Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Fotogenia 2a - Oltre l'autore

Oltre l'autore

 

di Alberto Boschi e Giacomo Manzoli

Tu se' lo mio maestro e lo mio autore,
tu se' solo colui da cu'io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

 

"La dixième symphonie è di Abel Gance", scrive Delluc nel 1918 con un piglio assertivo che anticipa di quasi quattro decenni lo stile dei primi Cahiers. E prosegue: "Ecco un film che non avrebbe potuto essere eseguito da nessun altro, perché il suo autore vi si manifesta in tutto". (1) Questo passo ovviamente va letto anzitutto come una rivendicazione della piena responsabilità del regista cinematografico in un' epoca in cui il suo statuto autoriale non era affatto scontato, ma sottolinea al tempo stesso un aspetto dell'impiego della nozione d'autore che ci sembra specifico del cinema rispetto ad altri ambiti espressivi. L'affermazione di Delluc postula infatti implicitamente che il film possa non essere di Abel Gance e pone quindi l'accento sul fatto che l'ideologia dell'autore, nelle forme in cui si è manifestata nella critica cinematografica dai tempi di Delluc ai giorni nostri, prevede sempre che tale appellativo vada concesso ad alcuni cineasti e negato ad altri, o meglio che alcuni film abbiano un autore ed altri no. Possiamo certo sostenere che una data opera letteraria o pittorica, in quanto priva totalmente di elementi originali, individuali, debba essere considerata espressione dello stile collettivo di un'epoca o delle convenzioni di un genere, piuttosto che dell'"idioletto" di un autore, ma non metteremo mai in dubbio che quest'ultimo ne sia il produttore materiale (a meno di considerarla un falso o un apocrifo, l'opera di un ghost writer o un prodotto "di scuola"). Al contrario nel cinema l'ipotesi di un'opera senza autore assume fin dall'inizio un valore concreto, letterale. In primo luogo per la natura riproduttiva del dispositivo di base, che esclude a priori, nella registrazione dell'immagine, e del suono, l'intervento diretto di un soggetto, ponendo il cinema tra quelle arti che Nathalie Heinrich - citata da François Jost in questo numero - definisce "ad espressione indiretta" (2) (e candidando al titolo di co-autori del film da una parte la realtà impressionata, dall'altra il dispositivo stesso).

New-21.jpg (24387 byte) In secondo luogo per il carattere collettivo, o "corale" - volendo usare l'espressione di De Santis ripresa qui da Pierre Sorlin (3)-, dell'opera cinematografica, per la pluralità delle istanze e delle competenze specifiche che partecipano, nella maggior parte dei casi, al processo di realizzazione di un film (soggettista, sceneggiatore, regista, produttore, attori, musicista, tecnico del suono, montatore, scenografo, direttore della fotografia e via dicendo: ce ne sia risparmiato un elenco esaustivo). Istanze che, per complicare le cose, non sono state sempre ugualmente numerose durante tutta la storia del cinema - si può andare dall'operatore delle vedute Lumière o dal filmmaker soggettista-operatore-montatore-interprete di certe realizzazioni d'avanguardia alla lista interminabile di collaboratori accreditatati che scorre nei titoli di coda delle produzioni ad alto budget contemporanee - e che, soprattutto, sono state costantemente soggette a gerarchizzazione, passibili a loro volta di variare a seconda dell'epoca, del paese, del contesto produttivo, estetico o ideologico in cui il film è realizzato.

Tra tutte queste figure alcune hanno sempre goduto di un riconoscimento maggiore di altre (è il caso del musicista tra i diversi soggetti che concorrono alla confezione della colonna sonora), e ciò sia per il peso effettivo del suo apporto, sia a causa di fattori per così dire "esterni", ideologici o culturali: ad esempio il privilegio estetico attribuito dalla critica alla componente visiva rispetto a quella sonora ha condotto a enfatizzare assai più del dovuto il contributo del capo operatore - promuovendo canonizzazioni cinefile e incoraggiando narcisismi alla Storaro - e a ignorare invece totalmente l'apporto del tecnico del suono, nonostante la sua importanza in molti casi; la patente di autorialità riconosciuta da secoli nella nostra cultura al compositore musicale ha certamente contribuito, al di là dei suoi meriti effettivi, a garantirgli la posizione di rilievo di cui gode nei titoli di testa dall'avvento del sonoro a questa parte; o ancora, il solido status professionale acquisito precedentemente nel teatro dallo scenografo ha portato paradossalmente a valorizzare il suo nome (per quanto, nel caso di professionisti hollywoodiani quali Cedric Gibbons, accreditato come "autore" delle scenografie in tutti i film della MGM realizzati fra il 1924 e la fine degli anni cinquanta, questo nome non sia altro che un marchio di fabbrica) più di quello di nuove figure professionali specifiche del cinema come il montatore.

(Ma vi è forse anche un altro motivo, più ideologico, che giustifica la singolare rimozione di questa importante presenza: il rilievo espressivo e "linguistico" conferito dall'estetica del cinema alla funzione del montaggio e il conseguente rifiuto di riconoscere l'evidenza che nella maggior parte dei casi tale operazione non viene effettuata direttamente dall'autore-regista).

In questa gerarchia variabile di competenze soltanto tre figure, tuttavia, hanno potuto essere proposte o autoproporsi, in momenti diversi della storia del cinema, come istanze responsabili dell'opera cinematografica nel suo complesso, vale a dire come autori del film: lo sceneggiatore, l'attore e il regista.

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Se lo scrittore (autore drammatico o sceneggiatore), forte del suo lignaggio autoriale, ha conteso aspramente al cineasta parvenu la paternità dell'opera cinematografica nei primi anni del secolo, per tornare nuovamente all'assalto con l'avvento del sonoro (si veda a questo proposito la polemica fra Clair e Pagnol sul "teatro filmato"(4)), e l'attore ha saputo promuoversi ad artefice primo del film nel periodo glorioso dello star system hollywoodiano, assumendo su di sé le funzioni di produttore, interprete, sceneggiatore e non di rado di director, (5) alla fine è stato il regista ad avere la meglio, e non a torto. In effetti questa figura, nonostante il suo intervento sul film sia assai meno diretto e ponderabile di quello di altri soggetti professionali (il capo operatore, il musicista, gli interpreti), e anche quando sia il semplice esecutore di un'idea concepita da altri (il produttore, lo sceneggiatore, l'autore adattato), rimane in quasi tutti i contesti estetici e produttivi e in quasi tutti i periodi della storia del cinema l'istanza direttiva e globale che guida e coordina, in vista di un risultato unitario, le disparate competenze che partecipano alla realizzazione di un film. In modo analogo si attribuisce la messa in scena di un dramma al regista teatrale (figura di cui il regista cinematografico eredita, oltre al nome, la più "sicura" e precisa delle sue funzioni: la direzione degli attori (6)), o si accredita l'interpretazione di un brano sinfonico principalmente al direttore d'orchestra, benché ciò non renda pienamente giustizia agli esecutori (Adorno, come è noto, riteneva - diversamente da Fellini - che un'orchestra sinfonica potesse benissimo dirigersi da sola (7)). Con la differenza - essenziale - che il film, in quanto registrazione unica di una performance singolare, riproducibile "tecnicamente" all'infinito ma fissata una volta per tutte, non è, come l'esecuzione musicale o la messa in scena teatrale, una delle tante attualizzazioni possibili, teoricamente infinite e ogni volta diverse, di una partitura o di un testo preesistente, è il testo stesso: succede così che anche quando una pellicola deriva da un'opera letteraria o drammatica, in quanto responsabile principale - autentico o presunto - della "messa in film", il regista ne "diviene" l'autore, per usare la felice formula di Flaiano ripresa da Michel Chion sulle pagine di questa rivista. (8)

New-23.jpg (16583 byte) Resta, è vero, una quarta figura in grado di contendere al regista, almeno in determinati contesti produttivi (notoriamente in quello classico hollywodiano), la funzione direttiva che gli viene normalmente attribuita, ovvero il produttore. Tuttavia se in tali situazioni il producer si impone come un doppio del regista ancora più direttivo, come un sovrintendente ancora più generale (ma anche più indiretto), relegando quest'ultimo in un ruolo di semplice esecutore parziale, al tempo stesso ne isola e ne definisce in maniera più chiara e precisa la funzione specifica, quella di guidare gli attori e il personale tecnico e artistico nell'esecuzione della sceneggiatura, liberandolo di incombenze di cui spesso non vuole o non può farsi carico. (9)

(E' precisamente in tal senso che va letta la parabola raccontata da Minnelli in The Bad and the Beautiful, dove Jonathan Shields, il dispotico produttore hollywoodiano interpretato da Kirk Douglas, sembra il solo vero autore dei suoi film, mentre il regista che li dirige è descritto come un grigio funzionario, un'oscura comparsa mantenuta costantemente sullo sfondo; fino a quando, verso la fine, quest'ultimo, ribellandosi alle prepotenze del producer, abbandona le riprese; Shields decide allora di dirigere da solo la sua nuova produzione, andando incontro a un inevitabile fiasco, che dimostra in maniera didattica l'importanza della mediazione del regista).

Occorre dunque riconoscere, pur con tutte le riserve necessarie, l'autorialità del regista? Sì, se la si intende come un'autorialità debole, "a responsabilità limitata" (variabile a seconda dei contesti e delle epoche), come un'autorialità instabile e costantemente (ri)messa in questione, costantemente minacciata, e soprattutto se non si fa della nozione di autore la chiave di volta dell'esegesi del film. Sintomi tra i più tangibili della sua natura problematica sono le difficoltà e le ambiguità che insorgono ogniqualvolta chi scrive di cinema (inclusi gli stessi cineasti) si trova a dover circoscrivere e definire le competenze del regista, il carattere estremamente variabile, provvisorio, di tali definizioni e il fatto che quasi tutte le "teorie dell'autore", anche le più agguerrite, abbiano preferito porre l'accento sulla creatività del lavoro di messa in scena piuttosto che attribuire all'auteur de film, anche solo idealmente, una piena responsabilità dell'opera (che includerebbe l'ideazione e l'elaborazione del soggetto). "Sia ben chiaro - scrive ad esempio René Clair nel 1927 -, essere autori di un film non significa necessariamente averne concepito il tema, ciò che il pubblico chiama la 'storia'. In tal caso, Racine non sarebbe l'autore delle sue tragedie, ma piuttosto Tacito, Euripide, Segrais o la stessa Enrichetta d'Inghilterra... La 'storia' non è l'essenziale [...] L'autore di un film è colui che realizza il 'découpage' della sceneggiatura, dirige la 'realizzazione' materiale ed effettua il 'montaggio' delle scene realizzate". (10) Un'affermazione non certo radicale se commisurata ad un'epoca in cui, nelle arti narrative e drammatiche, la pratica dell'adattamento e del remake è caduta quasi totalmente in disuso e si pretende normalmente da un autore in senso pieno anche la concezione di un "tema" originale.

Per riprendere la riflessione iniziale, ci sembra che in tutta la storia dei discorsi sul cinema questa nozione abbia sempre tratto forza e rilievo dalla possibilità (e dall'esistenza effettiva) di un film con molti autori, vale a dire sprovvisto di un Autore. Così, se nel 1918 Delluc, proclamando che La dixième symphonie è di Abel Gance, ritaglia in negativo lo spettro inquietante di un'opera del tutto "impersonale", nel 1929 Jean Epstein lamenta l'assenza nel primo cinema sonoro di una figura direttiva che si faccia carico di tutte le fasi della realizzazione del film ("Fino ad ora - scrive - nessun film parlato né sonoro ha avuto un autore, è stato un'opera" (11)). Così, se l'ottusa e datata contrapposizione fra autori europei e mestieranti hollywoodiani resta forse, tra i pregiudizi della critica, il più duro a morire, il gioco praticato negli anni cinquanta dai "jeunes Turcs" dei Cahiers, che più di tutti hanno contribuito a scardinare tale dicotomia, ampliando "scandalosamente" il raggio d'azione della nozione d'autore, consisteva pur sempre nel conferire o negare a questo o quel cineasta una patente di autorialità, e in base a giudizi che - come ricorda qui Antonio Costa (12) - erano il frutto di scelte del tutto arbitrarie e soggettive. Da ciò il carattere fortemente ideologizzato, programmatico, volontaristico, imposto in una certa misura forzatamente e dall'esterno (anche se, come si è detto, non del tutto arbitrariamente), che assume nel cinema più che in ogni altro ambito espressivo il dibattito estetico sulla nozione d'autore. Nozione che - lo ripetiamo - può e deve essere conservata, ma solo a condizione che sia costantemente "relativizzata", demistificata, verificata attraverso l'analisi storica nel suo campo di applicazione e nella sua effettiva operatività, e soprattutto confrontata e fatta interagire con altre nozioni: quelle ad esempio di genere, di sistema produttivo o di opera (come propone Chion).

Per queste ragioni il termine "tocco", assai più di quello di "stile" ci sembra adatto, pur nella sua imprecisione (o forse proprio per questa vaghezza), a definire l'apporto specifico dell'autore-regista. Usato comunemente in ambito musicale per designare la maniera di un esecutore di suonare il proprio strumento, oppure nelle arti figurative, come anche in letteratura, per indicare - secondo la definizione di un dizionario - "l'impronta caratteristica propria di un autore, di un artista", il termine ha goduto di una particolare fortuna nell'ambito della critica cinematografica, soprattutto nella sua versione anglosassone (touch). New-24.jpg (27142 byte)

Non a caso: mentre il concetto di stile evoca l'idea di un autore "forte", responsabile a tutti gli effetti della totalità dell'opera, quello di tocco esprime assai meglio la condizione del regista cinematografico, che non lo è mai fino in fondo. Il tocco è infatti l'impronta, immediatamente riconoscibile, attraverso cui l'autore-regista inscrive la propria individualità all'interno di un'opera che non ha prodotto direttamente, ovvero - come direbbe Jost - che marca con la propria identità corporea, unica e insostituibile (autografica) la sceneggiatura del film, intesa come una partitura infinitamente reiterabile (allografica).

Restano le dovute riserve in merito all'identità dell'"impressore" (e in questo campo, come si sa, qualsiasi dubbio è in linea di principio ragionevole: e se il piano sequenza wellesiano fosse invece da attribuire a Gregg Toland? Se l'universo di Frank Capra fosse in realtà di Robert Riskin? Se il fascino dei film dell'ultimo Scorsese dipendesse in gran parte dal talento di Thelma Schoonmaker, la sua straordinaria montatrice?). E resta soprattutto da chiarire dove si depositi questa traccia, questo tocco. Verrebbe da rispondere, insieme ai critici dei Cahiers: nella mise en scène, se la nozione non fosse al tempo stesso troppo vaga e troppo restrittiva. Troppo vaga perché copre operazioni eterogenee - la direzione degli attori, il "cadrage", il montaggio, ecc. - che non sono sempre sotto il pieno controllo del regista, troppo restrittiva perché esclude a priori ciò che sta "a monte" del film (la scrittura del soggetto, della sceneggiatura, del dialogo) e nell'accezione corrente, viziata da un pregiudizio "iconocentrico" ereditato dal periodo del muto, finisce per identificarsi fatalmente con la messa in scena visiva (da qui la sciocca idea che cineasti come Mankiewicz o Pagnol non sia pienamente degli autori perché i loro film privilegiano il dialogo e sono privi una specifica concezione figurativa). (13) La risposta più sensata è dunque, senza alcun dubbio, in qualsiasi luogo: nello stile del dialogo, nella posizione della macchina da presa, in un dato tipo di carrellata, in certe soluzioni di montaggio, nella costruzione dell'intreccio, nell'articolazione dello spazio, nello stile di recitazione imposto agli attori, nella ricorrenza di oggetti, personaggi o situazioni, nell'impiego della componente sonora e così via. Anche in questo campo, come fa dire Godard all'operatore Raoul Coutard nel suo Passion, "il cinema non ha regole precise: per questo la gente continua ad andarci".

E' imbarazzante introdurre il numero di una rivista che, partendo da questi presupposti, si propone di trattare in maniera problematica la nozione di autore cinematografico, sapendo che lo stesso numero della stessa rivista si apre con la pubblicazione del più autoriale dei film possibili (sia pur nella forma ideale dello scénario). Siamo disposti allora ad assumere come piena di buon senso la considerazione di James Nearemore, secondo il quale "auteurism is surely dead, but so are debates over the dead of the author". (14) D'altra parte, come spiega a fondo nel suo saggio Leonardo Quaresima, l'idea non è quella di negare o rivoluzionare una nozione che ha alcuni secoli di storia e attorno alla quale sono ruotate intere branche di discipline quali l'estetica o l'antropologia culturale. L'intento è, al contrario, quello di provare ad interrogarsi, seguendo il filo dell'evoluzione di questa idea applicata al cinema, sulla possibilità di trovare spazi per un tipo di ermeneutica, di storiografia, o anche di semplice fruizione non ingenua del cinema in grado di prescindere completamente dal problema edipico o di relegarlo, almeno, su un piano subalterno. Inutile dire che ciò che sostiene una ricerca imprudente come questa è la sana convinzione che se anche alla fine dell'indagine la risposta ottenuta fosse negativa, ne sarebbe comunque valsa la pena. Bisogna intanto capire di cosa parliamo quando parliamo di autore, inquadrare il sistema generale, come la vicenda di questo inseguimento ambiguo fra autore, opera e fruitore (il buono il brutto e il cattivo: dove il buono è sempre l'opera e gli altre due tendono ad alternarsi), nasca e si sviluppi secondo coordinate all'interno delle quali è difficilissimo orientarsi per il cinema (nessuna sorpresa se, fra le ragioni della resistenza ad accettare l'opera cinematografica come opera d'arte vi fosse la difficoltà di legare ad essa una figura forte d'artista).

Invertendo i termini, ci interessa partire dalla domanda di Mukarovsky: "Ma perché l'autore crea l'opera d'arte?". (15) Dopo aver parlato di "stanchezza" nei confronti di una personalità d'artista ormai "ipertrofica" e di sintomi quali "la preferenza dell'arte più modesta, semipopolare e anonima" o lo sforzo dell'artista stesso per "essere considerato un artigiano o un operaio" (atteggiamenti ben noti a chiunque traffichi col cinema e i discorsi che lo riguardano), Mukarovsky afferma semplicemente "che il rapporto della personalità dell'artista con l'opera non è diretto e immediato, e in particolare non è spontaneo, e non che la personalità dell'artista non esiste". (16) Ecco, un pensiero come questo ci piace perché lascia un margine, una fessura fra l'autore e l'opera: misurare questo spazio nel cinema sarebbe l'ambizione complessiva di questo numero.

New-25.jpg (18374 byte) Un problema non indifferente è tuttavia quello di confrontare un concetto moderno nato nell'ambito di discipline artistiche antiche con un'arte moderna che ha però nella sua prassi parecchi lati che la accomunano al fare antico dell'arte. Per Barthes "l'autore è un personaggio moderno prodotto dalla nostra società quando scopre il prestigio del singolo e della persona umana".(17) Foucault aggiunge che "i testi hanno cominciato ad avere degli autori nella misura in cui l'autore poteva essere punito, nella misura in cui i discorsi potevano essere puniti". (18)

Non è un caso che il testo foucaultiano da cui è tratta questa citazione sia quello che ricorre con più frequenza nei saggi che seguono. Non è un caso perché Foucault è colui che allarga il campo individuando l'esistenza di una vera e propria "funzione-autore", definita come "principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza". (19) La definizione è così ampia, così elastica, che pare davvero impossibile uscirne, ma nella sua intoccabile, chiusa perfezione non sembra poter risultare davvero euristica. Foucault, del resto, parla di un autore di testi, che è ben diverso dall'autore di opere, se è vero che (Barthes) il testo è un reticolo che regge, al contrario dell'opera, senza un padre e la sua garanzia. Ma concentrarsi sul testo, sull'idea di intertestualità, sull'autore modello come "strategia testuale implicita" (con tutta l'interessantissima casistica di autori empirici e perfino liminari (20)), rischia di far deviare dal proposito di partenza che non riguarda l'autore ma una sua possibile assenza. Cosa succede ad un film (sia esso testo o opera) nel momento in cui si cerca di fare a meno di colui che, etimologicamente, lo fa crescere (augère)? La crescita si arresta? La crescita avviene in maniera disordinata, incontrollata e mostruosa? Tutto rimane inerte? I rischi e le difficoltà sono moltissimi:

Come istituzione l'autore è morto. La sua persona civile, passionale, biografica è scomparsa: spossessata, essa non esercita più sulla sua opera la paternità formidabile di cui la sua storia letteraria, l'insegnamento, l'opinione avevano il compito di rinnovare il racconto; ma nel testo, in qualche modo, desidero l'autore: ho bisogno della sua figura (che non è né la sua rappresentazione né la sua proiezione) come lui ha bisogno della mia (salvo balbettare). (21)

Morto l'autore non se ne farà un altro, ma si troverà certamente qualcosa disposto a rilevarne la funzione. Cosa? Non ci illudiamo certo di poter rispondere alla domanda per quel che riguarda il cinema nello spazio di una rivista, sia pur voluminosa come questa. Siamo però convinti che i contributi che seguono, nella loro eterogeneità, possano offrire uno stimolo significativo a ritornare su un problema che non si chiude affatto con la morte dell'autore. Su una questione che influenza e condiziona pesantemente tanto la critica quanto la teoria e la storiografia cinematografica. Un problema che non può essere rimosso se non si vuole rischiare di essere gli strumenti dei propri discorsi sul cinema e non, invece, i loro autori. Ci sono poi altre questioni inestricabilmente connesse alla nozione d'autore che una riflessione come quella da noi proposta potrebbe aiutare a delineare in termini più utili se non più chiari. Fondamentale ci sembra ad esempio l'enigma dello stile, che dell'autore è un po' il correlativo oggettivo in seno all'opera, ciò che caratterizza ogni "espressione non fortuita". (22) Il problema col cinema pare proprio quello di far accettare come espressione non fortuita un'arte in cui il dispositivo ha intrinsecamente un ruolo e un peso determinanti, un peso tale da far credere (illudere) di poter rinunciare a ogni altro appoggio. Al cinema, come altrove, è bene tuttavia tenere sempre in mente come premessa il fatto che "un artista non è presente allo stesso grado in tutto ciò che fa, anche se è possibile individuare alcune caratteristiche costanti". (23)

Quali?

Non ci resta allora che descrivere brevemente il sommario di questo numero monografico, consci, lo ripetiamo dei limiti e dei rischi della proposta nel suo insieme, ma anche del valore dei singoli contributi e delle potenzialità che una riflessione di questo genere potrà avere se troverà interlocutori in grado di rilanciare il discorso. Un primo gruppo di saggi - in parte rielaborati da relazioni tenute al convegno Prima dell'autore (Udine, marzo 1996) - si concentra sul periodo del muto. Così François Jost indaga la nascita e l'evoluzione della nozione d'autore nel cinema attraverso un confronto costante con la storia della pittura e delle arti visive precedenti, per giungere a una definizione teorica dell'autorialità cinematografica che utilizza l'opposizione goodmaniana fra autografia e allografia, riformulata da Gérard Genette. Gian Piero Brunetta documenta la formazione del concetto di autore cinematografico nell'Italia degli anni dieci. Marco Bertozzi tenta di colmare il divario fra la canonizzazione autoriale dei fratelli Lumière e l'impersonalità delle loro vedute gettando uno sguardo sul cinema che precede l'autore. Guglielmo Pescatore si concentra sulla Francia degli anni venti, e in particolare sulla prassi e sui discorsi cinematografici incentrati sul concetto di fotogenia. François de la Bretèque discute la pertinenza del termine "autore" applicato a un cineasta come Louis Feuillade. Un secondo gruppo di saggi prende invece in esame l'evoluzione di questa nozione dal dopoguerra ad oggi, vale a dire nel periodo del suo massimo splendore. Pierre Sorlin pone l'accento sullo scarto fra l'idea di fare cinema condivisa dai cineasti neorealisti e l'approccio della critica italiana dell'epoca. Antonio Costa ripercorre le tappe e i contenuti della politique des auteurs nel periodo glorioso dei primi Cahiers. Riccardo Ventrella descrive la sua evoluzione negli scritti di Serge Daney, riesaminando il percorso intellettuale del critico scomparso. Jeff Bell procede a una singolare rilettura di quella che la critica anglosassone definisce author theory adottando gli strumenti teorici e metodologici del poststrutturalismo francese. Altri saggi, difficilmente riconducibili all'uno o all'altro centro di attenzione, estendono l'indagine in territori assai poco esplorati. Gianni Rondolino, facendo propria una delle istanze enunciate da Foucault in "Qu'est-ce qu'un auteur?", si interroga sulla possibilità di una storia del cinema senza autori. Michel Chion trae spunto dal problema del suono cinematografico per sviluppare una riflessione generale sulla nozione d'autore, a cui contrappone il concetto, non necessariamente complementare, di opera. Dario Tomasi analizza meticolosamente la costruzione da parte della critica cinematografica occidentale di una figura autoriale "altra", il grande regista giapponese Mizoguchi Kenji, mettendo in luce le insufficienze dei modelli adottati.


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