologa della musica, che scrisse la relazione di base. Invitammo il Sottosegretario all’Ambiente, on. Valerio Calzolaio: inviò un intervento formidabile, lo pubblicammo nella nostra rivista, assieme a quello della Magrini (li trovate nella cartellina). Sul momento fummo contenti di noi, avevamo aperto un discorso, che, tuttavia, conclusa la giornata di studio, sembrava già chiuso. Avevamo fatto ‘accademia’, un elegante incontro di distinti intellettuali: ma tutto era finito lì. Occorreva compiere un passo ulteriore. Bisognava sensibilizzare anche i giovani damsiani: dopotutto, spesso i laureati in Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo trovano impiego nella Pubblica Amministrazione, negli assessorati, nell’industria della comunicazione; ed è sempre opportuno che chi promuove, organizza, autorizza sia consapevole dei problemi prima che si presentino o s’incancreniscano. Ora, è sotto gli occhi di tutti (pardon, sotto le orecchie di tutti!) che il nostro ambiente urbano – luoghi pubblici, bar, ristoranti, ipermercati, mezzi di trasporto, piazze, parchi, locali d’intrattenimento – è invaso dalla musica. E che ciò danneggia tanti e dà luogo a polemiche talvolta veementi. Tentammo la sfida: organizzare un seminario nel quale gli studenti avrebbero appreso che l’abuso di musica è in primis un insulto alla musica, un danno ad essa arrecato perché comporta una conseguenza aberrante; àltera l’ascolto, riducendolo a indistinta esperienza sensoriale, in cui tutto è uguale a tutto. Esattamente il contrario di ciò che occorre per fruire la musica, qualsiasi musica: una discriminazione uditiva efficiente e non ovattata. In termini generali, poi, la capacità di ascoltare è essenziale alla relazione fra noi e gli altri, quindi indispensabile alla comunicazione, razionale e sentimentale, tra gli esseri umani.

Non poteva che essere l’interdisciplinarità il fondamento di un tale seminario. Perciò noi musicologi avremmo dovuto chiedere l’intervento delle Facoltà ‘forti’, Giurisprudenza Medicina Ingegneria. Ma, d’altra parte – ci siamo detti in un moto d’orgoglio –, la musica e gli studi sulla musica penetrano in campi disparati, dalla letteratura alla scienza, dalla storia dell’arte alla filosofia, dalla fisica alla psicologia: è questa la nostra forza. Non sarà giusto che proprio il DAMS coinvolga studiosi di discipline svariate perché affrontino assieme a noi un problema che avvertiamo urgente e che riguarda tutti? Non potremmo spingere noi i nostri dotti colleghi a focalizzare ancor più l’attenzione su un tema, importante non solo per la difesa e la tutela della musica ma anche per la qualità stessa della vita associata? I dotti colleghi compresero le nostre richieste, condivisero il nostro entusiasmo, si prestarono con generosità. Senza di loro – voglio citare innanzitutto Marcella Gola, Gianluca Gardini, Francesco Antonio Manzoli, Alessandro Cocchi – non avremmo potuto intraprendere un’avventura culturale stimolante: un seminario di quattro anni, di cui si è già concluso il secondo, rivolto agli studenti DAMS. Gli ‘alternativi ragazzi del DAMS’, tutti gel, ricciolini e piercing, hanno compreso anch’essi: si sono calati con slancio nello studio della dottrina giuridica, della giurisprudenza, della medicina; si caleranno l’anno prossimo anche nell’acustica e nella fisica, e nel quart’anno nella sociologia e nella comunicazione. Hanno prodotto tesine, hanno compiuto ricerche. E ci hanno aiutato ad organizzare questo convegno. Che nel titolo, Musica urbana, gioca sulla doppia accezione dell’aggettivo: urbana nel senso che ha luogo in un contesto urbano, comunque abitato; urbana nel senso kantiano, ossia provvista di discrezione. Il convegno, uno dei primi al mondo che affronti la questione sotto un profilo così profondamente interdisciplinare, vuol essere un momento di riflessione e di dialogo fra le tante parti coinvolte e interessate al fenomeno: musicologi, giuristi, medici, ingegneri, psicologi, sociologi, pedagogisti, amministratori, politici, rappresentanti delle associazioni ambientaliste, esercenti di locali pubblici. Desideriamo che l’urbanità sia lo stile del nostro convegno, e che la discussione sia improntata sempre alla ragionevolezza e alla civiltà.

Abbiamo lavorato parecchio per metterlo sù, questo convegno. Esso è la dimostrazione che la separatezza tra discipline umanistiche e scientifico-tecnologiche è una finzione intellettuale, non un riflesso della vita reale; tutte le discipline qui convocate, da sette diverse Facoltà universitarie, concorrono a definire e ad affrontare un problema che riguarda il benessere dell’uomo. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno contribuito, con il loro lavoro, il loro sapere, il loro sostegno, a rendere possibile il convegno (non tutti figurano sul programma). Il dopo convegno – l’idea è del professor Cocchi – potrà magari vedere la creazione di un master in Ecologia del suono: un master interfacoltà radicato nel corso di laurea DAMS ma con l’apporto delle discipline di Giurisprudenza, Medicina, Ingegneria, Comunicazione. E, aggiungo, Scienze della formazione: perché la consapevolezza della ricaduta educativa di un tema come questo è essenziale. Se infatti con la musica si educa, bisogna nel contempo educare all’uso e alla fruizione consapevole della musica. I colleghi pedagogisti svolgeranno perciò un ruolo essenziale.

La casa, il seminario, il convegno, il master: restano i tacchini. Sono stati uccisi trecento tacchini. Dal lupo o dalla volpe, penserete. Ai bambini una volta si raccontava che lupi e volpi uccidono polli e tacchini. Niente di tutto questo. I tacchini sono stati uccisi dalla musica. Non sto inventando una macabra favola per concludere la mia relazione: ahimè, il fatto è reale, la notizia si è letta nella "Repubblica" del 26 luglio scorso: "Trecento tacchini sono morti per il terrore causato dal frastuono di un rave party in campagna. È accaduto a Baone, nel Padovano, dove i tacchini di un allevamento sono stati improvvisamente svegliati nel cuore della notte dai boati degli amplificatori. I pennuti, terrorizzati, si sono ammassati contro una recinzione, calpestandosi a vicenda. Alla fine, ne sono rimasti a terra senza vita circa trecento". La musica, consolazione della vita, è diventata per i tacchini un killer. I giovani del rave party, possiamo esserne certi, non pensavano affatto di usarla come arma offensiva. Saranno stati anzi giovani pacifici, forse pacifisti, e magari anche vegetariani integralisti. E non è neppure detto che sia stato il ritmo del rock, così percussivo, ad uccidere le povere bestie: forse i tacchini sarebbero morti anche con la più bella sinfonia di Šostakovic o con la Nona di Beethoven. Sono morti perché non avevano bisogno di musica: volevano solo dormire, godere il sonno, riparatore per tutti gli esseri viventi delle ferite diurne. Gliel’hanno impedito. La musica ha tolto loro il sonno e lo spazio. La musica, creatura apparentemente priva di spessore, è penetrata nel recinto e, carica di inaudita violenza, li ha inchiodati all’angoscia, privandoli dello spazio vitale. Sono morti disperati, i poveri tacchini, schiacciati dalla sublime arte d’Apollo.

Sarò una donnetta, ma questi tacchini mi hanno commosso. Mi sono detta che il nostro convegno – fra le tante cose – dovrà essere anche un atto di riparazione per la morte di trecento animali, simbolo doloroso dell’ambiente violato, sia pur inconsapevolmente, dall’uomo. Se riparazione vuol essere, il convegno deve porsi uno scopo primario: sottolineare con energia che in una società civile la musica deve acquisire urbanità; il che equivale a dire che la musica va tutelata dagli abusi che possono stravolgerla; equivale anche a dire che la musica, quest’arte così fragile e così violenta, ha bisogno dei suoi luoghi, luoghi dove il dentro e il fuori siano ben definiti e ben delimitati. "Musica urbana", dunque, nel senso profondo del termine. Cioè non invadente, rispettosa, discreta. A disposizione di chi la desidera, assente da chi non la vuol sentire. In fondo, è quel che avrebbe voluto Kant: così l’avrebbe apprezzata di più e le avrebbe conferito il primo posto tra le arti. Musica come consolazione, perciò, non come disperazione. Perché – siamo tutti d’accordo, non è vero? – di musica, come gli afgani di Kabul, come gli americani di New York, vogliamo vivere; di musica, come i tacchini di Baone, non vogliamo morire.

   

PRESENTAZIONE

         

PROGRAMMA

          MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE
 

in collaborazione con

   
 
con il patrocinio di
World Forum for Acoustic Ecology
Regione Emilia Romagna
Provincia di Bologna - Assessorato alla Cultura
Comune di Bologna - Assessorato alla Sanità e Ambiente
Comune di S. Lazzaro di Savena - Assessorato alla Cultura e Ambiente

con il sostegno della
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna
e del
Ministero per i Beni e le Attività culturali
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