Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna LAVORO DI RICERCA

LAVORO DI RICERCA E COMPOSIZIONE SPETTACOLARE

Nonostante l'importanza degli incontri con attori che hanno fatto e fanno Commedia dell'Arte, molti aspetti del "viaggio" non si spiegherebbero senza il fondamentale incontro con un regista, per questo, prima di continuare, devo passare ad introdurre l'ultimo e il più vicino dei miei Maestri: Ferruccio Merisi. Ferruccio Merisi si è spesso occupato di Commedia dell'Arte, ma da un punto di vista estremamente originale; sin dai primi tempi della fondazione del Teatro di Ventura (1975) egli ha svolto un lavoro teso a inventare un nuovo teatro popolare, molto indipendente sul piano linguistico ed ideologico: "La Commedia dell'arte faceva parte fin dall'inizio del nostro progetto di auto-pedagogia. Figli del'68, non ci fidavamo di nessuna scuola esistente. Cercavamo di costruirci una professionalità 'di ventura': volevamo imparare ad incontrare il pubblico attraverso una serie progressiva di esperienze che ci portasse ad una particolare coscienza, flessibilità e anche'distanza'd'attore. E così proposi ai miei compagni di imparare prima a fare i saltimbanchi, poi a usare i burattini e infine ad utilizzare maschere e personaggi stilizzati. Per noi 'imparare qualcosa' significava senz'altro'reinventare qualcosa', non utilizzando maestri specifici, ma appellandoci alla nostra memoria più necessaria, ai sogni, ai desideri. A dire il vero era la lezione, o più esattamente lo stimolo profondo ed il continuo confronto coli l'unico maestro che riconoscevamo, Eugenio Barba, che ci conferiva il coraggio, forse anche la presunzione, certo l'intelligenza per tentare queste avventure".

Avventure che portarono presto a esiti spettacolari: "Subito, l'anno dopo che il nostro gruppo era nato, presentammo il primo spettacolo che si chiamava Il breviario dei saltimbanchi, tratto dal nostro training quotidiano; poi, per imparare la parlare', ci inventammo giullari per lo spettacolo Il detto del gatto lupesco da liriche giullaresche italiane; poi realizzammo il nostro spettacolo di burattini, Liberare la principessa, e finalmente costruimmo quello spettacolo di strada che si chiamava La Tragedia dell'Arte e che - pur non fondandosi sui personaggi più riconoscibili delle maschere classiche - era il nostro primo omaggio diretto alla Commedia dell'Arte".

Il Teatro di Ventura non si preoccupava dunque di recuperare i personaggi 'classici': "Esattamente! Tra l'altro in quel momento, per ragioni storiche e ideologiche, non amavamo molto Arlecchino servitore di due padroni di Strehler. Ma nella nostra voluta scelta di allontanamento abbiamo cercato di dare nutrimento e fondamento a quelli che erano i nostri bisogni specifici visitando un certo numero di carnevali tradizionali: i carnevali piemontesi, i carnevali degli appennini tosco-emiliani e di quelli marchigiani, i carnevali delle prealpi bergamasche e bresciane, tra cui quello di Bagolino. In essi sopravvivevano alcune maschere che avevano chiaramente una funzione'magica' nei festeggiamenti... maschere 'selvatiche', maschere della contraddizione, maschere della rivincita...'Attori per un giorno' immersi in una specie di trance dovuta all'incontro e all'equilibrio tra 'la consegna' della tradizione (costume, movimenti, funzione o compito) e 1a libertà' di gioco e d'improvvisazione".

Ferruccio racconta come gli inediti personaggi del suo La Tragedia dell'Arte fossero comunque costruiti ponendo una grande attenzione al bagaglio di gesti, atteggiamenti e movimenti codificati che doveva loro garantire un comportamento forte, stralunato e completamente non naturalistico: "II nostro Arlecchino non aveva quasi niente di 'classico', persino il doppio-passo lo avevamo interpretato come una forma di storpiatura fisica e mentale. Per ognuno dei personaggi dello spettacolo era stato fissato un training che - come tutte le altre forme di training che praticavamo - consisteva in una sorta di danza infinita all'interno di una serie di movimenti, o meglio di azioni precise scelte e prefissate".

Con lo stesso metodo di costruzione dei personaggi - e portandolo fino a supportare un testo classico integrale ~ Ferruccio lavorò successivamente a Il medico per forza di Molière, rinnovando il progetto del Teatro di Ventura attraverso un percorso vario che questa volta - nelle intenzioni - avrebbe dovuto portare fino a Pirandello: "il nostro Medico per forza all'inizio lasciò molto perplesso il pubblico, non abituato a quella fisicità e a quei gesti esasperati, ma poi in sette mesi - senza modificarlo minimamente, per spontanea maturazione dei personaggi in una tramatura di azioni assolutamente precisa ~ lo spettacolo divenne a poco a poco vivo, necessario, un successo incredibile sia presso il pubblico vergine che presso quello abituato al teatro".

Nel frattempo l'ingresso nel gruppo di nuovi attori aveva trasformato la Tragedia dell'Arte in una parata in grado di invadere di personaggi 'selvatici' ogni città che ospitava il Teatro di Ventura. Il trasferimento del gruppo da Treviglio (BG) a Sant'Arcangelo di Romagna fu segnato "da uno spettacolo basato su un intermezzo di Cervantes e intitolato La Questione della Primavera, titolo tratto da una lirica di Majakowskji. Qui la stessa metodologia di costruzione dei personaggi questa volta riusciva a portare l'attore a comporre, attraverso improvvisazioni o bozzetti, immagini e testi inediti... Sempre con maschere, posture e movimenti reinventati, per rappresentare i personaggi del 'popolo', componemmo personaggi che potevano alludere al ruolo di Arlecchino, dello Zanni, di Brighella e del Capitano. Subito dopo, quasi come un manifesto, una documentazione organizzata del lavoro fin là svolto e insieme forse un testamento in una situazione difficile di sopravvivenza, montammo uno spettacolo-antologia dal titolo (suggerito da Claudio Meldolesi) di Fraternal Compagnia - Epaves dalla Commedia dell'Arte. Epaves sta per reperti-relitti-residuati: vi erano pezzi di tutti i precedenti spettacoli, compresi quelli di burattini, collegati da brani ed aneddoti tratti dal libro di Ferdinando Taviani e Mirella Schino: un materiale complesso che delineava in controluce - tra maschere e ciarlatani - una strana figura di attore, l'attore ignoto a cui noi rendevamo omaggio".

Alla fine ci fu anche uno spettacolo solitario per Arlecchino: "Con Silvio Castiglioni abbiamo costruito un monologo che forse era semplicemente l'esplo~ sione dello strano Arlecchino della Tragedia dell'Arte, unico personaggio in quello spettacolo che di quelli 'classici' aveva mantenuto almeno il nome. Il nuovo monologo si chiamò La Bandiera di Arlecchino, con riferimento soprattutto alla multicolore e scoppiettante filosofia spicciola espressa in liriche dialettali ed aneddoti. Era una sorta di Arlecchino Barbone che, attraverso il codice del personaggio che avevamo inventato, aveva le sue radici nella poetica personale del suo interprete: Silvio. E' stato l'ultimo spettacolo che sono riuscito a concludere con il Teatro di Ventura". Quando nel 1985 il Teatro di Ventura si sciolse, Ferruccio Merisi entrò come insegnante fisso di recitazione presso la Scuola di Teatro a l'Avogaria, con la quale aveva già avuto precedenti contatti didattici e nella quale insegnò per quattro anni: "ero molto contento di trasmettere le basi tecniche del nuovo attore che avevo sperimentato e che continuavo a sognare, in una Scuola di Teatro che ai quei tempi era molto quotata". Le esperienze di Commedia dell'Arte presso l'Avogaria furono dapprima di carattere esclusivamente "mitologico" per Ferruccio: "Si vedevano appesi in ogni dove vecchi costumi, si vedevano sporgere maschere qua e là, qualche scarpetta da Zanni fuoriusciva dai bauli... c'era poi tutta la documentazione archivistica del lavoro di Giovanni Poli che, da un punto di vista delle immagini, era accattivante nella sua semplicità. Nelle fotografie era emozionante anche il rapporto tra il gran numero di giovani attori e quel piccolo spazio del teatrino: usato a più dimensio~ ni con quelle composizioni forse un po' ieratiche, forse quasi statiche, ma che rimanevano comunque così affascinanti, così antiche e insieme attuali... Era una specie di mitologia che mi legava con gratitudine al fondatore di quello spazio che - nella sua conformazione, nel suo arroccamento in Venezia, nella sua storia - mi sembrava poter essere un Teatro di Resistenza".

Incontrai Ferruccio Merisi proprio presso la Scuola di Teatro dell'Avogaria, ma

in quell'ambito mai lavorai con lui sulla Commedia dell'Arte. Egli mi fu maestro di ben altra forma di teatro, impostando tutte le mie esperienze sulla disciplina di un training fisico e vocale in grado di mettere a frutto in modo nuovo le altre conoscenze che avevo fin lì raccolto intorno al mestiere dell'attore. Con Ferruccio feci diverse altre esperienze di laboratorio e spettacolari, soprattutto dopo essere entrata nella sua nuova compagnia Attori & Cantori; ma fu solo più tardi che riuscii a coinvolgerlo nell'elaborazione del mio personaggio di Arlecchino.

COSTRUZIONE DI UN TRAINING COMPLESSO SUL PERSONAGGIO DI ARLECCHINO

t proprio con la supervisione del regista Ferruccio Merisi che ad un certo punto è cominciato il lavoro di codificazione del personaggio di Arlecchino e in seguito di tutta l'attività spettacolare e didattica che qui di seguito sarà presentata.

Nel 1989 cominciò il lavoro in sala: di visione, scelta ed elaborazione dei materiali raccolti intorno al personaggio Arlecchino. Si cominciò a lavorare sulla deformazione base del corpo di Arlecchino e sul suo strano modo di camminare: il classico doppio-passo.

La prima cosa evidente fu che ognuno dei Maestri precedentemente incontrati aveva un modo un po' differente di far muovere il doppio-passo al proprio Arlecchino ed una deformazione diversa a seconda della corporatura e della personale interpretazione fisica del personaggio; l'importanza della cosa non era stata così consapevole al momento dei singoli incontri, ma nell'ansia di pervenire a una imitazione precisa, mi ero ritrovata a fissare tre modalità diverse di eseguire lo stesso archetipo di base: ne risultavano così tre posizioni e tre tipi diversi di camminata col doppio-passo. La nostra intenzione non era però quella di collezionare diversi tipi di Arlecchino, bensì quella di sondare tutte le possibilità di movimento di un Arlecchino complesso: così le tre camminate vennero sviluppate ognuna nella direzione della sua differenza dalle altre e vennero assunte come tre diverse possibilità espressive legate ai possibili stati d'animo del personaggio. Per rendere più chiaro questo primo procedimento di definizione cercheremo di riassumere le prime scelte nel seguente modo: il doppio-passo veloce, diretto e scattante di Enrico Bonavera venne assunto e adattato per i momenti più attivi, animaleschi e ritmici di Arlecchino, divenne la sua possibilità di correre senza tradire il doppio-passo, l'essenza stessa del suo ritmo sfuggente ed imprendibile, impossibile da fermare; il doppio-passo greve, primitivo e più schiacciato verso il basso di Renzo Fabris, interrotto da una specie di vezzosa zampata per aria ad ogni cambio di gamba, venne studiato per i momenti più riflessivi e lenti di Arlecchino, quando egli entra in rapporti più diretti con gli altri personaggi o col pubblico, quando ha bisogno di alcune pause e di brevi stop durante la camminata, quando necessita di ritmi variabili e di sospensioni; la camminata aerea, leggera e danzata di Tommaso Todesca, che, più che un doppio-passo, si presentava come un doppio-incrocio alternato delle gambe saltellanti, venne tradotta nella camminata di Arlecchino quando è triste, quando è innamorato o sognante, quando per un attimo si lascia andare: una sorta di danza tragica che ogni tanto afferra il personaggio rivelandone anche gli aspetti di burattino in balìa di se stesso.

Queste definizioni e queste scelte erano accompagnate da un processo di trasformazione e di pulizia minuta dei movimenti: le tre camminate venivano cioè ri-disegnate e fissate in modo che fossero sempre riproducibili ed anche trasmissibili ad un altro attore che non fosse quello su cui si stavano elaborando. Per ognuna di esse vennero definiti: posizione di base, modo di procedere, caratteristiche di movimento e "il carattere". Esse furono i primi elementi fissati di quello che chiamammo "il training analitico" dell'Arlecchino, e su di esse cominciò appunto l'allenamento quotidiano.

Ma il sistema di analisi adottato aveva già aperto nuove strade e subito dopo venne fissata una quarta camminata "dell'Arlecchino arrabbiato": un camminata che non era stata precedentemente appresa da un altro Arlecchino-attore, ma che rielaborava nuovamente il doppio-passo - con l'inserimento d'un piccolo calcio stizzoso all'interno della coscia ed una posizione più aggressiva della spina dorsale ~ per ampliare le possibilità espressive del personaggio.

Una volta creata questa base si decise di procedere all'analisi delle possibilità di movimento di ogni singola parte del corpo: a partire dalle tecniche di uso della maschera e da certi princìpi del lavoro del mimo vennero definiti tutti i possibili movimenti della testa di Arlecchino; dall'analisi della deformazione caratteriale della spina dorsale del personaggio vennero definiti tutti i possibili scatti e piegamenti del busto; per le gambe -parte fondamentale e dominante di tutta l'attività fisica di Arlecchino - vennero definite tutte le possibilità di posizione da fermo e in movimento, i cambi di direzione morbidi o scattanti, le "cadute" di peso, i vari modi di calciare, i salti, aggiungendo anche il classico "scambietto"

sul posto ovvero quella specie di saltello con scambio a mezz'aria del piede che di volta in volta va a puntare - con un piccolo e secco scatto avanti - il tallone a terra; grande spazio venne dedicato alla gestualità delle mani, in modo da definire il necessario ampio alfabeto di possibilità, ma senza che nessuna di esse fosse casuale.

La quantità di materiale scelto, ripulito e fissato diventava di giorno in giorno più abbondante, così divenne una mia segreta responsabilità di trascrivere tutto questo lavoro di codificazione sul "Quaderno di Arlecchino" con schemi di posizioni fisiche e descrizioni addirittura maniacali di ogni singola scelta avvenuta in sala-prove col regista. Scoprii solo più tardi che non si trattava di una preoccupazione di carattere mnemonico (il corpo riusciva a registrare e sedìrnentare tutte le scelte attraverso la ripetizione paziente); si trattava piuttosto del desiderio di ri-disegnare letteralmente l'Arlecchino come qualcosa di oggettivo ed esterno, qualcosa che potesse rimanere documentato al di fuori della memoria fisica personale, qualcosa a cui assoggettare il mio corpo (non che nascesse da esso).

Ormai le regole erano dettate: l'allenamento quotidiano comprendeva lo studio ripetitivo di ogni elemento fissato, che doveva essere appreso come una parola di quel nuovo vocabolario che un giorno mi avrebbe permesso di parlare scorrevolmente una sorta di nuovo linguaggio: l'Arlecchinese.

Ma imparare un gran numero di parole non basta: per imparare una nuova lingua bisogna studiarne la grammatica. Fu così che cominciammo a comporre le prime frasi semplici, ad esempio: "sei doppi-passi, un salto, un cambio di direzione, un movimento della testa, due passi ancora, un movimento delle braccia e stop"; erano delle piccole sequenze fissate che mettevano alla prova il passaggio di energia da un movimento all'altro. Poi cominciammo a studiare tutte le possibili velocità di ognuno dei movimenti o di ognuna delle sequenze fissate: al rallentatore, a velocità media, a velocità normale, accellerato, velocissimo. Poi ci fu il lavoro sugli stop improvvisi e sulle pause di diversa durata. Insomma, stavamo studiando le regole di composizione delle 'frasi' con le parole del nuovo vocabolario: una sorta di 'grammatica' fisica.

Una volta imparato a mettere correttamente in seguenza le parole non era ancora detto però che sapessimo davvero parlare quel nuovo linguaggio: si può dire infatti di conoscere bene una lingua solo quando si comincia a pensare diretta~ mente in quella lingua senza più bisogno di tradurre le frasi dentro la nostra testa e l'unico modo di raggiungere questo risultato è quello di discorrere il più possibile nella nuova lingua.

La situazione di discorso, per l'Arlecchinese, fu rappresentata dal nuovo training compositivo, una sorta di lunga improvvisazione ininterrotta all'interno del linguaggio codificato: tutte le 'parole' del corpo, le diverse velocità, le pause, i pesi, potevano essere liberamente combinate tra loro in composizioni sempre diverse ed imprevedibili; le regole fondamentali erano molto semplici ed erano solo due: non interrompersi fino alla fine del training e non utilizzare nessun elemento al di fuori di quelli codificati.

Piano piano i movimenti dell'Arlecchino - inizialmente astratti, ostici, faticosi cominciarono a diventare più naturali, quasi istintivi e la danza quotidiana non fu più solo un allenamento fisico-ginnico, ma anche un viaggio dentro il mondo psicofisico di Arlecchino.

Fu a questo punto che venne inserita la ricerca della voce di Arlecchino.

Ci sono un paio di ipotesi teoriche che sono alla base di tutto il lavoro sulla voce impostato negli ultimi anni da Ferruccio Merisi: 1) la voce non è un'aggiunta, un arto, una parte per l'attore, ma è tutta la sua presenza fisica complessivamente trasferibile nella dimensione del suono, ovvero quello che potremmo chiamare il "corpo vocale" dell'attore; 2) la voce viene modificata naturalmente da tutto ciò che è "pensiero fisico", cioè da quel pensiero che non è solamente intellettuale, ma è in grado di irradiarsi in tutto il sistema nervoso e di influenzare i tendini e le masse muscolari a livello sia subliminale che motorio. Emozioni, motivazioni, sottotesti sono in realtà forme precise o addirittura schemi di attività e reattività motoria invisibile o semplicemente difficilmente osservabile. Come spesso Ferruccio sottolinea "la voce è paragonabile ad una pellicola fotografica, è cioè letteralmente impressionabile e ciò che la impressiona è proprio il pensiero~ fisico"; questo avviene secondo principi che stiamo lentamente scoprendo e che hanno a che fare con la respirazione, con la modulazione della funzionalità del nostro peso rispetto alla forza di gravità, con le percezioni spaziali e con tutto ciò di cui si nutre la nostra esperienza del mondo, una parte molto importante della quale è costituita dalla facoltà mimetica e di rappresentazione.

E dunque, se Arlecchino era diventato davvero un corpo dilatato, deformato, ridisegnato e, insomma, extraordinario, esso doveva costituire ormai anche un sistema altrettanto extraordinario di "perisieri fisici" (di segnali, stilemi, schemi

reattivi) e dunque, dal punto di vista dell'attore, una deformazione estetica dell'esperienza del mondo, E così non si trattava tanto di costruire ed applicare dall'esterno la voce di Arlecchino, quanto di trovare degli esercizi adatti a lasciare che quella voce emergesse, si manifestasse, ovvero degli esercizi che aiutassero ad estendere organicamente anche al "corpo vocale" le deformazioni assunte dal corpo muto.

A quei tempi, questi esercizi il regista li stava scoprendo su di me proprio intorno al lavoro sul personaggio di Arlecchino e devo dire che, come in tutte le esperienze pionieristiche, Ferruccio è riuscito abbastanza ad "ammazzarmi" di lavoro durante le interminabili sedute di allenamento in cui la voce e persino il canto venivano strapazzati ed assoggettati al training fisico di Arlecchino. Quel che è certo, è che lentamente trovammo le regole giuste per far affiorare la voce di quei pensieri fisici di cui ormai era piena la mia esperienza del Mondo di Arlecchino, garantendo a poco a poco una corrispondenza organica tra gesto e parola.

A quel punto ormai l'Arlecchino aveva un suo training, un suo codice, un suo linguaggio.

Tutto questo processo richiese un anno di lavoro, nel frattempo nascevano le idee e il testo per lo spettacolo Il Mondologo di Arlecchino, nasceva la dimostrazione di lavoro su tutti gli altri personaggi della Commedia dell'Arte, i primi incontri didattici con gruppi di teatro che volevano avvicinarsi alle maschere attraverso una rigida disciplina fisica prima che attraverso l'improvvisazione comica. Fu la messa in moto di queste attività a far incontrare l'Arlecchino con altre esperienze ed altre culture.

Ormai possedevo un nuovo punto di vista da cui osservare il mondo, e in particolare il Mondo del Teatro. 0 forse fu piuttosto l'Arlecchino che si rivelò essere una spugna: assorbiva e traduceva nel suo linguaggio brandelli di ogni nuova esperienza che mi trovavo ad affrontare come attore in altri campi.

Così nel training dell'Arlecchino cominciarono ad entrare elementi eterogenei, nuovi vocaboli stranieri che - una volta tradotti in arlecchinese - ampliavano le possibilità di discorso del personaggio: nella continua danza esistenziale di Arlecchino entrarono passi del Frevo brasiliano, della Tarantella, di alcune danze senegalesi; nella gestualità delle mani entrarono molte interpretazioni arlecchinesche dei Mudra indiani dal Baratha-Natyam al Kathakali; nelle possibílità acrobatiche di Arlecchino entrarono le più grottesche cadute e ribaltate dei clowns incontrati.

Ognuno di questi nuovi elementi subiva lo stesso processo di scelta, pulitura e ripetizione fissa che avevano subìto i primissimi vocaboli, prima di poter entrare di diritto nel training (e nel "Quaderno segreto di Arlecchino"). Ma in questa nuova fase di arricchimento non c'era più la supervisione del regista: Ferruccio Merisi era riuscito ormai a trasmettermi la necessità assoluta del suo metodo e solo all'interno di quella disciplina ferrea riuscivo a trovare la libertà inventiva di trasformare Arlecchino.

Se in seguito la pratica di lavoro e l'esperienza hanno reso meno negativa la via della disciplina e apparentemente più pronti e spontanei i risultati, questo è solo grazie alla sedimentazione e alle profonde trasformazioni che l'intenso lavoro con Ferruccio Merisi ha provocato sul mio corpo e la mia anima d'attore.

STEREOTIPI: LIMITI E VIRTU'

Non era stato facile convincere un regista figlio e cittadino del Teatro di Ricerca ad applicare la sua sperimentazione ad un bagaglio di gesti, comportamenti e immagini caratteriali provenienti da un'appassionato viaggio a fianco di attori del Teatro cosiddetto di Tradizione.

A me pareva sin dall'inizio - e ne sono convinta tutt'ora - che bisognasse muoversi come in pittura dove bisogna prima esercitarsi molto nella prospettiva, nel ritratto dal vero, nelle varie tecniche pittor ' iche dall'olio all'acquerello, prima di poter tradire il tutto nella pittura astratta e nell'utilizzo di materiali inediti; insomma, per tradire bisogna conoscere. E non posso negare che sin dal primo impatto ho fortemente desiderato di tradire la Commedia dell'Arte nelle sue forme contemporanee più manierate e pantomimiche per tentare di impadronirmi di un nuovo uso grottesco e terribile della maschera; ma per fare questo ho dovuto imparare una sorta di fedeltà nei confronti di tutto quel materiale che sembrava contenere i germi o il riverbero di una Commedia dell'Arte più antica, più primitiva, più cruda.

Tutt'ora, quando discuto col mio regista, mi trovo ancora di fronte ad una sua diffidenza sottile nei confronti di quella gestualità tradizionale che per me rappresenta invece una collezione preziosa di spunti di lavoro, ma è stato proprio il lavoro impietoso ed attento di Ferruccio Merisi che mi ha permesso di liberare quella collezione da ciò che io stessa temevo di più: l'esecuzione manierata e senza vita di un balletto di maschere tranquillizzanti ed eleganti.

E comunque, anche dopo aver riscoperto la possibilità di muovere di nuovo sulla scena le maschere in tutta la loro pericolosità grottesca, le diffidenti risposte di Ferruccio in una recente intervista penso possano essere estremamente utili nel mettere in guardia dai pericoli che un attore dovrebbe evitare nell' affrontare oggi il mondo o il sogno della Commedia dell'Arte.

"Devo dire che io ho sempre avuto una gran diffidenza verso i movimenti 'classici' e ce l'ho tutt'ora; all'inizio della costruzione del nostro Arlecchino non ero pienamente convinto dei suoi riferimenti 'classici'. Se ho accettato il rischio è stato anche per sveltire i tempi: era un materiale già in pieno e preciso possesso dell'attrice, in un momento di sviluppo del gruppo Attori & Cantori in cui oltre all'Arlecchino di Claudia erano accesi, per gli altri tre attori, altrettanti progetti in direzioni completamente diverse che dovevano andare in porto contemporaneamente. Devo poi dire di non essere stato immune dalla tentazione di riappropriarmi di quei gesti e movimenti 'classici' per dar loro nuovo senso. Forse ci siamo riusciti; ma a tutt'oggi, durante le rappresentazioni di Arlecchino, mi chiedo se in realtà il pubblico non sia in parte distratto da questo aspetto classico e riconoscibile, e non rischi di valutare semplicemente come 'bravura' (a volte strana e incompleta) ciò che per noi è uno sforzo di vita e verità".

Ma per l'attore può non essere spiacevole lavorare sulla riconoscibilità da parte del pubblico all'interno di un teatro popolare; non fa parte anche della tua storia professionale la ricerca di un nuovo teatro popolare?

"Certo, purché il teatro popolare sia sempre una proposta e non una conferma: amo crederechequando al suo tempo Arlecchinopoteva esserevisto in un'antica piazza da tutto il villaggio (perché se ne stava magari venti giorni con la sua piccola 'trance', con la sua 'umiltà divinatoria') il senso che produceva era concretamente una serie di frammenti di gestualità, di pensiero fisico, di sonorità e - attraverso questi - anche ipotesi di vita, di vita spicciola intendo e dunque, in senso buono, saggezza popolare. Arlecchino produceva forse anche reazioni negative, cattiveria e 'peccati', ma comunque produceva lampi di necessità, manifestazioni di istinti primari. Erano microproposte di comportamento che forse trasferivano al pubblico brandelli della forza di Arlecchino che reagiva sempre e comunque agli eventi, spesso crudeli e prepotenti, della vita, e in momenti molto particolari di crisi sociale".

In definitiva il mostro contro cui combattere non era la classicità dei gesti, ma il generale rilassamento che, anche storicamente, aveva gradualmente trasformato la Commedia dell'Arte in una sorta di folclorismo di facile successo, oppure c'era qualche altro timore più intrinsecamente legato alla natura stessa di quella gestualità?

"Sì, c'erano degli altri timori, ma che derivavano direttamente da quanto già detto: temevo che i gesti'classici' della Commedia dell'Arte novecentesca risultassero, da un punto di vista strettamente fisico, semplicemente plastici, una sorta di'mimo inattivo', temevo cioè che fossero degli'ammiccamenti' impossibili da trasformare in azione. All'inizio avevo paura di non saper controllare I' effetto di quei movimenti sulla gestione dell'energia dell'attore. Ogni linguaggio d'attore deve avere anche un aspetto che funziona come ottimizzazione dell'energia dell'attore stesso, con movimenti, esercizi o segmenti gestuali che siano per l'attore un'esperienza davvero 'interessante' (che interessa tutto il corpo) in ogni momento che viene compiuta; io temevo di non avere gli strumenti di esperienza e di dedizione per controllare tutto questo sui movimenti'classici' o comunque collegati ad una definizione descrittiva del personaggio ... ".

Oltre a quelle che hai già citato, ci sono altre ragioni per cui alla fine hai accettato di cominciare un lavoro su Arlecchino a partire da materiali classici?

"Bè, prima di tutto perché il materiale che mi presentava l'attrice era molto ricco ed aveva già subito una pulizia, cosciente o istintiva che fosse, derivante dalla sua esperienza di discipline del corpo. Inoltre ogni movimento aveva una giustificazione forte: era molto chiaro ad esempio il perché e il percome Arlecchino compiva un determinato gesto. Ed è proprio perché quei gesti mi venivano presentati con estrema chiarezza linguistica che per me erano utilizzabili all'interno di un altro orizzonte di lavoro e di training dell'attore, orizzonte che l'attrice stessa del resto conosceva assai bene per averlo a lungo praticato con me al di fuori della Commedia dell'Arte. Infine si trattava di lavorare con un, attrice, e non con un attore, e quindi il lavoro di costruzione analitica di un personaggio apparentemente maschile diventava molto interessante, perché doveva essere una verifica molto forte della pertinenza stessa e della organicità della maschera fisica".

Pensi che questo trasferimento di un personaggio maschile su un corpo femmi

nile abbia rappresentato una sorta di tradimento per una tradizionale aspettativa di Arlecchini maschili?

"È vero che nei contatti che ho avuto con i teatri cosiddetti di tradizione che fanno Commedia dell'Arte - il TAG teatro (26) e l'Avogaria di Venezia per esempio, per i quali ho concretamente lavorato (ma pare che funzioni allo stesso modo per la 'scuola strehleriana') - ho notato che la distribuzione dei personaggi era indissolubilmente legata non solo al sesso, ma anche al tipo fisico dell'interprete. Gli attori venivano suddivisi in categorie, quelli piccoletti e robusti potevano fare Arlecchino, quelli molto alti erano condannati a fare il Capitano, l'accesso alle ragazze era consentito quasi esclusivamente per le Amorose, le Servette o le coreografie zannesche di gruppo, e così via. Questo come sai non fa certo parte delle nostre scelte attuali, né da un punto di vista pedagogico né da quello spettacolare, dove non disdegnamo ormai di affiancare grottescamente ad un'enorme Servetta un minuscolo e peperino Capitano. Ad ogni modo non credo che il nostro sia stato l'unico caso di recente interpretazione femminile della maschera di Arlecchino. Io stesso avevo già lavorato nel Teatro di Ventura su una stranissima Arlecchina interpretata da Lucia Sardo ne La Questione della Primavera. Nel nostro attuale e recente caso però non ci interessava trasferire al femminile la fisicità di Arlecchino, ma piuttosto controllare che la struttura psicofisica di un'attrice potesse spostarsi anche verso la cosiddetta mascolinità, rappresentata da un linguaggio maschile molto preciso. Più tardi abbiamo anche tentato di fare l'opposto e tra i nostri allievi maschi abbiamo avuto talvolta anche delle ottime e credibilissime Colombine. Quello che ci interessava e ci interessa sono due cose: prima di tutto sancire l'indipendenza dell'archetipo del personaggio dal suo interprete e poi definire la figura di un possibile attore 'neutro', in grado di indossare qualunque personaggio maschile o femminire, un attore in linea di principio disponibile a qualunque trasformazione, come un Proteo".

Al di là delle perplessità che ti sono rimaste, qual'è il risultato che ti soddisfa di più di un lavoro come questo, così totale, sulla maschera fisica e sull'archetipo del personaggio piuttosto che sulla spontaneità e la personalità dell'attore?

"Abbiamo notato che il nostro Arlecchino in scena, ma persino nel rapporto ravvicinato con la gente del pubblico e nelle improvvisazioni di piazza, risulta allo stesso tempo simpatico e spaventoso. Il pubblico ride, si diverte o sta a guardare incantato le scorribande di quello strano animale, ma a tratti, all'improvviso, prova anche timore: abbiamo visto delle persone sussultare prima di scoppiare a ridere della loro stessa reazione istintiva. Si tratta della stessa situazione di all'erta che si avrebbe nei confronti di un grosso buffo cane lasciato libero di scorazzare e del quale non si possono mai prevedere tutte le mosse. Molti dicono che la maschera nera spaventa chi non è abituato a vedere spettacoli in maschera, e forse è un tentativo di giustificare la compresenza di questo stato di all'erta con la simpatia e la comicità del personaggio. Ma non si tratta della maschera nera, si tratta piuttosto del ritmo che sta sotto questo personaggio: il comportamento extra-quotidiano del nostro Arlecchino è talmente diventato codice di pensiero che all'interno di quel codice l'attore può permettersi di fare cose che altrimenti non farebbe; la deformazione cui è sottoposto il suo corpo lo pone in una sorta di concentrazione psico-fisica che, per esempio, durante le improvvisazioni permette di compiere correttamente e senza danni le cose più spericolate e non preventivate: correre sui muri, saltar giù da balconi, saltare improvvisamente sui tavoli, persino saltare in braccio alla gente o rapire giocosamente un bambino; l'attore sembra posseduto dal codice del suo personaggio e forse è questa possessione che fa paura: non si sa mai cosa ci si potrebbe aspettare da Arlecchino. Naturalmente c'è un grandissimo controllo, l'attore non farebbe mai nulla di davvero pericoloso per il pubblico, ma c'è anche una grossa libertà all'interno di quel codice e questo risulta pericoloso ad un livello più subliminale: Arlecchino è irrispettoso delle comuni clausole sociali, quelle attuali come quelle del passato... lui si può permettere di tutto".

LA PASSIONE PER IL GROTTESCO

Ormai sarà forse chiaro al lettore che la motivazione a lavorare sulla Commedia dell'Arte è accompagnata da una forte fascinazione personale per il grottesco. L un tipo di fascinazione che a diversi livelli coinvolge la maggior parte delle persone che incontrano la Commedia dell'Arte, ma nel nostro caso ha avuto un'importanza tale che tutto il lavoro è stato spinto consapevolmente più verso l'aspetto grottesco che non verso l'aspetto semplicemente comico delle maschere. Su questo punto mi sono trovata talvolta in disaccordo con i miei stessi Maestri, grandi interpreti di un'allegria frizzante e vitale (Renzo Fabris), di un'estetica poetica finemente danzata (Tommaso Todesca), di una comicità graffiante e moderna (Enrico Bonavera), ma non sempre disposti ad incontrare la 'pericolosità' della maschera legata alla sua forza d'impatto grottesco... ad

eccezione forse di Renzo Fabris: "La Commedia dell'Arte è proprio questa amalgama di elementi apparentemente contrastanti: purezza estetica e grotte~ sco, armonia e dissonanza, plasticità e mostruosità, smorfia e passo di danza. Essa ha il potere di toccare l'uomo in zone misteriose e profonde, di liberare emozioni e fantasia; per la durata della convenzione teatrale lo spettatore ritrova un suo reagire forse dimenticato, forse inibito, ma forse per questo più che mai bisognoso di riaffiorare".

Ciò che a questi Maestri ho sempre voluto rubare erano comunque i loro punti di contatto, più o meno evidenti, con il mondo grottesco delle maschere più antiche e primitive: era questo il vero aspetto della loro arte che mi attanagliava, anche quando qualcuno di loro non ne era né consapevole né orgoglioso. Se per esempio tentavo di parlare con Enrico della demonicità di Arlecchino egli mi rispondeva tentando di ridimensionarla, ma ai miei occhi non faceva che confermarla ancora più chiaramente: "La parte grottesca del personaggio è solamente una piccola parte formale, perché Arlecchino non è un demone toutcourt: Arlecchino è un Dio di mezzo, è un demone in città, un demone che si taglia il corno e si toglie la coda e va a lavorare in città; è un 'figlio d'un diavolo' che rinnega le sue origini... un 'marrano' del mondo dei diavoli; Arlecchino accetta di servire, anche se la sua indipendenza lo fa servo di tutti e di nessuno... ma che può fare in città un 'povero diavolo'? In città non può far altro che servire e fare le commissioni, pur rimanendo un diavoletto non adeguato alla civiltà... Ma se parti da quest'aspetto demoniaco della maschera, rischi di non poter più giocare in commedia". Sì, tutto questo è vero, ma Enrico parla di commedie goldoniane, del Servitore di due padroni e della Bottega del caffè ~ così come lui le conosce dagli allestimenti odierni cui spesso partecipa nei ruoli di Arlecchino - mentre la Commedia dell'Arte lancia agganci molto più addietro e molto più a lato della grande riforma goldoniana: agganci con un mondo di buffoni, saltimbanchi e ciarlatani, persino di mendicanti ed accattoni, che magistralmentre traspare anche tra le pagine del libro di Taviani e della Schino (27) volume che per me risulta ormai essere una sorta di Bibbia per chi oggi vuole accostarsi a questo tipo di teatro.

Perché proprio attraverso questa passione per il grottesco mi è stato possibile, per lo meno come attore, immergermi lentamente, sinceramente e 'in punta di piedi', ma senza troppi filologici sensi di colpa, in quella che F. Taviani aveva già indicato - con molte utili avvertenze ed'indicazioni d'uso'- come "la Fascinazione del teatro" (28).

IL MONDOLOGO DI ARLECCHINO

Lo spettacolo Il Mondologo di Arlecchino è stato il primo risultato presentato al pubblico del nostro lavoro su questo personaggio. La preparazione del testo aveva richiesto un tempo ed un impegno parallelo ed altrettanto lungo della preparazione del training fisico e vocale, perché si fondava su una ricerca d'archivio che tentava di individuare e collezionare una varietà di temi che potevano essere usciti attraverso i secoli dalle bocche dei vari Arlecchini (29) . Fu entusiasmante scoprire che non esistevano soltanto i molti lazzi, i fraintendimenti e gli scherzi comici degli Arlecchini goldoniani (30): molto prima, durante e anche dopo il lavoro di Goldoni, dall'Italia e dalla Francia gli Arlecchini avevano parlato di servitù presso il demonio (31), di danze bacchiche, di ribellioni verso i padroni che andavano ben oltre la semplice necessità primaria di scampare alle bastonate (32) si erano scagliati contro l'amore e le donne, avevano composto poesie d'amore tra il selvatico e il fiIosofico (33) si erano spacciati per guaritori (34) per stregoni (35) si erano travestiti da dottori, avvocati (36) persino da eroi mitologici e principi e governatori grotteschi (37); ma soprattutto avevano parlato - anche attraverso i loro zanneschi fratelli che li avevano preceduti - della Fame: ne avevano parlato in modi così lancinanti, insaziabili, atavici da non evocare più solamente i bisogni d'un servo ingordo, bensì la 'genetica' interiorizzazione popolare delle carestie e delle epidemie che in passato sconvolsero l'Italia e l'Europa.

L'invenzione del testo sulla base delle indicazioni - o degli spunti d'immaginazione -forniti da quel materiale produsse quello che poi chiamammo appunto Il Mondologo di Arlecchino, cioè la stranissima e spostata, ma anche tragicamente comica 'visione del mondo' di Arlecchino.

Per me quel testo rappresentava davvero una dedica all'archetipo o all'essenza di Arlecchino. Ma dovetti subito ammettere che era assai lontano - per temi e composizione - da quello che poteva 'aspettarsi' da Arlecchino il pubblico del teatro. Come se io -paradossalmente proprio partecipando a questo coro di attese avessi messo in crisi la riconoscibilità di Arlecchino producendo di fatto con il mio testo l'ipotesi, se non ancora l'immagine, di un Arlecchino "nuovo". Il testo si era come formato da sé, riunendo nelle fittizie ma necessarie linee di

una costellazione inedita tutti i punti di riferimento che mi sembravano più importanti, credibili, condivisi dell'Arlecchino popolare. Forse, a differenza del mio pubblico, del mio coro, io avevo potuto sentire il suo 'sapore'- come dicono gli indiani -'indossando' Arlecchino sotto la guida dei miei maestri, e questo ,sapore' costituiva una specie di bussola nel mio viaggio di esplorazione del suo segreto. Una bussola che aveva prodotto una carta, una mappa (il testo), che a sua volta sembrava reclamare nuovi orizzonti di 'sapore', nuovi sistemi di orientamento.

Oggi sappiamo che questa dialettica è praticamente senza fine: il "nuovo" Arlecchino che si impose nelle prove di messa in scena ci costrinse poi a modificare la parlata con cui il testo era stato scritto, sostituendola con un dialetto molto artificiale bergamasco-veneto; costrinse anche il regista a riscrivere la drammaturgia di alcune scene; la quale ultima drammaturgia poi ci costrinse a trovare altre nuove movenze fisiche per il nostro Arlecchino... E così via... E così via...

Certamente la scelta di lavorare su un personaggio come Arlecchino non era stata una scelta facile, perché doveva competere con il fatto che nei cuori di molti già esiste un'Arlecchino rassicurante e, all'opposto, con il fatto che nei cuori di altri questo Arlecchino rassicurante (38) è un cliché che ormai più non funziona, non risuona, non parla... Noi crediamo, come dice Ferruccio Merisi, "che la Maschera di Arlecchino non sia mai stata veramente rassicurante e d'altra parte che valga la pena recuperare, riconquistare, riappropriarci di quell'Arlecchino canonico, comune, 'classico', per vedere cosa è diventato e come può vivere in questo mondo (o questo mondo con lui) anche dopo aver dormito infantilmente nelle nostre coscienze per lungo tempo".

Il pubblico che l'Arlecchino del Mondologo - bizzarro, battagliero e un po' filosofo - ha finora incontrato, ha saputo affiancare allo stupore, e talvolta alla perplessità, anche quelle reazioni di gioiosa condivisione e gratitudine, e quei desideri d'incontro sinceri, che ci hanno spinti a sviluppare maggiormente anche tutte le altre attività pedagogiche intorno alla Commedia dell'Arte.

E a questo punto è necessario fermarsi: mi è troppo difficile parlare d'uno spettacolo che è ancora oggi sulle scene - dopo più di tre anni di vita - e che mi ha insegnato e continua ad insegnarmi moltissimo.

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna