Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna A Fabrizio Cruciani che mi ha insegnato

A Fabrizio Cruciani che mi ha insegnato a scrivere la prima parola di questa riflessione.

Prendeva talmente sul serio i pensieri degli altri da farli esistere molto di più di come erano quando li aveva incontrati.

VIAGGIO NELLA COMMEDIA DELL'ARTE

di Claudia Contin

INTRODUZIONE

Un contributo sulla Commedia dell'Arte non è cosa semplice e non perché ci sia poco da dire, ma piuttosto perché c'è "troppo da dire" ed è già stato detto e scritto moltissimo. Nonostante questo c'è ancora una sorta di imbarazzo generale nel rispondere alla domanda "Che cosa è la Commedia dell'Arte?"(1). Un attore, che l'abbia inseguita e praticata, al suo pubblico o ai suoi allievi - che gli chiedono quali siano le caratteristiche di questo tipo di teatro - non può che dare risposte parziali e forse inesatte perché sempre incomplete. È forse un teatro propriamente di personaggi dai volti coperti di maschere?... Sì ' ma non solo, poiché vi è una gran quantità di personaggi nobili o femminili - spesso importantissimi e protagonisti - che di maschere sul volto non ne portano alcuna. È forse definibile come un "teatro del gesto", un teatro "corporeo", un "teatro del movimento fisico"?... Si, ma non solo, perché gli attori parlavano e parlavano moltissimo anche! Le maschere stesse non sono maschere mute che coprono l'intero volto, ma lasciano invece tutta la parte inferiore libera di compiere con la voce - come con le "boccacce" - il lavoro di deformazione grottesca dei caratteri. t forse un teatro tipicamente d'improvvisazione?... Sì, sì, anche, ma non solo, vi furono molte commedie scritte (2) accanto al gran numero di scenari o "canovacci" e tutt'oggi possiamo far riferimento ad una gran quantità di testi, dialoghi, Monologhi, prologhi in prosa e in versi, raccolti dal Pandolfi e da altri (3) .

E forse un "teatro di piazza", un teatro da saltimbanchi all'aperto? Sì, sì, certo, ma non solo: scopriamo infatti che già nel '500 esisteva un circuito di teatri al chiuso (4). E allora come possiamo definirla? Che cos'è la Commedia dell'Arte? In particolare è una domanda imbarazzante per chi, come me, può solamente rispondere alla questione di "che cosa è e di cosa è stata la Commedia dell'Arte all'interno di un personale percorso d'attore".

Un percorso d'attore all'interno di quel particolare "sogno" teatrale talmente variegato da non essere codificabile univocamente, ma che ha spinto molti altri attori ed artisti del nostro secolo ad immergersi nel tentativo di ricostruzione delle maschere dell'Arte, per riportare anche oggi un buon Arlecchino, o un buon Pantalone sui palcoscenici dei nostri teatri (5). Ho avuto la fortuna di incontrare davvero diversi Arlecchini e Brighella e Pantaloni e Pulcinella da osservare, da inseguire talvolta e da studiare. Alcuni di essi amo chiamarli '1 miei Maestri", ma non tanto e non solo per il valore di quello che mi hanno insegnato rispetto ad altri, bensì soprattutto perché l'inseguirli e l'osservarli mi ha permesso di rubare loro gran parte di quell'immaginario sulle maschere che oggi mi consente di sognare intorno alla Commedia dell'Arte come su di una cosa viva, mutevole, reinventabile e sempre nuova. Perché per un attore inseguire l'immaginario delle maschere significa svolgere un lavoro di osservazione e apprendimento pratico che si deposita lentamente in esperienze, capacità e tecniche.. ovvero, artigianalmente, in principi trasmissibili. Il viaggio d'attore che qui viene narrato si avvale di testimonianze, riflessioni, descrizioni, interviste ed aneddoti organizzati in una successione il più possibile sincera e completa degli incontri con attori, registi, immagini e testi che hanno reso possibile una formazione d'attore anche attraverso la Commedia dell'Arte. Non è stato sempre solo un percorso pratico, attraverso l'attività didattica a volte ha tentato di essere anche un percorso teorico, pedagogico e di ricerca ~ come proveremo ad esporre qui di seguito - ma è chiaro che questo è solo uno dei mille percorsi possibili che il sogno della Commedia dell'Arte lascia ancora aperti agli attori che vi si approcciano.

 

RAPPORTI CON LA STORIA E LE TRADIZIONI

RIFERIMENTI GUIDA RISPETTO ALLA STORIA DELLA COMMEDIA DELL'ARTE

Sogno, mito, segreto o miraggio? Dopo la pubblicazione del testo di Ferdinando Taviani e Mirella Schino non è più possibile parlare con leggerezza di "tradizione" e di "storia" della Commedia dell'Arte (6), bisogna perlomeno cominciare a tracciare distinzioni su distinzioni per ogni riferimento del passato - più lontano o più recente - che si voglia di volta in volta assumere come guida per il proprio lavoro. Giustamente i critici hanno più volte manifestato una certa diffidenza nei confronti delle modalità con cui nel nostro secolo il cosiddetto "mestieraccio" dell'attore si è più volte appropriato del miraggio della Commedia dell'Arte attraverso le sue più banali reminiscenze da " carnevale leggero per bambini". Fin dai primi decenni del Novecento possiamo notare - se scorriamo i ritagli dai giornali dell'epoca (7) una critica talvolta infastidita, talvolta rassegnata intorno a quella che sembrava essere 1a dichiarazione di morte" di una Commedia dell'Arte sopravvissuta a se stessa. Ma grazie al lavoro paziente di molti storici del nostro secolo oggi è possibile, anche all'attore meno intellettuale, avvicinarsi alla Commedia dell'Arte attraverso un materiale molto più vasto ed interessante della visione folcloristica delle maschere carnevalesche della nostra infanzia. Tutto ciò che è storia e documentazione della Commedia dell'Arte è - o potrebbe essere - estremamente utile all'attore per relativizzare il suo lavoro, ma anche per liberarlo dai cliché che certa 'nuova' tradizione novecentesca ha più o meno fissato per la pratica attuale di questo tipo di teatro. Ed ancora più utile può essere il patrimonio documentario di cui è possibile disporre direttamente. Uno dei riferimenti comunque più utili all'attore - per non dire assolutamente necessario - è il ricco patrimonio iconografico che più ancora dei testi scritti può in parte documentare il lavoro dell'attore sulle passate scene d i commedia e di farsa. Con un passato di studi nel mondo delle arti figurative (8) - poi comunque messo al servizio dell'attività teatrale - anche per me il primissimo contatto con la Commedia dell'Arte fu proprio quello attraverso le immagini: un contatto ed un colloquio che ho poi scoperto importantissimo per molti altri - attori e non - che hanno affrontato questo territorio (9). Sappiamo che tra le immagini responsabili della fascinazione contemporanea per la Commedia dell'Arte ci sono le 24 famosissime incisioni di Jacques Callot dei "Balli di Sfessania" (1621-22), sebbene i nostri teorici ritengano che sia quasi un falso storico la ricostruzione della Commedia dell'Arte a partire da quella collezione (10). Ma non è una preoccupazione di carattere filologico che inizialmente guida un attore affascinato ed ancora oggi non riesco a non considerare quelle incisioni - che siano esse più o meno collegate alla Commedia dell'Arte - tra le più significative ed efficaci per una re-invenzione (e non una ri-costruzione) di un comportamento deformato e grottesco dell'attore. E comunque il materiale iconografico è molto più vasto: esistono moltissime altre immagini che ritraggono più direttamente gli attori e le compagnie all'opera offrendoci numerosi altri indizi sul carattere fisicamente grottesco di quel tipo di recitazione (11), anche se nessuna di esse sembra raggiungere l'esasperata definizione anatomica dei personaggi contorti e danzanti di Callot. Sicuramente non è pensabile che ad un giovane attore che vuole avvicinarsi alla Commedia dell'Arte siano sufficienti le immagini ammorbidite e folcloristiche di molti nostri carnevali contemporanei - e tanto meno sono utili le immagini patinate dell'odierno Carnevale di Venezia - per intuire la natura intrinsecamente teatrale delle maschere italiane. Per questo il patrimonio iconografico disponibile intorno alla Commedia dell'Arte diventa forse uno strumento indispensabile per la comprensione di quel mondo di maschere (12). Esiste poi un altro aspetto della Commedia dell'Arte che per me non è stato direttamente reperibile dalla tradizione teatrale contemporanea e che andava dunque rintracciato nelle testimonianze del passato: la forza della comunicazione dialettale e paradossale delle maschere. Non è attraverso il teatro dialettale odierno ~ spesso di tipo localistico ed 'amatoriale', se si eccettuano i grandi esempi come De Filippo - che per un attore è facile appropriarsi dei temi e dei valori espressivi di un'antica cultura dialettale abituata a reinventarsi e ad esportarsi anche al di fuori delle proprie aree di pertinenza (13). Nelle varie parlate di Arlecchino o degli Zanni rintracciabili nei meandri del repertorio scritto definito scarso ed inconsistente da un punto di vista letterario, ma in realtà intrigante e variegato seppur nella sua frammentarietà - si possono ritrovare modi di dire e buffe invenzioni semantiche che vanno ben al di là della possibile imitazione dell'attuale parlata veneta o della cadenza bergamasca. Nelle antiche tirate di ciarlatani e di dottori collegabili alla figura di Graziano Balanzone, si può individuare tutta la ricchezza di un linguaggio "maccheronico" (14) che mescola fraintendimenti e latinismi ad un'antico volgare ritmicamente assai più cempl esso della cadenza bolognese che oggi saremmo in grado di recuperare alla maschera semplicemente per imitazione o apprendimento del dialetto locale. In questo senso quel limitato - ma non troppo - materiale scritto che ci rimane mi ha insegnato a vedere nel dialetto non un'affermazione localistica del linguaggio teatrale, ma piuttosto una possibile strada verso la libertà di un teatro popolare dalla rigidezza in cui la 'corretta dizione teatrale' ha spesso ultimamente intrappolato la lingua italiana.

La necessità per l'attore - di trarre alcuni riferimenti guida dalla "storia" della Commedia dell'Arte, ancora una volta non risponde alla necessità di definire "cos'è la Commedia dell'Arte", ma introduce semplicemente un'altro livello importantissimo di questo "Viaggio" che non avrebbe potuto svolgersi senza alcune visite al patrimonio storico-letterario-iconografico: i materiali così reperibili sono infatti assai più vasti di quanto si possa oggi ricavare semplicemente dalla pratica teatrale e rendono possibile sotto forma di sincera "dedica al passato" - una libertà di re-interpretazione e re-invenzione che certi irrigiditi stilemi contemporanei talvolta non consentono.

VIAGGIO TRA I MAESTRI

Il mio percorso d'attore, dunque non è cominciato (e spero che neppure terminerà) con la Commedia dell'Arte: essa è stata come una sorta di grande e misterioso continente da incontrare, ed è un viaggio appassionato che ancora continua.

Il contributo che posso dare può tentare di essere un resoconto fedele su quel continente, ma non posso che continuare a sottolineare che è il resoconto di ciò che è passato attraverso i miei occhi (e i miei sogni), che non sono gli occhi di uno storico - anche se pur sempre occhi innamorati della storia ~ sono bensì gli occhi d'un attore che usa ed utilizza i suoi materiali di viaggio per il suo lavoro di scena e di pedagogia.

Quando incominciai ad apprendere i passi, i lazzi, i movimenti delle mani e della testa di Arlecchino e degli altri personaggi, avevo già alle spalle una cultura fisica di mimo, di acrobatica, di lavoro sul clown, di danza e l'impostazione di un training sperimentale dovuto a certa frequentazione del "teatro di ricerca". Ma mai avevo provato sul mio corpo l'esperienza così "trasformatrice" della deformazione grottesca. Avevo già sperimentato l'intensità del lavoro sotto la "rnaschera neutra" della scuola di Lecoq attraverso l'insegnamento di Alessandra Galante Garrone (15) e altri tipi di maschere astratte, ma la forza concreta di maschere così antropomorficamente deformi era ancor più affascinante. Era insomma una pratica teatrale che riusciva a cambiarmi, a trasformarmi più di qualunque altra disciplina incontrata prima.

Perché la Commedia dell'Arte oggi? Perché la ritenni tanto importante da rappresentare per me un momento fondamentale per la formazione dell'attore odierno? I temi, i personaggi, i costumi, l'ambiente della Commedia dell'Arte appartengono al passato, ma contengono dei segreti di spettacolo dei quali siamo alla ricerca tutt'oggi, in particolare il segreto della capacità inesauribile d'improvvisazione su temi e schemi fissi. Un attore, un Arlecchino (Enrico Bonavera), che ho avuto la fortuna di frequentare come amica ed allieva mi spiegava che la Commedia dell'Arte è per l'attore come 1'allenarnento dei nonni": i nonni solitamente sono bravissimi a raccontare, anche perché raccontano sempre la stessa storia, ma ti fanno rimanere a bocca aperta ogni volta, perché la infarciscono -senza fine ~ di particolari così precisi e puntigliosi che assumono il fascino della concretezza davanti agli occhi del fanciullo in ascolto. E poi c'è qualcosa di stranamente intramontabile nei personaggi della Commedia dell'Arte, qualcosa che rimane comprensibile a qualunque tipo di pubblico in Italia, e qualcosa che ha da sempre affascinato il teatro di tutta Europa e oggi del mondo intero.

Rimanendo nei confini del teatro italiano, scopriamo che il Signor Pantalone, vecchio, tirchio e poeta, ci fa ancora divertire dopo quattro secoli di vita, anche se siamo alle soglie del 2000, con ben altri problemi e altre tematiche politiche, sociali ed economiche su cui piangere o su cui fare satira. E vero che se il teatro è "specchio della vita" non è sempre necessario che sia specchio della vita contemporanea per interessarci ed affascinarci, eppure è plausibile pensare che proprio la Commedia dell'Arte fu un tipo di teatro contemporaneo per i suoi tempi, cioè un tipo di teatro fatto per un pubblico che vi vedeva rappresentato se stesso. Oggi non ci è più dato di leggerlo in questo modo: se noi guardiamo una scena con Pantalone vediamo un mercante veneziano del sei-settecento invecchiato arricchendosi coi commerci per la Serenissima, vediamo cioè - o crediamo di vedere - un pezzetto del nostro passato; mentre lo spettatore di allora vedeva in scena la caricatura fortissima e grottesca di un personaggio che poteva tranquillamente ritrovare seduto al proprio fianco, tra il pubblico; persino la maschera, che oggi ha per noi un effetto un po' antiquato - seppure magico, arcano, pieno di antichi e primitivi rimandi a Venezia ha avuto un uso anche più allargato, anche extra-teatrale, soprattutto nella vita mondana dei ceti più agiati (16). Nonostante questo il Signor Pantalone continua a far ridere anche noi: continuiamo a capirlo istintivamente nella sua comicità come nella sua drammaticità, per esempio, di vecchio perennemente innamorato della gioventù delle donne quasi a scongiurare l'avanzare della sua vecchiaia senza fine; continuiamo a capirlo come se conservasse l'essenza di qualcosa che non è cambiato nei secoli.

Quello che ho sempre pensato essere la più grossa ricchezza della Commedia dell'Arte è l'individuazione di una serie di modelli o archetipi umani che sembrano aver possibilità di non tramontare col passare del tempo. Possiamo pensare di considerarli archetipi, non macchiette, e proprio per questo possiamo ancora scoprire un po' di Pantalone in ognuno di noi, un po' di ingenuità arlecchinesca, un po' di boria da Balanzone, un po' di narcisismo da Capitan Spaventa... in ognuno di noi e - con ciò - scoprirci pericolosamente un po' grotteschi.

Il Mondo grottesco della Commedia dell'Arte rappresenta per me la vivacissima, esasperata, indistruttibile forza vitale dell'autoironia dell'umanità.

E vero che le cosiddette "tradizioni" della Commedia dell'Arte nel teatro contemporaneo sono tante, ma nell'incontrare sulla strada dell'apprendimento vari Maestri di Commedia dell'Arte ho riscoperto sempre la stessa necessità di collegamento con quegli archetipi grotteschi dell'umanità che sembrano essersi fissati e tramandati nelle maschere: nonostante i diversi modi di insegnare o di recitare, nonostante i diversi stili di ricostruzione del linguaggio delle maschere in quelle che si sono volute definire 'scuole', si aveva sempre l'impressione d'inseguire lo stesso oggetto da diversi punti di vista. E così l'Arlecchino è sempre rimasto fondalmentalmente Arlecchino: come qualcosa o qualcuno che ormai trascende le differenze di tutti i suoi interpreti.

E dunque, con questa sorta di fascinazione per un archetipo, non era possibile fare a meno di interessarsi profondamente alle differenze dei punti di vista che potevano aiutare a definirlo: per questo è stato importante inseguire più Maestri. Fu durante il biennio 1986-1987 che avvennero i primi contatti duraturi con questi Maestri, attori rappresentativi di diverse'scuole' di Commedia dell'Arte: questi primi incontri avvennero attraverso o intorno l'attività pedagogica presso la Scuola di Teatro a l'Avogaria di Venezia (17). In seguito questi incontri furono rinnovati in forma privata o attraverso l'attività didattica della "Scuola Sperimentale dell'Attore" di Pordenone (18).

RENZO FABRIS: UN BRICHELLA "INNAMORATO" DI ARLECCHINO

Renzo Fabris è stato cronologicamente il mio primo maestro di Commedia dell'Arte. A lui, alla limpidezza del suo atteggiamento pedagogico, devo il fatidico e ormai cronico contagio... ma soprattutto gli devo l'appassionata tendenza a raccogliere e a divulgare, come in questo caso, materiali, testimonianze ed esperienze, quasi con il segreto pensiero di rendere giustizia a quel teatro umile, colorato, pieno di segreti, diverso e accampato in una strana nicchia o riserva tutta sua. Ripenso con una certa commozione ai nostri incontri di lavoro'. tra i miei maestri Renzo è ancora l'attore che ideologicamente sento più vicino al lavoro che, col passare degli anni, ho potuto sviluppare intorno alla Commedia dell'Arte.

Tra le molte esperienze del suo professionismo d'attore (19) Renzo Fabris riconosce soprattutto l'insegnamento derivatogli da due celebri spettacoli cui ha partecipato: La commedia degli Zanni con la regia di Giovanni Poli e Arlecchino servitore di due padroni con la regia di Giorgio Strehler, ove interpretò a lungo la parte di Brigliella. Questi per Renzo rappresentano "gli spettacoli con i quali si è formato e che sono parte essenziale del suo modo di vivere il teatro"; ma per chi ha la fortuna d'incontrare personalmente quest'attore diventa subito evidente che in tutto il suo lavoro c'è una vitalità estremamente personale, che le stesse 'scuole' da lui menzionate non hanno saputo trasferire allo stesso modo su altri allievi.

La consapevolezza didattica che Renzo Fabris applicava nei suoi corsi di Commedia dell'Arte aveva sempre come riferimento il problema della formazione dell'attore contemporaneo; egli era solito introdurre così i suoi seminari: "La moderna ripresa di interesse per la Commedia dell'Arte continua a dare origine a spettacoli, studi e corsi della più varia qualità. Essa rivela comunque un particolare bisogno di teatro che riconferma la Commedia dell'Arte in un ruolo rilevante tanto nello spettacolo contemporaneo, quanto nella formazione generale degli attori". 1 suoi seminari si rivolgevano normalmente ad attori professionisti o semi-professionisti ed offrivano un'occasione seria di specializzazione ed approfondimento degli approcci moderni alla Commedia dell'Arte attraverso un addestramento solido ed impegnativo che non ammetteva deroghe alle personali esigenze di "espressione naturalistica" degli allievi. Il tipo di recitazione cui egli mirava si basava su "chiarezza, immediatezza, essenzialità" e, come egli stesso metteva preventivamente in chiaro, l'insegnamento pratico per raggiungere quegli obiettivi si basava su "un addestramento sistematico che analizza e scompone il gesto in tutte le sue parti, scoprendone gli schemi grammaticali per poi ricostruirlo - ricomposto e coordinato su una misura ritmica precisa che scandisca nei dettagli tutte le varie fasi di esecuzione... quasi come un passo di danza". La struttura dei suoi corsi era estremamente collaudata: dapprima Renzo impostava un allenamento separato di tutte le parti del corpo - gambe, braccia, testa-collo, busto, etc. - per migliorare la scioltezza, l'agilità e il coordinamento dei suoi allievi, poi iniziava un lavoro di pulizia e stilizzazione della 'pienezza' del gesto attraverso l'insegnamento puntiglioso del ricco repertorio di movimenti che caratterizzavano ognuno dei suoi personaggi.

A quei tempi io ero un'allieva piuttosto minuta e leggera che in qualche occasione era già comparsa qua e là con qualche Arlecchinino rachitico o qualche Zannetto magrolino, ma grazie a Renzo scoprii il peso greve delle maschere; questo fu possibile soltanto inseguendo ed imitando con gran fatica la dirompenza vitale dei robusti personaggi che mi presentava quest'attore instancabile, ormai non più giovanissimo, ma più atletico di tutti i suoi allievi messi insieme. Per Renzo infatti era ed è sempre importante "unire alla stilizzazione del movimento elegante e funzionale la carica di vitalità e di animalità della maschera".

Una volta impostate le posizioni e i movimenti di base dei personaggi, Renzo non passava direttamente all'improvvisazione - questa avveniva solo molto più tardi ~ ma insegnava prima ai suoi allievi tutta una serie di lazzi fissi, di brani codificati di scene famose, di sequenze fisiche da imparare alla perfezione. In questo modo il bagaglio che ogni allievo si trovava a possedere per ogni personaggio non era solo una sorta di camuffamento superficiale, ma un ricco repertorio di comportamenti ritmici della maschera in varie situazioni. Solamente dopo che il repertorio fisico dell'allievo era sufficentemente ricco Renzo passava all'impostazione di nuove scene più estese e poi -finalmente - all'improvvisazione. Questo fu un altro grande insegnamento: per lui l'improvvisazione sembrava non aveva nulla a che fare con la 'spontaneità', ma era piuttosto - o più precisamente - il raggiungimento finale di una capacità d'attore di 'composizione infinita' sulla base di tecniche apprese ed attentamente raffinate.

Attualmente Renzo Fabris fa "il pensionato" come egli stesso dichiara, ma non di rado è possibile ritrovarlo in veste di attore ~ nei circuiti del teatro veneziano - e di freschissimo pedagogo presso chiunque voglia ospitare la coerenza tecnica dei suoi corsi.

Quello che Renzo Fabris vede nella Commedia dell'Arte credo sia utilissimo ad ogni giovane attore: "un concerto di colori, suoni, ritmi e contrasti improvvisi, forme pure e godibili per se stesse. Ma le ragioni di fondo che motivano la nostra ricerca sulla Commedia dell'Arte non si vogliono fermare solo a questo. Non si tratta nemmeno di puro spirito filologico che miri esclusivamente al recupero di antiche tecniche teatrali. Intendiamo mettere in evidenza anche quei contenuti che nel riferimento all'essenza profonda delle maschere e della loro teatralità trovano modi espressivi insostituibili. Parlo per esempio dell'inquietante sovrapposizione uomo-bestia creata quando l'attore indossa una maschera... e del grande potenziale teatrale che essa può offrire. Parlo della naturalità esplosiva e della sua ingenua purezza, parlo del fatto eversivo e liberatorio, affermazione dell'istinto vitale della sopravvivenza su tutti i condizionamenti sociali... Quando si parla di Commedia dell'Arte non è quindi solo alle vicende dei canovacci o alla filologia che bisogna pensare. Vi sono nella Commedia dell'Arte dei contenuti profondi e antichissimi che si possono riconoscere nel grottesco della ,Maschera".

 

TOMMASO TODESCA: PANTALONE-ARLECCHINO

Tommaso Todesca è stato per moltissimo tempo un maestro di mimo per me, prima di introdurmi nel raffinato mondo di una Commedia dell'Arte rarefatta e poetica che molto risentiva della storia particolare della sua formazione.

Il veneziano Tommaso Todesca entrò appena quindicenne alla Scuola dell'Avogaria di Giovanni Poli dove debuttò l'anno seguente per poi rimanere per cinque anni presso la Compagnia Stabile del Teatro all'Avogaria (20). Durante quel lungo periodo il giovane Tommaso ebbe il tempo di assimilare e fare profondamente sua la concezione favolistica e delicatamente nostalgica che Giovanni Poli - allora ancora vivente - aveva della Commedia dell'Arte (21). Intorno ai ventun'anni Tommaso parti per Parigi dove frequentò l''Ecole Internationale de Mimodrame' diretta da Marcel Marceau. La sua predisposizione per il movimento aggraziato lo spinsero successivamente - nell'arco della sua formazione -a fare anche

diverse esperienzenella danza, per esempio conCarolynCarson eWes Howard (22). Comunque una volta terminata la scuola francese di Marceau fece ritorno in Italia di nuovo presso la Scuola veneziana all'Avogaria dove io lo incontrai come insegnante di mimo, credo non troppo tempo dopo il suo rientro. Di soli quattro anni più vecchio di me il mio sottile e minuto maestro sembrava però più giovane di tutti i suoi allievi: silenziosissimo, serissimo e gentilissimo riusciva durante le sue lezioni ad ottenere da solo più disciplina e più muta concentrazione di tutti gli altri insegnanti; per due anni ci insegnò una raffinatissima tecnica di microscomposizione dei movimenti del corpo, allenò i nostri muscoli alla complicata tecnica illusoria con cui Marceau costruisce fisicamente una realtà illusoria di oggetti nello spazio, ci comunicò la sua particolare sensibilità mimetica attraverso gli esercizi di immedesimazione fisica con elementi e materiali di diversa natura.

Solamente durante gli ultimi mesi del biennio, al termine del suo percorso didattico, Tommaso lavorò con noi sui personaggi della sua Commedia dell'Arte, filtrati attraverso il mimo francese, la danza e le sue numerose esperienze con la musica antica. E così mi trovai di fronte ad una collezione di personaggi molto più leggeri ed aerei di quelli che avevo conosciuto con Renzo Fabris: era come se il loro peso non gravasse mai totalmente verso terra. La cosa più chiara che mi venne in mente è che sembravano dei grandi burattini ribelli con le articolazioni dinoccolate che si muovevano a piccoli scatti vivaci, che avrebbero voluto allegramente sfuggire al loro burattinaio ma inesorabilmente non potevano toccare terra, perché sempre un po' sospesi a mezz'aria dai loro fili invisibili.

L'Arlecchino leggermente 'alla francese' di Tommaso appoggiava leggiadramente la punta del piede a terra anziché piantarci rozzamente il tallone, la sua veloce camminata danzata sembrava metterlo in balìa di una folata di vento che lo strappava ai suoi stessi fili; quando saltellava sul posto sembrava fatto di tanti pezzetti di legno rotti alle giunture. Quello che più mi affascinò fu il vedere per la prima volta il mio compassato e composto amico utilizzare quelle forme graziosamente quanto buffamente danzanti ~ per avviarle comunque verso una comicità più grezza e verso la rozzezza dei dialetti delle varie maschere: la Commedia dell'Arte aveva circondato di una leggera aura di grottesco anche Tommaso. Un personaggio da lui molto amato era Pantalone, ma in seguito sempre di più si è specializzato nel ruolo del suo veloce Arlecchino.

Comunque da Tommaso appresi nuovamente tutti i fondamentali personaggi, lavorati attraverso una nuova precisione di tecnica 'astratta': egli definiva le posizioni ed i movimenti di ogni personaggio utilizzando la capacità mimica del corpo di descrivere e riprodurre fisicamente determinate forme geometriche. Così, ad esempio, la costruzione della figura dello Zanni fu un lavoro d'analisi sull'intrecciarsi di linee curve tra braccia, gambe e spina dorsale; indossare la maschera fisica dello Zanni divenne la capacità di afferrare un'enorme palla invisibile e leggera a cui tutto il corpo si adattava geometricamente; persino le possibilità di messa in movimento di questo concetto altamente figurativo dello Zanni si basavano su determinate azioni mimiche nei confronti di quell'enorme palla d'aria: il suo sgonfiarsi e rigonfiarsi sotto sforzo quando lo Zanni-ladro avanza lento e guardingo verso la tavola imbandita, la possibilità di lanciarla più volte in aria e riprenderla ritmicamente al volo per gli Zanni danzanti.

Quello di Tommaso era un mondo completamente differente da quello di Renzo, ma quanto mi fu enormemente utile in seguito per individuare le leggi con cui il corpo poteva adattarsi alle deformazioni caratteriali - ben più grottesche ~ che cercavo nella Commedia dell'Arte!

ENRICO BONAVERA: ARLECCHINO

Il mio rapporto con l'Arlecchino genovese Enrico Bonavera è stato lungo e fecondo e tutt'ora continua con periodici incontri di amicizia e lavoro tra due Arlecchini che si considerano un po' fratelli nonostante siano ormai molto diversi l'uno dall'altro.

Enrico Bonavera si definisce allievo diretto di Ferruccio Soleri (23), attualmente figura suo aiutante ufficiale nel campo della didattica ed è forse uno dei più meritevoli possibili eredi della maschera di Soleri nell'Arlecchino servitore di due padroni.. Nei curriculum ufficiali, a Enrico di solito piace nascondere la sua nascita terzoteatrale come attore (24) ma ogni volta che lo si incontra di persona egli ama svelare il segreto del suo "ponte": a suo dire tutto il suo progetto di lavoro teatrale sta nell'andare a visitare l'artigianato e le leggi della tradizione teatrale occidentale confrontate con la sperimentazione. Il suo essere attore è fatto tanto di motivazioni esistenziali che si rispecchiano nella nozione grotowskiana di "teatro povero" quanto di motivazioni teatrali che lo spingono ad interessarsi di strategie teatrali appartenenti al teatro industrial-commerciale. Il miglior modo per inquadrare la sua natura d'attore è quella di riportare un brano di un'intervista da lui rilasciatami il 10 maggio 1994 durante uno dei nostri più recenti incontri di lavoro: "Mi sono reso conto che nel così detto teatro tradizionale ci sono molti errori e anche molte sacche di ignoranza irrisolte, ma ho anche scoperto che nel teatro tradizionale ci sono pure delle cose importanti da sapere ... che potrebbero essere molto utili al teatro povero. Questo fatto era già molto chiaro nella prima generazione del teatro povero: sappiamo che Grotowski inizialmente era una persona che faceva regie tradizionali prima di impostare la sua ricerca; ma nella seconda e terza generazione del teatro povero s'è un po' persa questa consapevolezza di confronto con la tradizione e si sono perse delle conoscenze che erano utili, anche se poi potevano venir rinnegate, ma che partorivano comunque qualcosa. lo in questo mondo di conoscenze artigianaltradizionali sono dovuto tornare... e non ci sarei mai tornato se non fosse stato per la maschera: per Arlecchino. lo sono tornato al teatro cosidetto 'tradizionale' per la maschera di Arlecchino! ".

Così, per Enrico Bonavera, Arlecchino è stato il ponte, la barca, il mediatore tra la sponda del laboratorio di sperimentazione teatrale e la sponda del teatro di tradizione. Egli è consapevole che Arlecchino può rappresentare quella parte del teatro di tradizione che è più fisica delle altre, cioè che utilizza il corpo dell'attore all'interno di un comportamento stilizzato e non solo naturalistico: una stilizzazione che per Enrico rimane in buona parte realista, ma che per tutt'altra parte è fortemente espressionista. Così Arlecchino è una sorta di navetta tra due mondi in cui Enrico si sente sempre e comunque un caso anomalo... una navetta, dunque, sempre in viaggio tra una sponda e l'altra. Questo continuo spostamento crea senza dubbio alcune contraddizioni in Enrico, ma proprio in questo sta il mio interesse per la didattica che egli ha sviluppato nell'insegnamento della Commedia dell'Arte.

Contraddizioni estremamente interessanti da annotare; da un lato Enrico rilascia affermazioni del seguente tipo: "L'Arlecchino tu non lo puoi imparare se non all'interno delle situazioni di relazione e non dal punto di vista tanto fisico, quanto per il modo di dare la battuta, di reagire; Arlecchino è un ruolo straordinario di tensione, di verità, di lavoro su di sé, per questo l'Arlecchino può essere appreso solo da un'attore già abbastanza formato, anche perché nel teatro tradizionale non c'è uno studio così metodico dei personaggi... per l'Arlecchino sì - grazie a Soleri - ma per gli altri personaggi praticamente non esiste un'iconografia teatrale tale da poterci aiutare e non esiste una vera trasmissione: ad esempio Nico Pepe non è che ha creato dei veri Pantaloni e lo stesso Arlecchino servitore di due padroni è stato una sorta di progetto sperimentale di Strehler, tant'è vero che lui stesso dice che quello spettacolo non è Commedia dell'Arte". Eppure Enrico stesso ha saputo codificare per suo conto un buon lavoro fisico, ritmico ed estremamente metodico sui vari personaggi e sull'uso della maschera racchiudendolo in una struttura didattica che gli consente di trasmettere la sua esperienza d'attore in situazioni di stage e laboratorio ancor prima che direttamente sulla scena. Infatti il suo Arlecchino in scena ha incredibili capacità comiche, ma una definizione formale delle azioni e dei gesti inferiore a quella dell'Arlecchino di Renzo Fabris e inferiore a quella che lo stesso Enrico è in grado di codificare sul corpo di un allievo meno istintivamente dotato di comicità; a questo proposito la sua risposta è la seguente: "Nella Commedia dell'Arte che ho accettato di fare - e che è quella che fa Soleri (25) - il corpo è un veicolo per comunicare non l'astrazione, bensì la realtà, la paradossalità della realtà, la follia della realtà; la comicità di Arlecchino è importante, non intendo l'angoscia della comicità né la comicità a tutti i costi, ma essa è fondamentale perché è il contatto paradossale di Arlecchino con la realtà, è l'anima infantile di Arlecchino; Arlecchino è un bambino a contatto con la realtà... non è un virtuoso del corpo". Eppure proprio Enrico Bonavera può definirsi un virtuoso del corpo, forse uno dei pochi attori del cosiddetto teatro tradizionale che ha un training fisico quotidiano, una preparazione acrobatica da vero saltimbanco, una pratica di Tai Chi e una buona conoscenza anatomica del corpo dell'attore. Se gli si chiede ragione di questa differenza tra la sua visione della Commedia dell'Arte soleriana e la sua pratica di precisione e definizione didattica egli risponde: Al mio limite e insieme la mia forza è di essere comunque un intellettuale: è un limite perché perdo del tempo a cercare di capire quello che sto facendo, mentre Soleri - che è molto meno intellettuale - spesso è meno propenso a codificare; per me capire è molto importante, sono sempre alla ricerca di una verità, di una sorta di strada scientifica percorribile dall'inizio alla fine: è una posizione molto rinascimentale la mia, cioè pongo l'attore al centro del mondo e poi cerco in tutti i modi di conoscere qual'è l'Arte propria dell'attore e quali sono le sue possibilità; da questo centro partono molte strade, possiamo percorrerne diverse e questo è anche un modo di rispettarle tutte, sempre che rispondano alla tutela dell'identità dell'attore, alla sua salute mentale e fisica, non al suo sfruttamento. Per Soleri è diverso: quando sono diventato suo allievo lui mi ha picchiato, non certo fisicamente... dove ha davvero colpito è il morale, ha colpito il mio orgoglio, mi ha bombardato di informazioni e lo ha fatto non in maniera giusta, non in maniera pedagogica, ma secondo quello che è il suo duro sistema da 'bottega'". Così Enrico per apprendere la Commedia dell'Arte è stato "a bottega dall'Arlecchino Soleri" e successivamente ha messo in ordine e documentato le tecniche artigianali passategli quasi rudemente dal suo unico maestro. "Sì! Sì! A bottega! A bottega da Arlecchino", mi conferma con convinzione Enrico stesso, "e non potevo certo aspettarmi che Arlecchino mi spiegasse con pazienza che quell'impulso del bacino si riflette qua nella spalla' o altre cose simili: Arlecchino non ha pazienza, Arlecchino ti tratta male! Per me invece è importante sapere il come e il perché di ogni cosa che apprendo e che insegno, io sono insegnante in senso più ampio dell'attore Soleri: mi piace che il mio allievo capisca".

E così l'insegnamento di Enrico anche su di me non è stato solamente di tipo pratico: l'incontro con questo terzo Maestro ha trasformato il mio essere attoreladro insegnandomi a riflettere sulla necessità che mi spingeva a rubare i materiali primari per poi codificarli per mio conto. A differenza degli altri Maestri Enrico è sempre stato al corrente del fatto di essere 'sotto osservazione' e si è reso volentieri disponibile anche ad un confronto di tipo teorico intorno ai nostri due differenti percorsi all'interno della Commedia dell'Arte. Questa possibilità di confronto è sempre stata utile anche e soprattutto laddove non ci trovavamo per nulla d'accordo, anche quando alla mia passione per le valenze archetipiche e la forte deformazione grottesca del lavoro sotto maschera egli contrapponeva la sua predilezione per la spontaneità e i tempi comici della commedia di relazione.

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna