Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna NUOVE PROSPETTIVE DI RICERCA

NUOVE PROSPETTIVE DI RICERCA

L'esperienza più esteticamente forte del viaggio nella Commedia dell'Arte è stata la scoperta della possibilità di disegnare un linguaggio fortemente deformato del corpo e del comportamento. Diciamo disegnare e non ri-disegnare perché al punto finale di un viaggio come questo il terreno dei riferimenti e quello dell'invenzione si confondono nel possibile progetto di nuovi linguaggi: di un attore, di uno spettacolo o della poetica di un gruppo.

Questa scoperta si fonda comunque su due aspetti fondamentali del lavoro svolto durante il viaggio: 1) il lavoro legato all'iconografia della Commedia dell'Arte e 2) l'incontro tra il lavoro sulla Commedia dell'Arte e alcune esperienze nel Teatro Orientale.

IL LAVORO LEGATO ALL'ICONOGRAFIA DELLA COMMEDIA DELL'ARTE

La ripresa dell'iconografia non più come semplice suggestione o come cultura immaginaria cui riportare le esperienze pratiche, bensì come progetto pratico di ricostruzione fisica delle innaturali deformazioni interpretate graficamente, non fa parte della normale prassi degli attori che oggi interpretano commedie in maschera, anzi, se si parla in questo senso dell'iconografia ad uno di questi attori si rischia di ricevere una risposta addirittura infastidita, come quella di Enrico Bonavera: "No, no! L'iconografia è un disegno e va trattata come un disegno, altrimenti si rischia di copiare quel disegno senza cercare le vie che lo hanno determinato perché l'iconografia fissa solamente i momenti più caratteristici e più espressivi del lavoro dell'attore, ma non può trasmetterci la dialettica del personaggio, non può trasmetterci la sua normalità; quello che possiamo ricavarne è soltanto una suggestione, uno stimolo, anche perché la maggior parte dell'iconografia viene dalla Francia e ci restituisce una sorta di Commedia dell'Arte da esportazione, con burle, scherzi e situazioni di festa che eliminino la normalità; per me rimangono suggestioni che mi ispirano, ma non le faccio vedere nel mio lavoro d'attore, m'ispirano come qualunque altro materiale antico o dell'immaginario successivo, come la musica ad esempio, come il Carnevale di Shumann collegato al mondo delle maschere della mia infanzia. In particolare i Balli di Sfessania di Callot sono un'iconografia di grande suggestio~ ne, ma a me interessano quasi di più gli sfondi che non le maschere danzanti in primo piano: mi interessano quelle case prive di finestre, quella gente che

s'aggira intorno, quei trampoli in lontananza; le figure in primo piano sono talmente troppo forti che mi interessano di meno".

Ma Enrico sa benissimo che invece è proprio quel "forte troppo forte" ad interessare maggiormente la nostra ricerca. Ci siamo a volte dedicati a copiare persino le posizioni più fisicamente 'impossibili' di quelli che sono in realtà dei disegni fortemente stilizzati anche dal punto di vista anatomico per sperimentare dal vivo la forza di quelle deformazioni.

E vero che probabilmente un attore della Commedia dell'Arte non assumeva in scena posizioni tutte così drasticamente forti come quelle che lo ritrassero in qualche incisione, ma per noi non è più solamente importante ricostruire un percorso naturale che porti ogni tanto a citare qua e là una posizione iconografica: a noi la Commedia dell'Arte interessa sempre di più come possibilità di costruzione di un corpo abnorme, una costruzione che cerchi di afferrare tutti i momenti migliori di deformazione fissati nella stilizzazione grafica per ricavarne un giorno un comportamento totalmente altro dell'attore sotto maschera. Questo ci interessa di più, senza dire che è l'unico modo di fare Commedia dell'Arte.

Non tocca a noi analizzare il rapporto tra i disegni di Callot (59) e la Commedia dell'Arte che lui può aver visto, come non toccherebbe a noi analizzare il rapporto tra i bassorilievi scolpiti sui templi dell'Orissa in India e le danze sacre che gli antichi scultori avevano visto e voluto ritrarre; quello che è certo è che, non essendo fotografie, lo spostamento rispetto all'oggetto ritratto era fortissimo e portava con sé, in tutti e due i casi, la storia della disciplina di riproduzione, il disegno da una parte e la scultura dall'altra, ma anche la pressione culturale precedente all'esperienza di disegnare o scolpire, e forse la consapevolezza di come quel disegno o quella scultura si dovevano situare nell'ambito sociale.

C'è un altro aspetto importante: quello che noi vediamo nell'iconografia sono posizioni immobili, ma che contengono fortissimi germi di movimento; esiste nella storia della cultura figurativa una specie di istinto a ritrarre il movimento umano che si è sempre più specializzato negli esecutori artisti. Come giustamente hanno notato gli studiosi di antropologia teatrale, una pittura etrusca della zona di Tarquinia che pretende di ritrarre un danzatore possiede in nuce, ma molto evidentemente, gli stessi elementi fondamentali di deformazione e di disequilibrio propri di vari tipi di danze orientali (60).

In entrambi i casi, sia la Commedia dell'Arte sia la danza classica indiana Crissi, hanno ripreso vita nel nostro secolo dal fatto che qualcuno ha potuto vederle sotto forma di immagini fortemente stilizzate e non naturalistiche. Sono immagini in grado di produrre forza nell'attore o nella danzatrice che le imita, le copia o vi si ispira.

La precisione tecnica richiesta ad una danzatrice Orissi nell'assumere le posizioni della sua danza tratte dai bassorilievi dei templi, le restituisce una presenza moltiplicata, quasi scultorea. Questo è straordinario: la danza - che è di per sé movimento - ruba all'arte figurativa il ritratto di sé per potenziarsi, per diventare più forte o per inseguirsi.

Perché negare questo al teatro? Verrebbe quasi il desiderio piuttosto di eseguire in futuro gli studi per il linguaggio di base su cui si impostano i vari spettacoli facendo degli studi figurativi, che mirino cioè a progettare figurativamente il comportamento sulla carta e poi, solo in un secondo momento, farlo diventare 'azione dell'attore'.

E perché non pensare che anche nell'arte figurativa moderna dell'Occidente può già esistere - forse - del materiale su cui l'attore può lavorare? In questo senso si sta lentamente muovendo la nostra nuova linea di ricerca intorno alla pittura di Egon Schiele e alla sua deformata rappresentazione del corpo umano.

E interessante che l'arte teatrale ricavi da un patrimonio figurativo lo sbilanciamento in avanti della propria proposta di comportamento, per diventare poi a sua volta una proposta di comportamento condivisibile.

IL VIAGGIO SI SPOSTA IN ORIENTE

Cercherò di spendere poche parole su questo argomento delicato che richiederebbe una trattazione a parte. In questo scritto ho inf atti cercato di incrociare due "viaggi d'attore" in due distinti continenti del Mondo del Teatro, e il secondo continente non è meno ampio e complesso da visitare di quello che fin qui abbiamo tentato di descrivere.

Per me comunque, negli ultimi anni, gli studi sulla Commedia dell'Arte e sull'Oriente si sono fortemente intrecciati tra loro. Anzi - e questa non può essere che una sincera confessione - la motivazione prima per visitare l'India e l'Isola di Bali è stata proprio la passione per il grottesco e quella necessità di inseguire l'extraquotidano del teatro che mi derivava dall'esperienza della Commedia dell'Arte.

Per quanto riguarda l'India l'incontro iniziale - più o meno approfondito, ma 1 assaggiato' di persona - con le strutture didattiche delle varie danze (Bharatha Natyam, Orissi, Kathakali (61) mi aveva subito aperto gli occhi su come si poteva lavorare per una definizione precisa dei movimenti singoli di ogni parte del corpo anche nella ricerca del corpo extraquotidiano di Arlecchino... e se per il corpo coordinatissimo d'un danzatore indiano sentivo parlare di "corpo orchestra" io volevo raggiungere col mio Arlecchino almeno quel "corpo~orchestrina di-paese" che mi permettesse di fornire la giusta precisione alla realizzazione di un teatro assai più semplice, ma che pretendeva di fornire prestazioni professionali d'attore. Persino la grande sapienza del teatro-danza Indiano nell'uso del linguaggio delle mani attraverso l'alfabeto codificato delle loro Mudras, fu uno stimolo a mettere impietosamente "in forma" anche quella gestualità popolare altamente comunicativa che non si poteva tagliare via a priori - col rischio di tarpare le braccia ad Arlecchino - ma che, se lasciata troppo libera, avrebbe corso il rischio di cadere in spontaneismi casuali e quotidiani. Poi, al momento , di scegliere una via di approfondimento, il mio cuore d'Arlecchino non poteva certamente scegliere l'eleganza e la grazia delle danze indiane femminili: allora non potei che partire verso il Kerala per incontrare i grandi personaggi deformi della danza maschile Kathakali.

Lo spostamento verso Bali è stato ancora più chiaramente collegato alla passione per la maschera e forse alla necessità di un teatro che "mostrasse i denti" (fosse per ridere o fosse per ringhiare) così esageratamente come sono in grado di fare le maschere balinesi. La frequentazione di spettacoli e di lezioni pratiche nel teatro balinese (62) m'ha insegnato moltissimo su alcuni micro-spostamenti o micro~ritmi per l'uso della maschera e del corpo in tensione... anche perché ho avuto la fortuna d'incontrare laggiù un Pulcinella italiano da molto tempo trapiantato sull'isola, un espertissimo e disinibito reinterpretatore della danza Topeng, tanto da partecipare con i suoi personaggi inediti all'interno dei codificati rituali religiosi balinesi: si tratta di Pino Confessa. Le chiacchierate con Pino e l'accesso alla sua buffa collezione di maschere - reinterpretazioni tanto della Commedia dell'Arte quanto dell'artigianato balinese ~ non hanno potuto non incuriosirmi sulle possibilità di reinvenzione che l'incontro Oriente~Occidente, con molta molta cautela, porta con sé.

UN FUTURO O MILLE FUTURI PER ARLECCHINO?

Ormai è chiaro che il personaggio di Arlecchino è libero da tutto, persino da se stesso, e proprio per questo crediamo che sia immortale; forse sarà uno di quei grandi personaggi del Teatro che saprà sopravvivere al Teatro stesso, come Amleto. In questa libertà sono contenute tutte le possibilità di trasformazione e re-invenzione intorno a questo forte archetipo che cambia aspetto e mantiene la stessa anima: il Trickster di Iben (63) non è meno intensamente Arlecchino di quello scatenato di Moretti e ci è sembrato di non aver mai visto un'Arlecchino più Arlecchino dell'Arlecchino nero di Mor Awa Niang (64).

I futuri possibili per il personaggio di Arlecchino sono dunque tantissimi e senza dubbio non dipendono solo ed unicamente dalle modalità con cui viene mosso ed interpretato nel nostro teatro tradizionale novecentesco.

Per noi il viaggio anche attraverso gli stereotipi della Commedia dell'Arte tradizionale è stato indubbiamente importante e non potremmo prescindere da questo.

Prendiamo per esempio il doppio-passo: il doppio-passo è una caratteristica di Arlecchino che non abbiamo inventato noi, che non viene dai nostri contatti con altre culture straniere, che non è neppure direttamente ricavabile dall'immobilità - effettiva se non sostanziale - dell'iconografia, è insomma qualcosa di intrisecamente legato a questo personaggio così come ci è pervenuto dalla tradizione novecentesca. Eppure si può notare che non tutti gli attori di tradizione lo usano sulla scena con insistenza: Soleri esegue il doppio-passo piuttosto saltuariamente all'interno di un intero spettacolo e il più delle volte lo utilizza nelle entrate e nelle uscite di scena, quando più fortemente viene presentato il personaggio in tutta la sua fisicità extra-quotidiana, mentre durante i dialoghi o i monologhi molto parlati l'impatto fisico di Arlecchino viene affievolito, un po' naturalizzato a favore della prontezza di battuta, così il doppio-passo viene tralasciato e sostituito da un leggero uso del nervoso scambietto di piedi o da una camminata normale un piede dopo l'altro; anche Enrico Bonavera cita il doppio passo qua e là, ogni tanto, nello scorrere delle scene, alternandolo volentieri con la semplice corsetta infantile e servizievole del suo Arlecchino un po' bambino, come egli stesso ama definirlo. Per noi era invece importante rinunciare a qualunque tipo di camminata'normale'almeno nella prima fase di elaborazione del training, perciò preferimmo sviluppare tutte le possibilità di variazione del doppio-passo ed assumerlo sempre e comunque come camminata innata di Arlecchino (sia che lui corra, che rallenti, che scappi o insegua qualcuno, che si sposti parlando, cantando o stando zitto), rimandando alla seconda fase lo studio e la definizione delle altre possibili alternative di movimento codificato delle gambe. Questa scelta iniziale ha permesso di sciogliere talmente il complicato scattare del doppio-passo che oggi è possibile utilizzarlo anche a ritmo velocissimo e il nostro Arlecchino riesce, se necessario, a sfuggire ad un'orda di bambini in corsa pur mantenendo sempre il doppio-passo. Abbiamo recuperato il doppio-passo - che avrebbe potuto essere solo una citazione qua e là - come modo fondamentale ed obbligatorio con cui cammina Arlecchino.

A questo punto io devo fare una seconda confessione: "non vorrei mai che il doppio-passo sparisca dai miei arlecchini, presenti e futuri, anche se la sua origine è un cliché tradizionale: pure immaginando un Arlecchino del futuro, il più sperimentale degli Arlecchini che mi sarà concesso progettare, preferisco pensarlo nudo, senza più il suo costume colorato, con la pelle macchiata di tutte le malattie e le razze del mondo... ma non riesco a pensare alla sparizione totale del doppio-passo: sarà piuttosto auspicabile la sua sublimazione in tutte le possibilità che esso ha di diventare 'altri passi'... altri modi di' danzare l'esistenza zoppicando'".

Non avrei potuto rendere fertile questo "Viaggio" nella Commedia dell'Arte se non avessi avuto un luogo a cui tornare"; questo luogo è stato ed è il gruppo Attori & Cantori, formato dal regista Ferruccio Merisi e dai molti compagni che si sono avvicendati in questi anni. In un gruppo, normalmente, si crea un linguaggio di lavoro che a volte è esile, strettamente tecnico e immediato, e a volte invece è più pesante e largo e produce degli spezzoni o frammenti di teoria. A volte questi frammenti si possono organizzare a posteriori, specialmente se hanno avuto assai spesso l'occasione di confrontarsi con l'esterno in situazioni didattiche. t questo il nostro caso. Il presente tentativo risulta dalla relazione, continua e difficilmente districabile, fra tale linguaggio di gruppo e quella che altrimenti sarebbe potuta restare semplicemente la 'mia' passione per la Commedia dell'Arte.

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna