Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Attività 2002 SESTO COLLOQUIO DI MUSICOLOGIA

Conferenze e convegni

 
Sesto Colloquio di Musicologia
 
Bologna, 22-24 novembre 2002
 
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Dipartimento di Musica e Spettacolo
Palazzo Marescotti
Via Barberia 4
ABSTRACTS delle relazioni

Augusto Mazzoni (Brescia), La stratificazione dell'opera musicale: una questione estetico-filosofica

Quando si parla di stratificazione dell'opera musicale ci si riferisce sovente al pensiero di Heinrich Schenker. Come è noto, la teoria schenkeriana intende ogni composizione tonale come struttura organizzata su molteplici strati (Schichten), a partire da un livello profondo (Hintergrund) rappresentato dall’Ursatz, ossia da una struttura basilare che esprime il fondamento tonale-cadenzale del brano, attraverso livelli intermedi, fino a un livello esterno (Vordergrund) rappresentato dal brano nella sua concretezza. L’analisi musicale ha il compito di procedere a ritroso per scendere dalla partitura sempre più in profondità.
La visione schenkeriana si basa naturalmente su una concezione strutturale della musica, ma se lo si considera sotto un profilo estetico e filosofico è possibile elaborarne una concezione alquanto più ampia, in particolare grazie al confronto tra Hartmann e Ingarden.
In Das Problem des geistigen Seins (1933), Nicolai Hartmann ha descritto l'opera d'arte come oggetto stratificato: l'opera musicale, per esempio, possederebbe almeno due strati, uno esterno costituito dalla materia sonora e uno profondo costituito dal contenuto propriamente musicale. Nell'Ästhetik (1953) quest'idea è ripresa e ulteriormente ampliata. Roman Ingarden viceversa, e in polemica con Hartmann, ha propugnato una concezione dell'opera musicale come oggetto a un solo strato: come oggetto in cui i momenti non sonori (qualità formali, estetiche ed emotive) sono comunque impiantati nel substrato sonoro.
È evidente che in una prospettiva filosofica l'idea di stratificazione dell'opera musicale acquista sfumature assai differenti rispetto a quelle assunte in una prospettiva puramente teorico-analitica: la molteplicità degli strati (o perlomeno una loro intima complessità) indica non solo una articolazione secondo livelli strutturali, ma anche un'autentica ricchezza di senso e di significato.
Tutto questo, d'altra parte, può essere importante per la stessa riflessione musicologica se consideriamo, per esempio, che Carl Dahlhaus ha approfondito in senso critico le affermazioni di Ingarden, mentre Walter Wiora ha fatto propria l'impostazione di Hartmann. Un ulteriore sviluppo della questione promette esiti anche relativamente alla semiotica ed ermeneutica della musica.


Giorgio Pagannone (Bologna), "Rhapsody in Blue": un concerto metropolitano

Il concerto solistico è un banco di prova non soltanto per il solista, ma anche per il compositore che deve mediare tra le esigenze dell'orchestra e quelle del solo, tra la logica del discorso musicale e del virtuoso.
In Concerto Conversations (Harvard University Press, 1999), Joseph Kerman individua fondamentalmente tre tipi di rapporto tra solista e orchestra: Polarity, Reciprocity, Diffusion. In regime di polarità tra i due soggetti non c'è dialogo, né relazione (il dialogo si ha infatti quando due interlocutori parlano la stessa lingua, condividono un discorso). La reciprocità è invece l'arte del dialogo, della conversazione, ovvero della contesa. La diffusione è infine la negazione del dualismo: il solo rinuncia al proprio egocentrismo e si integra nell'orchestra in un tessuto sonoro e timbrico onnicomprensivo. Kerman ha notato come ogni epoca del concerto solistico privilegi uno dei fattori enunciati: il concerto barocco (in particolare Vivaldi) privilegia la polarità, quello classico-romantico la reciprocità, quello moderno la diffusione.
Rhapsody in Blue di Gershwin (1924) non viene mai citata nello studio di Kerman: si tratta invero di un concerto anomalo, se confrontato con la grande tradizione, e presenta problemi di assetto testuale e di attribuzione (esistono più versioni del pezzo, e si sa per certo che l'orchestrazione originale fu realizzata dall'arrangiatore ufficiale dell'orchestra di Paul Whiteman, Ferde Grofé). Il titolo stesso – Rhapsody, non Concerto è un'implicita ammissione di atipicità, quasi di estraneità, rispetto al genere in questione.
Ad un'analisi attenta e fondata sulle categorie di Kerman, la composizione presenta però un rapporto di reciprocità molto speciale tra solo e orchestra. Molti studiosi hanno osservato che nella musica di Gershwin, e in particolare in Rhapsody, agisce lo "spirito della metropoli". Lo stesso autore dichiarò che Rhapsody era "una specie di caleidoscopio musicale dell'America ... della nostra incomparabile follia metropolitana". Mario Pasi ha notato che "confluisce nella musica di Gershwin il sentimento della grande città, la proiezione umana del dialogo fra l'individuo e la metropoli". Il mio intervento mostra come questo particolarissimo dialogo tra individuo (solo) e metropoli (orchestra) si realizzi in Rhapsody, dove il rapporto di reciprocità sconfina quasi nella polarità: il solo reagisce – replays, nel gergo di Kerman – spesso in ritardo all'orchestra, sembra esigere lunghe parentesi solistiche (cadenze), per metabolizzare ed interiorizzare tutti gli stimoli (temi) che da quella – l'orchestra, ovvero la città – derivano.
Questo concerto rispecchia dunque la modernità, si pone come metafora della lotta, ovvero della distanza tra l'individuo e la metropoli, che con le sue mille voci, rumori e frenesie rischia di sommergerlo. Come antidoto alla follia metropolitana.


Lisa Navach (Cremona), Francesco Gasparini e Alessandro Scarlatti: una sfida all’ombra delle sirene partenopee?

Dopo un lungo torpore che aveva rallentato se non addirittura congelato la pubblicazione di cantate a Roma, nel 1695 Francesco Gasparini, quasi trentenne e ormai musicista in carriera, consegna alle stampe per i tipi di Mascardi la sua op. 1 dedicata alla duchessa di Maddaloni: una raccolta di dodici cantate per voce sola e basso continuo, le sue uniche cantate edite su un repertorio di oltre cento esemplari. A spingere Gasparini a pubblicare questa raccolta potrebbe essere stata la speranza di un impiego a Napoli, appoggiato dall’influente famiglia, più che un generico desiderio di riconoscimento pubblico. Proprio la duchessa, il cui ruolo è stato finora poco indagato nella biografia di Gasparini, sembra essere un primo trait d'union tra il musicista ed Alessandro Scarlatti di cui la famiglia Maddaloni fu a lungo tempo protettrice. L'amichevole rivalità tra i due compositori, chiaramente manifestatasi nella ben nota corrispondenza cantatistica Andate, o miei sospiri (1712), nonché da non pochi altri contatti biografici e musicali trova forse radici proprio in questi anni sul finire del XVII secolo. Li accomuna anche un testo – Augellin vago e canoro – musicato da entrambi a distanza di quattro anni (la cantata di Gasparini è inclusa nella sua op. 1, quella di Scarlatti è datata 16 giugno 1699). Diverse nella destinazione – l'una a stampa, l'altra manoscritta -, diverse nelle risorse musicali e nelle tecniche impiegate – l'una per soprano e basso continuo, l'altra con due flauti concertanti – le due cantate verranno analizzate per rivelarne differenze e analogie.


Saverio Lamacchia (Bologna), Quel despota del Conte, quel buono a nulla di Figaro: una rilettura di "Almaviva, o sia L'inutile precauzione"

vai all'intero articolo

Tutti sanno che in principio Il barbiere non era Il barbiere: la prima rappresentazione romana (1816) del capolavoro di Rossini andò in scena col titolo Almaviva, o sia L'inutile precauzione. Nel famoso "Avvertimento al pubblico" stampato in apertura del libretto, gli artefici del nuovo allestimento dichiarano la derivazione dell'argomento dalla celebre commedia Le Barbier de Séville ou La Précaution inutile di Beaumarchais (Parigi, 1775).
Essi motivano il cambiamento del titolo come gesto d'ossequio a Giovanni Paisiello, compositore dell’allora più nota trasposizione melodrammatica della pièce francese: Il barbiere di Siviglia, ovvero La precauzione inutile, Pietroburgo 1782.
In genere si è propensi ad accettare tale giustificazione: invero in modo irriflesso. Ci sono infatti diverse ragioni che sconsigliano di dare eccessivo credito all'"Avvertimento", la principale – e stranamente la più trascurata – delle quali è che Il barbiere di Paisiello non ebbe fortuna alcuna sui palcoscenici di Roma, dove forse non fu mai rappresentato.
Pare difficile quindi che Rossini – stante anche la consuetudine diffusa di dare nuova musica a soggetti già intonati – potesse preoccuparsi più di tanto del precedente di Paisiello, e il pubblico romano scaldarsi troppo per esso; come del resto il Pesarese ammise in una lettera datata 8 agosto 1868: "io non mi credetti per certo audace allorquando musicai (in dodici giorni) dopo il papà Paisiello il graziosissimo soggetto di Beaumarchais".
Partendo dalla circostanza della sostituzione di Figaro col Conte d'Almaviva nel titolo, s'intende proporre una lettura controcorrente del melodramma così come fu concepito originariamente da Sterbini e da Rossini, cioè comprensivo dell'aria finale del Conte "Cessa di più resistere", uscita precocemente dalla vita esecutiva e mai più ripristinata, neppure oggi dopo quasi tre decenni di Rossini renaissance. Quest'aria – in assoluto la più lunga e difficile dell'opera – rende evidente che quella ch'è diventata un'opera per baritono era nata come un'opera per tenore; e mi riferisco non solo e non tanto alle "convenienze teatrali" (il tenore Manuel García era certamente la star dell'allestimento), quanto alla deliberata volontà drammatica di Sterbini e di Rossini di dare un peso ed una caratterizzazione diversa ai personaggi di Almaviva e di Figaro rispetto ai modelli. L'aria del Conte – ed anche i molti altri significativi cambiamenti rispetto a Beaumarchais e a Paisiello, sui quali mi soffermerò – mette bene in chiaro come e perché Rosina e il Conte riescono a sposarsi e ad averla vinta su Bartolo: non certo grazie alla furbizia e alla scaltrezza di Figaro (la cui vitalità passa comunemente per abilità: i suoi bislacchi stratagemmi si rivelano però tutti fallimentari), quanto ad opera d'un deliberato atto di forza del Grande di Spagna, che fa valere nel momento decisivo le sue prerogative: "Zitto tu, qui si fa quello che dico io perché il più forte sono io", dice in sostanza a Bartolo, a parole e, quel che conta di più, in musica.
Insomma, vale la legge del più forte: altro che celebrazione delle virtù borghesi, dell'intuito e dell'intelligenza, tradizionalmente attribuita alle commedie dedicate a Figaro del nemico dell'Ancien Régime Beaumarchais (una visione che sembra aver condizionato troppi musicologi). Questa lettura dell'opera potrà essere difficile da accettare per noi oggi, ma in fondo è in linea con le idee dello scettico e conservatore Rossini.


Francesco Del Bravo (Siena), Problemi testuali in una "frase male istromentata" di Bellini

In una lettera a Bellaigue del 1898, Verdi si sofferma su un tema dell'Introduzione dell'Atto I di Norma, definendolo una "frase male istromentata, ma che nissuno ha mai fatto altra più celestiale". La frase cui viene fatto riferimento presenta diversi problemi testuali, che indicano come la "celestialità" melodica e la "cattiva stromentazione" siano parte di un unico percorso compositivo. Un'analisi attenta dell'autografo ci rivela infatti due volontà di fondo, mostrandoci il significato dei singoli dettagli (grafici, melodici, ritmici). Da un lato Bellini fa sì che ad ogni apparizione il tema, pure se tra esitazioni ed incongruenze, contenga elementi che lo differenzino dalle altre apparizioni. Dall'altro, all'interno di ogni apparizione, viene uniformata l'esposizione del tema alla sua ripetizione. Tale uniformità è stata raggiunta tramite interventi successivi alla prima stesura, in cui la ripetizione del tema aveva un profilo melodico più fiorito: è stato eliminato, cioè, un (se pur minimo) processo elaborativo, per presentare il tema nella forma più fiorita sin dalla sua esposizione. L'originale modello tematico A-A', però, viene mantenuto per mezzo della strumentazione (ad un uno stadio compositivo avanzato, quindi), tramite un diverso accompagnamento. Durante la stesura di un brano, dunque, Bellini sa mostrare attenzione compositiva sia nel raggiungimento della definizione melodica di una tema, sia nella sua strumentazione.


Elisabetta Fava (Torino), Il ‘tono di leggenda’ fra Biedermeier e stilizzazione

In ambito musicale il termine "tono di leggenda" ricorre esplicitamente nella sezione centrale della Fantasia op. 17 di Schumann; le modalità di scrittura a cui il compositore fa ricorso in questo frangente si riallacciano a un canone arcaicizzante definitosi soprattutto in ambito sia liederistico sia oratoriale. Nel primo caso si può fare riferimento a Carl Loewe (con Gregor auf dem Stein, Das Wunder auf der Flucht e altri), a Louis Spohr, in seguito allo stesso Schumann con Stirb, Lieb’ und Freude’ op. 35, poi Peter Cornelius con i Weihnachtslieder op. 8; quanto all’oratorio, si potrebbero citare numerosi esempi in cui ricorrono sezioni trattate in stile di leggenda, dal Siebenschläfer di Loewe fino alla Leggenda di Santa Elisabetta di Franz Liszt. Per mettere a fuoco gli agganci di questa leggenda musicale con la pittura e la letteratura coeve, è di particolare interesse un articolo di Friedrich Schlegel (Descrizione di dipinti da Parigi e dai Paesi Bassi, pubblicato sulla rivista Europa nel 1802) che istituisce apertamente un parallelo fra il primitivismo di alcuni pittori del periodo e una scrittura musicale "in deutlichen Akkorden": parallelo tanto più significativo in quanto Schlegel riprende testualmente varie considerazioni già espresse in romanzi di poco precedenti dove il rapporto musica-pittura era stato consapevolmente affermato (Ardinghello di Heinse, Herzensergiessungen di Wackenroder, Sternbalds Wanderungen di Tieck). L’articolo di Schlegel rappresentò il breviario estetico del cenacolo Nazareno; in quel periodo per i pittori l’immagine di Raffaello divenne l’esatto pendant di ciò che Palestrina rappresentava per i musicisti, con precisi riscontri stilistici (assenza del chiaroscuro, resa musicalmente dall’uniformità dinamica; nitore dei contorni, tradotto in una scrittura accordale, senza aloni, perfettamente regolare sotto il profilo metrico; tinte pastello un po’ appannate, cui corrisponde nella leggenda musicale il ricorso sistematico a stilemi arcaicizzanti). Da varie pagine di diari o epistolari di autori come Loewe, Spohr, Mendelssohn si ricavano infine testimonianze di un effettivo interesse per la pittura, espresso in termini che concordano con le interpretazioni riportate.


Luísa Cymbron (Lisbona), Drammaturgia italiana e influenze melodiche brasiliane nell'opera del compositore portoghese Francisco de Sá Noronha

L'utilizzo di modelli operistici italiani da parte di compositori di altre nazionalità costituisce senza dubbio un aspetto significativo della storia della ricezione. Con l'avanzare del XIX secolo, poi, questi modelli cessano progressivamente di essere lingua franca per porsi al servizio di tematiche nazionali o incrociarsi con altre influenze, a volte più lontane e esotiche.
Il Portogallo – dove la tradizione vocale italiana, religiosa e operistica predominava fin dal XVIII secolo – risente particolarmente del legame con il Brasile e vi si riscontra già molto presto, in un repertorio semierudito come quello della "modinha" la fusione di un melodizzare di natura operistica con melodie e ritmi di danze afro-brasiliane. Nel corso dei XIX secolo, e malgrado l'indipendenza del Brasile del 1822, il flusso di musicisti e di compagnie teatrali tra i due paesi fu intenso: il primo tentativo consistente di opere basate su testi della letteratura portoghese fu così importato proprio dal paese sudamericano.
Protagonista di questo tentativo fu il compositore e violinista Francisco de Sá Noronha (1820-1881), un portoghese che a diciotto anni si era trasferito in Brasile. Alla fine del 1859 questi rientrò a Lisbona portò con sé l'opera su testo italiano Beatrice di Portogallo destinata ad essere cantata al S. Carlos di Lisbona. L'idea di comporre un'opera su tema portoghese sembra esser stata influenzata dalla fondazione, a Rio de Janeiro nel 1857, dell'Imperial Academia de Música e Ópera Nacional, alla quale si devono anche le prime due opere di Antônìo Carlos Gomes. Durante la permanenza in Portogallo Noronha compose altre due opere: L'arco di sant'Anna (1865) e Tagir (1870), ispirata ad un romanzo di argomento brasiliano.
Questo intervento analizza alcuni esempi in cui il musicista portoghese muove da libretti tratti da opere di Almeida Garrett, iniziatore del Romanticismo letterario in Portogallo, e utilizza modelli drammatici e convenzioni formali della tradizione italiana (spesso per analogia di situazioni drammatiche come accade tra L'arco e Il trovatore di Verdi) e li contamina con influenze melodiche brasiliane.


Michele Curnis (Torino): "Salamandre ignivore... orme di passi": sul libretto di "Un Ballo in maschera"

Il libretto di Un ballo in maschera costituisce da sempre punto di passaggio obbligato degli studi sulla letteratura del teatro musicale, verdiano e non; le vicende della censura, gli innumerevoli cambiamenti di titolo, ambientazione, nomi e caratteri dei personaggi, l'unicità del prodotto finale (pressoché il solo libretto di Antonio Somma completato e musicato da Verdi, a differenza dello sfortunato Re Lear), contribuiscono ad affermare la suggestione esercitata dall’opera, unitamente all’originalità del libretto stesso. A tale originalità letteraria ogni musicologo ha accennato, soffermandosi ora sull'"innegabile carico di sciatterie e balordaggini" (Cassi Ramelli), ora sul fatto che Somma fosse comunque "un buon poeta" (Baldacci), ma il prodotto per Verdi sia comunque "uno dei suoi libretti più tartassati e artisticamente più infelici" (Oberdorfer). In realtà giudizi così contrastanti sul libretto di Un ballo in maschera derivano da disamine per lo più parziali, limitate a quei sintagmi considerati (a posteriori) anodini, errati, incomprensibili (valga per tutti "Sento l'orma de' passi spietati") e soprattutto condotte su di una prospettiva estetica non sorretta da adeguati riferimenti testuali. L'indagine lessicografica, ma ancor più quella filologica, di collazione dei testi, dimostrano la grande complessità del libretto di Somma, sempre sospeso tra fedeltà al modello (il libretto Gustave III ou Le Bal masqué di Eugène Scribe, musicato da Auber nel 1833) e innovazione terminologica, a sua volta giocata sul riuso di precedenti libretti (non a caso verdiani: in primo luogo Macbetb di Piave e Il trovatore di Cammarano; ma, a riprova dell'ammirazione per lo stesso Cammarano, anche Il reggente, desunto sempre da Scribe per la musica di Mercadante).
In I,6 l’indovina Ulrica invoca la "salamandra ignivora" che "tre volte sibilò": l'attributo "ignivoro" (opposto al più frequente ignivomo, ben attestato nel teatro musicale) appare essere hapax legómenon nell'intera letteratura italiana (almeno in ambito poetico) ed è segnale della peculiarità compositiva di Somma, che conia il metaplastico termine a partire dalla suggestione di un locus di Cammarano; nel Reggente, infatti, l’indovina Meg (antecedente strutturale di Ulrica) invocava un Belzebù dall'"occhio ignifero", affinché presiedesse alla predizione del futuro. L'intera scena creata quasi ex novo da Cammarano rispetto a Scribe sarebbe stata ripresa da Piave nel Macbeth (III,1: il Coro delle Streghe, con rispondenze lessicali estremamente puntuali), e ancora da Somma (che ricorda tutte le rielaborazioni, sul gusto del macabro, di Piave e del Cammarano del Trovatore) proprio per Un ballo in maschera. In un percorso poetico-leggendario che ha origine nella cultura antica (Ar. HA 552 b 16, Thphr. Ign. 60, Ael. NA 2, 31, Plin. 10, 188) e attraversa la poesia italiana, la qualifica della salamandra "che ne lo foco [...] dentro si nodrisce" (Chiaro Davanzati) raggiunge la sua sintesi più icastica all'interno di un libretto d'opera. Il gusto della preziosità verbale non sembra fine a sé stesso, ma rivela riferimenti letterari ben precisi: è il caso della ripresa di un hapax dantesco (Pd. 4, 28) come il verbo indiare nel verso "D'un amplesso che l'essere india".
Altra occorrenza, certo più eclatante, quella delle orme sentite in II,3; nel dibattito musicologico e letterario, sempre screziato di venature sarcastiche e ironiche sulla qualità della poesia 'asservita' alla musica, intervenne addirittura Francesco Flora per spiegare l’enigma delle orme sentite, forse eco di un passaggio manzoniano, della seconda versione dei Promessi sposi (ma il locus similis manzoniano non sarebbe allora l'unico da citare quasi solo per giustificare un'anomalia stilistica: il romanzo andrebbe additato anche a modello per altri riferimenti lessicali, tra cui la daga di II,3 e, non ultima, la stessa salamandra di I,6); altri hanno insistito sulla legittimità di sinestesie e metonimie del genere in base alla concitazione richiesta dalla scena; altri ancora hanno utilizzato il sintagma quale vessillo del dileggio o del ‘pietismo critico’ nei confronti del libretto d'opera. A onor del vero il verso di Somma, al di là della perspicuità dell'immagine, non è altro che tentativo di traduzione del modello francese, in cui compaiono già tutti gli ingredienti dell'immagine (espressione archetipica della piéce, tra le altre, il verso "leurs pas retentissent"): ad evitare annosi e sterili dibattiti sull'opportunità di espressioni del genere, sarebbe stato sufficiente improntare la ricerca con la semplice collazione filologica delle fonti.


Giangiorgio Satragni (Torino), Vita dietro il mito: il caso della "Liebe der Danae" di Richard Strauss

Die Liebe del Danae è la penultima opera composta da Richard Strauss, che tuttavia poté vederla in scena soltanto nel 1944 – due anni dopo il testamento teatrale Capriccio – e alla prova generale dello spettacolo programmato al Festival di Salisburgo: la cosiddetta "guerra totale" comportò, infatti, la chiusura dei teatri. Il soggetto fu proposto dall’abituale librettista Hugo von Hofmannstahl, scomparso nel 1929, a dieci anni dalla stesura di un abbozzo che venne poi ripreso tempo dopo dal musicista in collaborazione con Joseph Gregor.
Memore dell’idea maturata con Hofmannsthal, durante la genesi della Ägyptische Helena, del mito come specchio della vita e del teatro mitologico come metafora dell’esistenza umana, Strauss affronta in questa prospettiva l’amore di Danae e il congedo di Jupiter dal mondo dopo che la donna ha preferito l’amore per Mida al suo. Nel doppio congedo di Jupiter prima dalle regine in precedenza amate (Semele, Europa, Alcmene, Leda) e poi da Danae, Strauss sceglie il registro sublime d’un canto ampio e melodioso della grande orchestra. Sono i medesimi caratteri dell’addio supremo e crepuscolare dei Vier letzte Lieder. Separati da un interludio strumentale stilisticamente affine, e non meno significativo, in base alla strategia tonale e al registro elevato il congedo di Jupiter e il congedo di Strauss vengono sovrapposti: dietro Jupiter che prende coscienza di vivere in un mondo non più suo, sta nascosto Richard Strauss che si ritrae dal mondo.


Sandra Martani (Cremona), Il manoscritto Crypt. B. ß. II e il "proprium" liturgico di san Nilo

Il 25 settembre 1004, durante la celebrazione dei vespri, moriva Nilo, fondatore del monastero di Grottaferrata e una delle figure di maggiore rilievo del movimento monastico bizantino in Italia sia per la statura spirituale, sia per quella culturale.
Come racconta il suo agiografo, egli non si preoccupò solo di educare al canto i confratelli, ma fu egli stesso innografo; il suo insegnamento e la sua opera non restarono senza frutto: dopo di lui e fino agli inizi del XIII secolo, Grottaferrata conobbe la fioritura di una ricca produzione innografica, proprio quando, nella parte orientale del mondo greco, il genere era già in netto declino.
In questo quadro di rinnovata produzione musicale si inserisce anche la progressiva creazione di un proprium liturgico per celebrare degnamente il dies natalis di chi, di questa rinascita, era stato l'iniziatore. Al discepolo di Nilo, Bartolomeo, viene infatti attribuito il canone a lui dedicato che, assieme a due kathismata e a tre stichera, costituisce il primo nucleo di innografia in suo onore.
Progressivamente il rito acquisisce maggiore importanza e vengono create altre composizioni musicali: testimone di questa solennizzazione del culto di Nilo è il manoscritto Crypt. B. ß. II che raccoglie, insieme al Bios del santo, l'innografia a lui dedicata.
Alle soglie del millenario del sua morte, nel monastero di Grottaferrata continua ancora oggi a vivere il rito bizantino nella originale variante italo-greca: l’analisi delle composizioni a lui dedicate è inserita nel quadro dello sviluppo della musica e della liturgia bizantina.


Giuliano Di Bacco (Bologna-Ravenna), Filippotto d’Andrea da Caserta: un italiano a Parigi, o un francese in Lombardia?

Fra i compositori italiani di fine Trecento, Filippotto da Caserta è di quelli dalla biografia più ardua da ricostruire: a suo nome sono attribuite ballades polifoniche, trattati di canto figurato e contrappunto; c'è per esempio chi ritiene che dietro al profilo del personaggio così come lo si ricostruisce (Grove 2001) si celino in verità le identità e attività di due persone distinte (di Andrea / da Caserta).
In ogni caso, alcuni brani celebrativi indirizzati a Clemente VII antipapa e a lui attribuiti sono stati collegati ora alla residenza della curia pontificia nel napoletano, ora al possibile soggiorno del musicista ad Avignone. Un'ipotesi molto fortunata, almeno fino a un paio di anni fa, ne poneva in verità il floruit alla corte pavese di Giangaleazzo Visconti, in compagnia di un gruppo di musicisti francesi che avrebbero avuto un ruolo centrale nella diffusione in Italia della cosiddetta Ars subtilior.
Indagini più recenti tendono però a sottolineare come tale repertorio fosse coltivato originariamente (e soprattutto) in ambienti culturali parigini: a questo punto sarebbe importante poter confermare l'attribuzione al compositore del trattato De diversis figuris, che più di tutti rispecchia le particolarità tecniche (perlopiù ritmiche) di quell'arte "più sottile", e che si ha ragione di credere sia stato scritto in Italia; purtroppo, ad aumentare la confusione, anche tale dato è oggetto di un irrisolto contenzioso tra studiosi.
Questo intervento cerca di metter ordine alle varie ipotesi concorrenti, ai dati, vecchi e nuovi, che emergono perlopiù dalla lettura delle opere sia pratiche che teoriche legate a quel nome. Valuta poi soprattutto gli scritti teorici (in particolare quelli conservati in manoscritti oggi a Firenze Napoli Siviglia Washington), e introduce nella discussione una possibile variante documentaria di parte avignonese; propone quindi di considerare questo personaggio un simbolo, un'immagine assai poco definita nel suo rapporto con le "sue" opere già al tempo della loro prima circolazione. Ragionando in negativo, e rinunciando per un attimo a confezionare una biografia più attendibile di questo Filippotto, se costui davvero non fosse l'autore di una buona parte di ciò che gli viene attribuito, si dovrebbe pur tentare di scrivere il non meno interessante capitolo del quando e perché, del chi o del che cosa possa aver contribuito a costruire su quel nome una delle auctoritates del periodo la cui influenza su chi si occupa di quella musica dura tuttora.


Renata Pieragostini (Parma), Indizi sulla musica in una cronaca figurata del Grande Scisma

Una delle più importanti ripercussioni del Grande Scisma (1378-1417) sulla storia della musica è l'impulso dato a quella vasta circolazione di musicisti, e fonti musicali, che rende possibile nel primo Quattrocento l'origine e lo sviluppo di un repertorio 'internazionale'. La Curia romana, inoltre, è di fatto un'istituzione itinerante, e gli spostamenti delle cappelle papali e cardinalizie coinvolgono cantori e compositori, repertori e manoscritti: in questo quadro storico e culturale così dinamico sono attivi compositori e teorici come Johannes Ciconia, Antonio Zacara da Teramo, Ugolino da Orvieto, nonché il più giovane Guillaume Dufay.
Com'è noto, furono soprattutto i grandi Concili (Pisa 1409 e Costanza 1414-1418), a costituire le principali occasioni di contatto fra repertori e musicisti; ma anche a favorire una più intensa contiguità della musica con altre discipline e manifestazioni della vita culturale (ad esempio i dibattiti sulle questioni dottrinali, le forme della propaganda politica, la riflessione filosofica o la produzione letteraria). Di questa vicinanza resta talvolta traccia in testi non musicali, fonti di grande importanza per una migliore comprensione del repertorio specie se elaborati nel medesimi ambienti (così, ad esempio, alcuni testi di mottetti celebrativi composti nel periodo dello Scisma sono più facilmente decifrabili non solo nel loro contesto politico-culturale, ma anche tramite il raffronto con contigue testimonianze letterarie, o artistiche).
Un documento di notevole valore in questo senso sta in un codice redatto nel 1419: si tratta di una cronaca figurata dei principali avvenimenti dello Scisma, con preziosi riferimenti alla musica finora passati inosservati. Dell'autore del testo, l'udinese Antonio Baldana, è nota l’appartenenza agli entourages dell’imperatore Sigismondo (all'epoca del Concilio di Costanza) e dei papi Martino V e Eugenio IV.
Il codice non conserva tracce di notazione o di trattatistica musicale, ma esprime un'interessante visione sulla musica, alla quale è assegnato un ruolo di primaria importanza al culmine della narrazione: musica e canto sono infatti associati ad un particolare registro stilistico considerato dall'autore il più perfetto stile retorico, destinato alla celebrazione dell'incoronazione papale di Oddo Colonna e all'espressione dell'esultanza per la fine dello Scisma. Una singolare rappresentazione figurata della pratica polifonica, che sembra non avere riscontri altrove, è posta a conclusione della cronaca e collegata con questo perfettissimo stile.
La considerazione del tutto particolare che l'autore mostra verso la musica sarebbe un fatto già degno di nota; ma il valore di questo codice risiede per noi soprattutto nel contesto culturale entro il quale è stato prodotto e nelle osservazioni che è possibile trarne per lo studio del repertorio.


Daniele Filippi (Cremona), Ockeghem, Josquin, Gaffurio. In margine ad un motetto "missalis"

Nonostante il vivo interesse che il repertorio quattrocentesco milanese dei motetti "missales" continua a suscitare, soprattutto dal punto di vista storico, è notevole la carenza di indagini analitiche che insistano su questo corpus. Nel caso poi di Franchino Gaffurio, la straordinaria importanza del teorico e trattatista ha messo in ombra il compositore e la sua la produzione musicale.
La relazione presenta i risultati di un primo sondaggio analitico condotto sul mottetti di Gaffurio: tra i dati emersi merita particolare discussione la presenza di un'estesa citazione della celebre chanson di Ockeghem D'ung aultre amer in uno dei mottetti missales degli anni '80. Non sorprende tale presenza nel contesto musicale dell'epoca, ma è inedita per la moderna conoscenza di questo specifico repertorio: lo studio muove dalla recezione gaffuriana dell'opera di Ockeghem in sede teorica, e chiama in causa altre ben più note citazioni della medesima cbanson nella produzione motettistica coeva.


Laura Leante (Roma), "Bhangra" e identità culturale nella diaspora del Punjab

Il bhangra è in origine una danza maschile legata alle festività di raccolta nei villaggi agricoli del Punjab (India nord-occidentale). Durante gli anni Sessanta e Settanta, due consistenti migrazioni portarono le popolazioni del Punjab in Inghilterra, soprattutto a Birmingharn e a Londra. Qui, alla fine degli anni Settanta, la comunità indiana ha dato origine ad una nuova forma di bhangra, caratterizzata dalla fusione della danza tradizionale con la musica pop anglo-americana. Il British bhangra divenne così, per le nuove generazioni indiane nate in Inghilterra, un mezzo per identificarsi come "indiani in occidente" e di riaffermare i propri valori sociali tradizionali.
Nella sua forma ricontestualizzata, in Gran Bretagna – e in seguito anche presso le altre comunità di diaspora del Punjab -, il bhangra ha incorporato altri tratti delle tradizioni musicali del Punjab e ha trovato nuovi contesti di esecuzione; non viene suonato e danzato solo in occasione di processioni religiose, feste private e festival musicali, ma anche in una forma di ballo individuale (sia maschile che femminile), e dagli spazi aperti si è spostato nei locali londinesi. Allo stesso tempo, a livello più strettamente musicale, il crossover tra i caratteri tradizionali indiani e il pop anglo-americano s’è realizzato attraverso l'appropriazione di strumenti, forme e sonorità dell'idioma pop occidentale e la diffusione di vari sottogeneri che seguono le tendenze del mercato.
Quali sono le modalità mediante cui questa popular music viene creata? Su quali basi avviene il crossover? Perchè proprio il bhangra è divenuto il genere che rappresenta l'identità culturale della diaspora del Punjab? Quali sono i meccanismi che hanno portato al sorgere di questo specifico genere musicale nella trasmissione e nella rappresentazione dei valori culturali nel contesto diasporico? Questo intervento risponde a queste domande con riferimento alla produzione di gruppi britannici e al materiale video raccolto in una ricerca sul campo.


Simone Tarsitani (Roma), Elementi di analisi melodico-ritmica dei canti liturgici nei rituali di "zikri" ("dhikr") a Harar (Etiopia)

Lo zikri è una forma di canto devozionale islamico in lode di Allah, del profeta e dei santi, in cui l'esecuzione responsoriale dei testi sacri è accompagnata da tamburi e crotali di legno. Questa diffusa pratica dell'Islam popolare svolge una funzione rilevante nella vita sociale e religiosa della città di Harar (Etiopia orientale), punto di riferimento per molte confraternite sufi del Corno d'Africa.
I repertori cantati dello zikri hararino sono esempi significativi dell’uso della musica nei rituali religiosi dell'ascetismo musulmano; costituiscono inoltre, per alcune loro specificità, una manifestazione del tutto particolare del culto dei santi. Per comprenderne il significato occorre collocare tali repertori e tali pratiche nell'ambito della complessa storia di Harar e della realtà devozionale, specificamente hararina, dei santuari e degli altri luoghi di culto.
Dalle registrazioni da me effettuate è emersa la ricchezza del repertorio legato ai contesti religiosi di Harar e in particolare dello zikri, la forma più viva e significativa della musica tradizionale maschile. Questo corpus documentario – l'unico ad oggi esistente sulla musica hararina – permette di comprendere gli elementi formali, ritmici, melodici e testuali che caratterizzano questo repertorio, insieme ai sui contesti socio-culturali.
Questo intervento affronta, in particolare, l'analisi degli aspetti melodico-ritmici dei canti zikri di Harar.


Nicola Scaldaferri (Milano), Santi, alberi, animali e suoni. Una ricerca sui riti arborei lucani

Gli studi del demologo Giovanni Battista Bronzini avevano portato alla ribalta, quarant'anni fa, la festa del maggio di Accettura (MT). Il martedì di Pentecoste, su un cerro di oltre trenta metri – il maggio – viene issato un agrifoglio – la cima. Innalzati sulla piazza, maggio e cima vengono salutate dal passaggio della processione religiosa di S. Giuliano; diventano poi bersaglio dei fucili dei cacciatori che mirano ai premi nascosti nella cima ed infine vengono scalati a mani nude dai giovani del posto. Questi sono i momenti culminanti di un rituale che dura parecchi giorni e comprende la scelta accurata dei due alberi in due boschi distanti, il taglio, il trasporto (quello del maggio è effettuato da decine di coppie di buoi) la messa all'asta e l'abbattimento. Il rito di Accettura è uno dei tanti che si svolgono nella stagione primaverile in vari paesi della Basilicata e della Calabria settentrionale, in particolare a Castelsaraceno (PZ), Alessandria del Carretto (CS) e Rotonda (PZ). Di probabile origine pagana (si tratterebbe in effetti dell'unione propiziatoria di due alberi) questi riti si presentano ora inglobati nei calendari delle feste cristiane primaverili, soprattutto in quella di S. Antonio da Padova. Il coinvolgimento totale della popolazione e l'enorme impegno organizzativo fa sì che i riti arborei siano le feste principali per i centri in cui sono praticati e che la loro preparazione venga seguita per tutto l'anno. Nei riti arborei la presenza della musica è di fondamentale importanza; zampogne, surduline, tamburelli, fisarmoniche, organetti – ma anche gruppi bandistici – accompagnano costantemente tutte le fasi del rito e si mescolano ai suoni dei campanacci e ai muggiti dei buoi coinvolti durante il trasporto degli alberi. La presenza sonora diventa particolarmente intensa soprattutto nei momenti dove è richiesto notevole sforzo fisico, come il trasporto dei tronchi e le scalate. I riti arborei, come altre feste dell'area caratterizzate dalla mescolanza di sacro e profano (in primo luogo quella della Madonna del Pollino) costituiscono un autentico concentrato di situazioni musicali e dunque occasioni privilegiate per lo studio della musica tradizionale lucana; riservano tuttavia anche delle sorprese, come la presenza di complessi di pifferi e tamburi piuttosto insoliti nel panorama musicale meridionale. L’intervento offre un primo bilancio d’una ricerca ancora in atto, condotta con la consulenza di Ferdinando Mirizzi, per la parte antropologica. Con l'ausilio di documenti audiovisivi, si traccia un quadro dei riti arborei nell'area lucana e delle principali manifestazioni musicali ad essi collegate, e si indicano le prospettive di studio che ne derivano.


Anna Ficarella (Bari), Mahler interprete: il Kapellmeister e il gusto musicale della Vienna "fin de siècle"

Nella poliedrica personalità di Gustav Mahler, l'attività di musicista interprete, svolta nella triplice veste di direttore d'orchestra, regista e sovrintendente teatrale – riveste un'importanza pari alla sua attività di compositore. Nel giudizio dei suoi contemporanei, MahIer era innanzitutto il Kapellmeister e il direttore artistico che aveva portato l'Opera di corte di Vienna e l'orchestra dei Wiener Philharmoniker a livelli di eccellenza mai raggiunti fino ad allora. Al di là di false mitizzazioni riguardo all'ostilità dell'opinione pubblica tedesca e austro-ungarica nei confronti del musicista di origine ebraica emigrato dalla Boemia, in realtà l'interprete Mahler ebbe a Vienna, e in tutti gli altri luoghi in cui operò, più ammiratori che detrattori, pur tra le aspre polemiche che inevitabilmente suscitava una figura di artista come la sua non incline a compromessi in una società molto orgogliosa delle proprie tradizioni musicali com’era quella mitteleuropea e viennese in particolare. Proprio il confronto critico, talvolta conflittuale, con quella tradizione, è il minimo comune denominatore fra la pratica compositiva e quella interpretativa di Mahler, il cui atteggiamento da "usurpatore" – per citare Eggebrecht – riguarda anche il rapporto con le musiche che dirigeva e le opere che metteva in scena, il suo identificarsi a tal punto negli autori interpretati da rendere legittimo il sostituirvisi. Il ruolo determinante di innovatore culturale svolto da Mahler è testimoniato innanzitutto dalla coerenza e dalla lungimiranza nell'organizzare le stagioni concertistiche e teatrali. Più complicato risulta ricostruire la sua estetica interpretativa e la sua prassi direttoriale per la mancanza di documenti audiovisivi attendibili. Nel 1992 sono stati riversati su cd i rulli pianistici Welte Mignon registrati da Mahler nel novembre 1905, comprendenti due Lieder e le riduzioni pianistiche di due movimenti sinfonici (il quarto movimento della Quarta sinfonia, senza la parte vocale, e il primo della Quinta): pur senza voler sminuire il valore storico di questo documento sonoro, esso tuttavia, per gli evidenti limiti tecnici del mezzo di riproduzione, può essere preso in considerazione solo con molta cautela. In quest'ambito le uniche fonti valide sono costituite dalle testimonianze dell'epoca e soprattutto dalle partiture usate da Mahler per dirigere, ricche di annotazioni e ritocchi alle musiche da lui dirette – sia che si trattasse delle proprie composizioni sia di musiche altrui. Sono documenti preziosi non solo per ricostruire l'approccio dell'interprete Mahler al repertorio musicale, che segna un punto di svolta nell'evoluzione del gusto musicale e nella storia dell'interpretazione del XX secolo, ma anche per indagare l'interazione fra il compositore-creatore e l'interprete ri-creatore. Dal loro esame emerge la sua ‘ossessione’ per i dettagli della strumentazione e per la massima chiarezza di articolazione e fraseggio, in particolare nell'interpretazione dei classici e dei romantici: sono tentativi di adeguare la scrittura a quelle che lui riteneva le effettive intenzioni del compositore, impossibili da realizzare senza tener conto del profondo mutamento delle condizioni esecutive, come era stato sostenuto già da Wagner particolarmente in rapporto all'interpretazione di Beethoven. Dai ritocchi alle partiture e dalle testimonianze critiche spesso contrastanti sul suo stile interpretativo – considerato da alcuni eccessivamente dettagliato e analitico, da altri troppo emotivamente espressivo – si può forse evincere che la preoccupazione principale del Mahler interprete fosse di conciliare l'Ausdrucksmusizieren con l'esigenza di chiarezza e precisione: sono, queste, le stesse caratteristiche dei ritocchi all'orchestrazione e delle indicazioni esecutive che ‘affollano’ le sue sinfonie, non a caso frutto anch'essi di innumerevoli revisioni durante le prove d'orchestra. Anche nelle partiture delle sue musiche si sovrappone l'esperienza artistica dell'interprete e quella del compositore, accomunate da un rapporto ambivalente con la scrittura musicale che non assume mai forma definitiva, nel tentativo di fissare nel modo più preciso possibile la propria immagine musicale.


Luca Conti (Roma), Il "sistema natural-aproximado" di Augusto Novaro

La figura di Augusto Novaro (1893-1960) è a tutt’oggi poco nota. Eppure le realizzazioni di questo originale teorico e costruttore di strumenti messicano meritano maggior attenzione se si intende ricostruire i filoni più originali della musica del continente americano. Nella prima metà del Novecento Novaro si dedicò in particolare alla ricerca acustica e matematica, progettò alcuni nuovi strumenti musicali e compì adattamenti su alcuni di quelli esistenti.
Non ebbe formazione accademica, per molti anni si guadagnò da vivere come linotipista per alcuni quotidiani di Città del Messico e studiò pianoforte e composizione con Luis Alfonso Marrón. Nel 1909 iniziò le sperimentazioni musicali; pubblicò il primo saggio nel 1924, nel medesimo anno in cui Julián Carrillo avviò la rivoluzione dei Sonido 13. Nonostante un apparente disinteresse reciproco, le teorie di Carrillo e Novaro hanno punti di contatto che pongono una serie di problemi critici. Nel 1931, Novaro pubblicò la Teoría de la música, base del sistema musical, successivamente rielaborato e riedito nel 1951. Al centro dell'interesse di Novaro è il sistema "naturale-approssimato". Non ha intenzioni dissimili da quelle di Carrillo: Novaro è animato dalla "preoccupazione che si ascolti la vera musica", mediante un avvicinamento maggiore a quello che egli chiama il "sistema naturale", di cui il temperamento equabile costituisce una prima e grossolana approssimazione. Il sistema naturale è invece formato da intervalli disuguali, pertanto anche nel sistema "naturale–approssimato" devono essere riprodotte queste asimmetrie interne. Novaro si preoccupa di dimostrare la sua teoria su un triplice fronte: fisico, matematico e fisiologico.
Questo intervento focalizza gli aspetti più rilevanti della teoria di Novaro a partire dallo studio Sistema nutural, base del natural-aproxímado, edito nel 1927 a Città del Messico. L'interesse per questo autore non si esaurisce però sulla teoria: Novaro progettò pianoforti, violini, chitarre e liuti speciali con accordature temperate a 12, 19, 22, 31 etc. suoni nell'ambito dell'ottava, oltre a strumenti originali (Minovar, Lanovar, Renovar, Sinovar, Donovar e Solnovar) con diverse accordature.
Sono straordinarie le casse acustiche spiraliformi che lo studioso costruì, a partire dalle sue speculazioni a metà strada tra l'acustica e la geometria. Novaro ricevette una borsa di studio della Guggenheim Foundation nel 1931, lo stesso anno di Henry Cowell, per continuare le sue ricerche. Poté così lavorare anche in importanti centri di ricerca statunitensi, come Bell Telephone Laboratories e la University of Iowa, contribuendo in questo modo – assieme a Carríllo, Revueltas, Nancarrow, Copland e Chávez – ad accrescere la circolazione di nuove idee musicali tra il Messico e gli Stati Uniti.


Daniela Tortora (Napoli), "I sette colori del vento": il suono elettronico dell'organo

Les Sept couleurs du vent è il titolo di un romanzo di Bernard Tirtiaux poco noto in Italia e dedicato all'organo e alle sue speciali geometrie aeree. Unitamente al suo più eloquente sottotitolo "omaggio all'organo, all'aria, ai mantici d'ogni sorta", ha presentato una manciata di concerti svoltisi a Roma nella passata stagione concertistica invernale. Da questa rassegna, da questo evento, ma più in particolare dal concerto inaugurale, concepito in forma di omaggio [nell'omaggio] ad Arnold Schönberg (nel 2001 cadevano, per l'appunto, i cinquant'anni dalla sua scomparsa), e letteralmente calamitato da un'opera monumentum quale le Variations on a Recitative op. 40 (1941), ho inteso prendere spunto per la definizione dell'oggetto della relazione in esame.
La proposta riposa, per la verità, sul seguente radicato convincimento: il contributo dei grandi interpreti dell'epoca attuale, attraverso la particolare lettura delle opere del passato, attraverso gli accostamenti e gli itinerari più o meno consueti, può essere determinante per la conoscenza e la comprensione della musica del nostro tempo (penso all'esegesi dell'opera tastieristica di J. S. Bach elaborata da Glenn Gould, penso alle pagine pianistiche di Mozart, di Chopin, di Debussy e all'orma indelebile che vi ha impresso la fascinosa interpretazione di Arturo Benedetti Michelangeli, penso alle ultime sonate beethoveniane e ai tanti lavori del Novecento affidati alle cure analitiche di Maurizio Pollini). A questi musicisti – e ad innumerevoli altri, naturalmente – dobbiamo una ricezione del passato capace di svelarci le ragioni del presente e di parteciparci un'intelligenza delle cose musicali contemporanee, così come dei percorsi lungo i quali si è snodata l'esperienza musicale moderna, essenziale non soltanto per la formazione del gusto, ma anche per la riflessione in sede storico-critica da parte dell'intera comunità musicologica.
L'ascolto in concerto delle tarde variazioni schönberghiane, inserite in un contesto significativo ed esaltante, ha confermato il carattere assolutamente sperimentale di questo lavoro. Alla luce di alcuni documenti, già discussi altrove ma con finalità completamente diverse, si indaga il significato effettivo di quella tensione sperimentale, inquadrandola nel contesto delle coeve ricerche americane sul suono e sulla produzione sonora artificiale.


Luisa Bassetto (Venezia), Gli scritti di André Schaeffner

André Schaeffner è tra le personalità determinanti nella vita musicale del XX secolo. Musicista ed etnologo, formatosi sotto la guida di Marcel Mauss, Romain Rolland e Vincent d'Indy, manifestò presto la sua originalità interessandosi dapprima alla musica contemporanea, allargando in seguito la sua ricerca al jazz e alle musiche extra-europee, in particolare alla musica africana.
L'esame degli scritti di Schaeffner sulla musica africana pone in rilievo da un lato i modi e le circostanze di ricezione e di consumo attraverso cui quella musica acquista una dimensione sociale, quando influisce sui comportamenti e le consuetudini collettive, dall'altro i modi in cui le strutture e i comportamenti sociali influiscono sui caratteri e le forme specifiche del linguaggio e della produzione musicale.
André Schaeffner fu attento studioso della musica del Novecento. La sua amicizia con Stravinskij, Milhaud, Poulenc fece di lui un osservatore privilegiato della creazione musicale in Francia tra le due guerre. Negli anni successivi prese atto e documentò le tendenze e gli sviluppi della produzione musicale più aggiornata, in particolare quella di Boulez con il quale intrattenne una lunga corrispondenza (1954-1970).
Attraverso documenti inediti, recentemente accessibili, saranno indagate le interferenze tra musicologia e creazione musicale e, più in particolare, i legami tra musica contemporanea ed etnomusicologia. La recente pubblicazione della corrispondenza tra Boulez e Schaeffner, a cura di Rosangela Pereira de Tugny, rivela il vivo interesse del compositore per l'acquisizione di conoscenze tecnico-formali sulla musica extra-europea nonché per la scoperta dei suoi valori estetici.


Alessandro Mastropietro (Roma), Aldo Clementi e Franco Evangelisti: la definizione di un nuovo teatro musicale a Roma nei primi anni ’60

Collage, azione musicale in un tempo su materiale visivo di Achille Perilli di Aldo Clementi costituisce la prima espressione romana (Teatro Eliseo, 14-16 maggio 1961) di un nuovo teatro musicale: "nuovo" non solo per linguaggio musicale e sperimentazione, ma anche per i presupposti totalmente rinnovati rispetto alla precedente generazione compositiva. Essi continueranno ad essere operativi, in forme diverse, lungo tutta la produzione delle neo-avanguardie operanti a Roma nel decennio successivo (Macchi, Guaccero, Bussotti, Bertoncini, fino al Pennisi di Sylvia Simplex), ma in particolare nell’impianto di Die Schachtel di Franco Evangelisti; questa Pantomima su soggetto e idee di Franco Nonnis, concepita tra il 1962 e il 1963, fu commissionata dal Teatro di Bochum, ma è impensabile fuori del contesto romano, dove la definizione di un nuovo teatro musicale si sviluppa su tre direttive:

1) nei primissimi anni del decennio, una drammaturgia imperniata non su un testo da musicare, ma su un progetto sperimentale nel quale la componente visiva, segnatamente pittorica o grafica, ha un ruolo spesso fondante; in seguito, la presenza di un testo verrà recuperata attraverso il confronto con fenomeni teatrali collegati sia – implicitamente – alle avanguardie internazionali della prima metà del secolo, sia – direttamente – alle sperimentazioni dell’area romana (le "cantine", i gruppi di ricerca attivi intorno a Carlo Quartucci, Carmelo Bene, Giancarlo Celli, Antonio Calenda…);
2) l’integrazione, nel progetto scenico, di materiali e forme espressive di varia natura (oltre alle componenti musicale, visivo-pittorica e mimico-gestuale, anche film, diapositive, oggetti e sculture in movimento, pensati e realizzati con il concorso di importanti artisti operanti a Roma);
3) un confronto implicito con la posizione estetica di Cage.

Se molti sono i tratti comuni (l’ideazione condotta a stretto contatto con un importante artista delle avanguardie visive allora attive a Roma, Perilli per Clementi e Nonnis per Evangelisti; l’assenza del canto; la chiave di lettura relativa alla condizione sociale dell’uomo…), Collage e Die Schachtel assumono però un ruolo diverso nella produzione dei rispettivi autori. Die Schachtel è una sintesi dell’esperienza di Evangelisti: precede di poco la cessazione dell’attività compositiva in favore di quella performativa nel Gruppo d’Improvvisazione di Nuova Consonanza, ma presenta un’innovativa frizione-integrazione, in chiave teatrale, di strutture strumentali e montaggi di nastri "concreti". Collage rappresenta invece uno snodo centrale nella produzione di Clementi: il titolo non allude solo al collage degli elementi – musica, fondali dipinti, lanterna magica e mobiles – dello spettacolo, ma anche alla stratificazione e montaggio, nella partitura, di superfici sonore riprese da precedenti lavori (soprattutto gli Ideogrammi 1 e 2) con altre composte ex novo, secondo un processo di "velatura" che Clementi userà costantemente fino alla sua produzione "diatonica". Il musicista catanese deriva questo procedimento dall’incipiente pittura informale, negli anni successivi guida tecnico-concettuale, salvo essere qui applicato con un’attitudine – più geometrica che materica – ancora debitrice dell’esperienza di Darmstadt. Sono state discusse inoltre le relazioni che ambedue le partiture instaurano con l’apparato scenico e visivo (insieme organiche, per un comune approccio nel formare la materia dell’espressione, e cageane), e le strutture drammaturgiche dei lavori, in apparenza "non-narrative": eppure Collage si regge proprio su un plot narrativo, ma astratto, che Perilli costruì attorno alla storia dell’homunculus alchemico; l’alchimia era dunque per Perilli una forma di astrazione, di codificazione del pensiero che, conservando una struttura narrativa, poteva essere messa a frutto in un contesto teatrale quale armatura per l’interazione delle diverse forme d’espressione. Nonostante tenda ad una disposizione spaziale-visiva – libera quanto ad orientamento – degli oggetti sonori, Collage presenta dunque una drammaturgia vincolata sintagmaticamente; Evangelisti sembra invece partire da una concezione paradigmatica: le strutture scenico-musicali possono, in via di principio, essere permutate di posizione, a scelta del regista e del direttore, nel rispetto delle relazioni paradigmatiche al loro interno (presenza e funzione delle varie componenti: musica, proiezioni, luci, nastro, voce amplificata, mimi, scenografia). Tuttavia, un telos è ineliminabile anche in Die Schachtel, ed è direzionato verso il crollo finale della scatola in quanto simbolo / luogo concreto dell’agire sociale dell’uomo oggi.


Daniela Tripputi (Bologna), Violoncelle-slalom: la musica secondo Robert Doisneau

Negli ultimi decenni ha avuto corso un processo di graduale ampliamento del campo d'indagine dell'iconografia musicale quale specifica disciplina musicologica; il che ha portato a comprendere nelle sue fonti di studio qualsiasi documento che visualizzi la musica o concretamente o in modo astratto e testimoni la riflessione di un artista sulla musica. Il materiale di studio dell'iconografia musicale può dunque spaziare dall'illustrazione di un testo all'arte figurativa e astratta in relazione alla diversità di fonti iconografiche fornite da ciascuna cultura ed epoca storica. In quest'ottica si pone l'analisi di alcune immagini tratte dalla "sinfonia fotomusicale", dal titolo Violoncelle-slalom, realizzata da Robert Doisneau. Quest'opera fotografica, cominciata nel 1952 e rimasta incompiuta alla morte di Doisneau, è stata pubblicata a Parigi nel 1981 con il volume Ballade pour violoncelle et chambre noire. Il ciclo raccoglie oltre 60 fotografie in cui sono protagonisti assoluti Maurice Baquet e il suo violoncello, ritratti nelle situazioni più diverse; è profondamente contrario alla spontaneità comunemente attribuita a Doisneau: sono fotografie messe in scena, completamente prefabbricate, frutto più della fantasia che della vera creazione di un'immagine composta dal vivo. Tuttavia, e qui sta la loro forza, esse hanno un effetto di senso che sovverte la realtà, rivelano la mediazione dello strumento fotografico, demistificano la sua pretesa neutralità denunciano la natura costruttiva di ogni rappresentazione. Questo ciclo fotografico è analizzato come riflessione estetica sul rapporto tra il musicista e il suo strumento musicale, dove umorismo e poesia sono le principali chiavi di lettura: in tale luce, si vedranno le tematiche su cui Doisneau si è più soffermato come il rapporto simbiotico e feticistico che s'instaura tra l'esecutore e il suo strumento, o la componente animistica e antropomorfica della maggior parte degli strumenti musicali.


Giorgio Biancorosso (NewYork), Musica da film e ambiguità espressiva

In una scena del Dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen il protagonista, Alvin, inizia a sognare ad occhi aperti nella propria stanza. Come si sdraia sul letto si sente una cascata di note suonate all'arpa. Parrebbe un classico caso di commento sonoro, in quanto tale, indirizzata solo agli spettatori, in realtà viene percepita anche da Alvin, il quale si alza dal letto e, con sua grande sorpresa, scova un arpista dentro l'armadio.
Questa gag memorabile illustra in maniera esemplare l'ambiguità tra musica prodotta all'interno dei mondo dei film – musica "diegetica" – e commento sonoro esterno – musica "extra-" o "non diegetica". Nella mia relazione sondo gli usi poetici e il significato filosofico di questa ambiguità e analizzo frammenti della Regola del gioco di Jean Renoir (1939), di Otto e mezzo di Federico Fellini (1963), del Sacrificio di Tarkovsky (1986), e del recente Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick (1999).
Dato che lo spettatore si trova ad interpretare in successione lo stesso stimolo sonoro in due modi diametralmente opposti, inizio coll'inquadrare brevemente gli esempi nel contesto dei dibattito sull’ambiguità percettiva e passo poi a discuterne il ruolo nei film. Si amplia così l'orizzonte epistemologico dell'analisi: calata in un contesto narrativo, e quindi in una fitta rete di relazioni spazio-temporali e simboliche, l'ambiguità generata dall'uso della musica s’arricchisce di significato. Più che un semplice Gestalt-switch, la scoperta della reale provenienza della musica agisce come un irreversibile spartiacque semiotico e si fa portatrice di indicazioni sullo stato mentale dei protagonisti, di allusioni metacinematiche oppure di una riflessione sulla fallibilità delle strategie percettive dello spettatore. La possibilità di essere colti di sorpresa, sempre presente, acquista così uno statuto allegorico: siamo alla mercé delle irregolarità dell'ambiente che ci circonda più di quanto siamo soliti ammettere.


Remo Baldi, Luca Boero, Carla Cuomo (Coord.), Antonino Di Sebastiano, Maria Facin, Roberto Fiorilli, Mariella Gigli, Angela Iengo, Elisabetta Piras, Andrea Schipani, Daniele Soriano, Valeria Viola (Bologna), Aspetti dell'inquinamento musicale

Il progetto analizza il problema dell'inquinamento musicale, fenomeno eminente della società contemporanea, sotto il profilo giuridico, medico, sociologico e educativo. Esso sintetizza alcuni aspetti della ricerca promossa dal "Saggiatore musicale" e dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università di Bologna nel 1998 con una giornata di studio sull'ecologia sonora ("Il Saggiatore musicale", IV, 1997, pp. 491-499), proseguita nel seminario quadriennale sugli stessi temi, iniziato nel 2001 e rivolto agli studenti, organizzato nell'àmbito della cattedra di Storia della musica del corso di laurea DAMS tenuto da Giuseppina La Face Bianconi, e sviluppata in un momento di pubblica discussione nel convegno interdisciplinare Musica urbana (Bologna, 17-19 maggio 2002).
Le tre parti del progetto, curate da tre gruppi di studenti nel summenzionato seminario, sono accostate tra loro quasi in forma di istantanee fotografiche, laddove invero proprio l'accostamento può rendere conto dell'ampiezza delle problematiche derivanti da tale particolare forma d'inquinamento.
L'uomo e l'inquinamento acustico e musicale: conseguenze sulla salute. La prima parte evidenzia affinità e differenze tra inquinamento acustico tout court e inquinamento musicale, sotto il profilo giuridico, medico e culturale. Dopo un esame del concetto di ‘inquinamento acustico’ nella legislazione italiana (legge quadro n. 447/1995), a partire da quello di ‘rumore’ (d.p.c.m. 1 marzo 1991), la relazione espone le conseguenze sulla salute della musica-rumore: i danni uditivi (ipoacusia) ed extrauditivi. Fra le conseguenze specifiche dell'inquinamento musicale viene messa in particolare evidenza la banalizzazione dell'ascolto musicale, facilitata da certi usi funzionali della musica. Questi usi sono frequenti per l'immediata gratificazione conseguente ad un ascolto passivo della musica, dovuta da un punto di vista psicofisico all'indipendenza tra sistema somato-motorio e sistema cognitivo-concettuale. Inoltre l'incidenza di alcune tendenze musicali giovanili sull'incremento della socioacusia, ovvero sulla sordità dovuta non più alla senescenza ma al condizionamento ambientale, rende preoccupante il quadro delle conseguenze sulla salute, sia in senso medico sia nei termini di un impoverimento culturale della nostra società.
I giovani, la discoteca e l'inquinamento musicale. La seconda parte esamina il problema dal punto di vista sociologico e focalizza l'attenzione sui tre termini del titolo a partire dalla discoteca come luogo sia d'intrattenimento sia di lavoro. Punto di partenza è la domanda sul perché molti giovani, alla ricerca di un'occupazione, s'avvicinino alla discoteca con maggiore facilità e immediatezza rispetto ad altri ambienti di lavoro, oltre che per cercarvi divertimento. La relazione mette in evidenza come le abitudini d'ascolto ad alto volume maturate in discoteca vengano rafforzate, all'esterno, dalla presenza della musica da discoteca nei luoghi pubblici, per sponsorizzare prodotti o invogliare alla frequentazione di un locale. La discoteca non è dunque un luogo confinato, ma un ambiente che determina fenomeni di aggregazione sociale e di rappresentazione di sé tali da trascendere i suoi stessi confini e ripercuotersi sulle abitudini dell'uomo all'esterno. Fra queste, vi è la tendenza a prediligere un ascolto musicale ad altissimo volume. L'inquinamento musicale rappresenta dunque una sfida nei confronti di un'educazione civica che miri a compensare le carenze in ordine sia ai danni alla salute provocati dall'esposizione a musica troppo forte sia alla giusta attenzione ad un'educazione all'ascolto.
Inquinamento musicale e educazione all'ascolto . In ultima istanza, il problema dell'inquinamento musicale viene sviluppato sotto il profilo educativo. Prodotta industrialmente, la musica è oggi sempre più spesso un oggetto di consumo, il cui fine primario è di essere venduto e diffuso in modo massiccio. La musica negli spazi pubblici, vero e proprio fenomeno ambientale, si inserisce in particolare in tutti quegli spazi di passaggio della nostra vita quotidiana (aeroporti, stazioni, supermercati et similia) come mera presenza sonora, da "udire" più che da "ascoltare". Al "non luogo" corrisponde così un "non ascolto". Perdere la capacità di ascoltare vuol dire creare il circolo vizioso di una sempre maggiore tolleranza verso la diffusione indiscriminata di musica: il problema dell'ascolto risulta dunque cruciale. L'intervento focalizza l'attenzione sull'educazione musicale quale terreno privilegiato per ripristinare la capacità di un ascolto consapevole, non solo della musica, e dunque quale fondamento della formazione del cittadino, oltreché importante strumento di prevenzione e tutela della salute individuale e collettiva.


Marina Toffetti (Milano), Dalla carta al CD-ROM alla rete: alcune riflessioni sul (possibile) futuro delle edizioni musicali.

La rapida espansione dei nuovi media e delle reti informatiche ha provocato un acceso dibattito teorico sulle possibili ricadute delle tecnologie telematiche nel settore dei saperi umanistici e delle arti. A questa discussione hanno preso parte intellettuali di varia estrazione, inizialmente schierati su due fronti contrapposti: da una parte coloro che dipingono cupe previsioni apocalittiche, dall'altra coloro che si esprimono con entusiasmo incondizionato. Tra i due atteggiamenti estremi si collocano le riflessioni di coloro che hanno cercato di valutare in maniera più pacata gli impulsi che la rete e le nuove tecnologie possono offrire allo sviluppo dei propri circoscritti àmbiti d'indagine e, fra queste, quelle dedicate alle prospettive nel campo dell’edizioni e della critica testuale.
Questo intervento propone un'analoga riflessione sulle potenzialità aperte dall'informatizzazione, dalla multimedialità e dall'uso della rete nel settore specifico delle edizioni musicali. Sono considerate in primo luogo le specificità del linguaggio musicale (ma anche sulle sue analogie rispetto ad altri linguaggi), le caratteristiche delle principali tipologie di edizione musicale oggi in uso (dall'edizione pratica alla riproduzione facsimilare, dalle trascrizioni diplomatiche e semi-diplomatiche all'edizione critica) e la natura implicitamente ipertestuale di alcune di esse; vengono poi presi in esame i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie nella preparazione di edizioni cartacee di tipo tradizionale e nella gestione dei dati che abitualmente non vi confluiscono. Nell'esposizione di simili considerazioni, verranno distinti i problemi legati alla critica testuale e alla ricostruzione del testo musicale da quelli relativi alla scelta delle modalità di presentazione dello stesso, in parte determinate dalle esigenze, dalle aspettative e dalle competenze dei destinatari dell'edizione.
In un secondo momento verranno illustrate le principali potenzialità offerte alle diverse categorie di fruitore (dal semplice studente di musica, al musicista specializzato nell'esecuzione di un determinato repertorio, allo studioso e al musicologo) dall'edizione musicale in formato elettronico e dalla realizzazione di ipertesti e CD-ROM in grado di stabilire links fra diverse categorie di informazioni.
Al di là d’ogni mitizzazione, ma anche di possibili demonizzazioni, si esporranno infine alcune considerazioni sui vantaggi e gli svantaggi di un'edizione musicale on-line, nonché sulle inedite modalità di fruizione-interazione, che un simile prodotto culturale potrebbe incentivare.


Tilman Seebass (Innsbruck), EU Project Cultura 2000: Images of Music – A Cultural Heritage

12 ltalian scholarly institutions participate in a project of the European Union that joins 5 countries in a network of catalogues of music-iconographical materials. I shall present in my report information about the website and the search machine that gives access to the music-iconographical catalogues in archives in Austria, France, Greece, ltaly, and Portugal, about the virtual exhibitions, as well as some problems of digital data management. The presentation has also the purpose to provide information to colleagues who seek support or advice in setting up archives in their own places and are interested in joining the network at a later date.


Antonio Cascelli (Southampton), Heinrich Schenker e lo Scherzo op. 31 di Chopin

La diffusione dell'analsi schenkeriana è dovuta principalmente ad un processo di traduzione e di assimilazione da parte della cultura americana. Sotto la pressione di un’ideologia che riteneva primaria l'applicazione di approcci scientifici ad ogni impresa intellettuale, le idee musicali schenkeriane vengono ridotte al livello di una tecnica analitica. Il linguaggio retorico e ricco di metafore usato da Schenker, però, ci dice che suo intento era comunicare un’esperienza musicale.
Schenker presenta le sue idee da un lato con la spiegazione meramente tecnica, dall'altro con la descrizione di un'esperienza grazie ad un linguaggio apertamente metaforico. Dei due aspetti, soltanto il primo venne poi considerato.
Un esempio è la descrizione di una particolare tecnica di prolungamento: il movimento da una voce interna e/o la successione lineare da una voce interna alla voce superiore (Ubergreifen e Untergreifzug). Mentre Schenker fa ampio riferimento a concetti-metafore fondamentali in tutto il suo pensiero, quali "direzione verso una meta" (der Weg zum Ziel), "rallentamenti" (Aufhaltungen), "ostacoli" (Hindernisse), in alcuni manuali di analisi schenkeriana la stessa tecnica viene descritta semplicemente come un mezzo per riagganciare una voce strutturale acuta tramite una progressione lineare ascendente (è il caso di Allen Cadwallader e David Cagné nel loro Analysis of Tonal Music), oppure non viene affatto citata, come nel libro Introduction to Schenkerian Analysis di Allen Forte e Steven E. Gilbert.
Con riferimento a grafici inediti di Scheaker appartenenti alla Oster Collection e conservati presso la New York Public Library, questa presentazione spiega come tale dissociazione nella recezione dell'analisi schenkeriana porti ad un’intenzione falsata dell'esperienza musicale offerta da un brano da un lato, e del pensiero schenkeriano dall'altro. L’analisi dello Scherzo op. 31 di Chopin, per esempio, mostra come la tecnica di prolungamento (Untergreifzung) costituisca la chiave di volta del dialogo fra la tonalità iniziale Si bemolle minore e quella finale Re bemolle maggiore. Se si recupera il linguaggio metaforico di Schenker riaffiora la ricchezza e la dinamicità di un grafico schenkeriano, che se è spesso criticato per la sua eccessiva riduttività e staticità, vuole in verità rappresentare il drammatico corso degli eventi di un brano.


Chiara Macrì (Bologna), Il tocco pianistico nei suoi fondamenti biomeccanici

Il progetto di ricerca che intendo sviluppare nei prossimi anni riguarda la prassi esecutiva pianistica nei suoi fondamenti storici e biomeccanici. Già da diverso tempo ho avviato un'indagine storica sulla didattica pianistica attraverso l'analisi dei trattati e una ricerca scientifica sui fondamenti fisiologici e anatomici che sottendono il gesto pianistico. Queste ricerche hanno dato riscontro a intuizioni empiriche, legate per lo più alla prassi esecutiva e alla lettura dei trattati. Ne è nata un'ipotesi metodologica fondata sul rapporto tra gesto pianistico e suono prodotto: accertato che la prassi esecutiva si realizza attraverso una serie di contatti fra le terminazioni dell'apparato "spalla braccio avambraccio mano dita" da una parte, e le terminazioni dell'apparato "tavola armonica corde martelli meccanica tasti" dall'altra, ho concluso che il diverso modo con cui queste terminazioni interagiscono determina la varietà dei tocchi pianistici.
Ho quindi cercato di stabilire alcuni parametri del funzionamento di diversi gesti pianistici in rapporto al suono prodotto dallo strumento. Con il laboratorio di Analisi dei Movimento del Dipartimento di Anatomia dell'Università di Milano cercheremo di visualizzare le traiettorie dei movimenti pianistici tramite l'applicazione di markers sulle varie terminazioni dell'apparato "braccio avambraccio mano dita", rilevati da un sistema di telecamere digitali a raggi infrarossi ed un software d’elaborazione dati progettato dal prof. Ferrario. Ci si interrogherà dunque per la prima volta in maniera razionale, scientifica e progettuale su cosa succeda effettivamente durante l'esecuzione pianistica.


Gianfranco Miscia (Ortona), Il censimento delle fonti musicali in Abruzzo: problemi, risultati, prospettive di ricerca

Il censimento delle fonti musicali in Abruzzo rientra in un più vasto progetto di ricerca e valorizzazione del Mezzogiorno che l'Ismez ha varato da tempo, valendosi della collaborazione dell'Istituto Nazionale Tostiano di Ortona, ente di riferimento per la ricerca musicologica regionale grazie alla sua ventennale esperienza. Dal 1998 sono stati avviati alcuni corsi di formazione sulle fonti musicali; successivamente ha preso corpo il progetto vero e proprio con l'intento, rispettato, di concludersi entro un triennio. Questo intervento non fornisce solo dati finora sconosciuti ma ripercorre anche le tappe fondamentali della ricerca per evidenziarne i problemi di ordine teorico e pratico.
Come si ipotizzava, il censimento delle fonti musicali in Abruzzo ha dato risultati interessanti sia in termini qualitativi sia quantitativi. A fronte di pochi istituti citati in passato nei repertori internazionali (la serie C del Rism ne segnalava solo tre), l'indagine ha messo in evidenza ben 114 persone giuridiche o fisiche possessori o detentori dei beni musicali. Si delinea quindi un quadro nuovo di cui la ricerca può giovarsi per progettare interventi mirati ad avviare lavori di catalogazione (se si tratta di biblioteche), di ordinamento e inventariazione dei materiali (se si tratta di archivi) o ancora di catalogazione delle raccolte (se si tratta di musei). Sono operazioni preliminari, ma sostanziali per la ricerca storica che avrà poi il compito di riportare all’attenzione della comunità scientifica i musicisti e le opere finora rimaste in ombra.
La fase preparatoria al censimento vero e proprio ha affrontato problemi organizzativi e metodologici, dalla messa a punto di una scheda di rilevamento all’elaborazione di una possibile mappa delle fonti musicali esistenti. Per la prima questione si son prese le mosse dalla scheda utilizzata dalla Regione Marche e progettata dall'Associazione Marchigiana per la Ricerca e Valorizzazione delle Fonti; la si è confrontata con la quella per il censimento degli archivi comunali utilizzata dal Ministero per i Beni Culturali – Soprintendenza Archivistica per l’Abruzzo, e con quella utilizzata dall'ICCU per l'Anagrafe biblioteche. Strumenti tra loro diversi, comunque utili per "ripensare" una scheda adatta ad un censimento musicale che potesse contenere informazioni complete ma non ridondanti o superflue.
Più complesso è stato tracciare una mappa iniziale dei fondi da censire. In questo caso sono stati d'aiuto i repertori e gli strumenti bibliografici di carattere generale, anche se in Abruzzo mancano opere organiche relative alla storia musicale. Utilissima è stata la consultazione della banca dati della Soprintendenza Archivistica per l'Abruzzo relativa agli archivi comunali dove si trovano preziose, anche se spesso generiche, indicazioni. Non sono stati ovviamente trascurati i rapporti diretti con le biblioteche, gli archivi, i musei, pubblici e privati. Infine, molte informazioni sui fondi musicali sono emerse dal contatto con gli studiosi e i musicologi abruzzesi che svolgono un prezioso lavoro capillare sul territorio.
Altra questione è stata la definizione accurata dell'oggetto della ricerca: in altre parole cosa includere nel concetto di fondo musicale storico. Da un punto di vista generale si sono tenute in conto le definizioni prevalenti in ambito archivistico (fondo come complesso di documenti prodotto da un ufficio o ente nel corso della propria vita amministrativa) e biblioteconomico (fondo come raccolta di materiali provenienti da collezioni private o enti) che esprimono concetti diversi ma accomunati dall'idea che un fondo abbia comunque un’identità data dagli interessi di chi raccoglie i libri o dalle attività svolte dagli enti. Per quello che riguarda l'aspetto quantitativo si è considerato ‘fondo’ un complesso di documenti musicali non inferiore alle trenta unità (tra manoscritti, copie e volumi rari o di pregio); dal punto di vista storico cronologico si è deciso di tenere in considerazione i materiali editi fino all'Ottocento, ma senza limiti nel caso di documenti di interesse locale o manoscritti.
Da un punto di vista generale abbiamo conferma che oltre ai capoluoghi di provincia i fondi musicali siano collocati nelle città storicamente più importanti e sedi di istituzioni significative come teatri, bande musicali, cappelle musicali. Spiccano nella provincia di Chieti Lanciano, Ortona e Vasto; nella provincia di Pescara Penne, per l’area teramana, Atri e per quella peligna Sulmona. In provincia di Aquila, a parte Tagliacozzo, non vi sono centri di particolare importanza ma enti disseminanti per tutto il territorio. Per quel che riguarda in generale il patrimonio regionale, dalla ricerca emerge che la gran parte dei fondi conservano documentazione perlopiù settecentesca, ottocentesca e novecentesca. Pochi sono i fondi antichi. Il documento in assoluto più remoto, sembra essere il rotolo pergamenaceo dell’Exultet del 1057, conservato dall'Archivio della Diocesi dei Marsi di Avezzano.


Il Saggiatore musicale

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna