Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Fotogenia 1b - Metafore colorate

Metafore colorate:
l'attrazione del colore nel cinema delle origini

 

di Tom Gunning

 

Due ruoli del colore nel cinema

In genere, il colore può assumere nel cinema due ruoli diversi e fra loro contraddittori. Da un lato, il colore è stato considerato da alcuni, e in modo particolarmente esplicito da Bazin nel suo saggio "Il mito del cinema totale", come un elemento essenziale al compimento dell'ideale degli inventori del cinema: "la restituzione di un'illusione perfetta del mondo esterno col suono, il colore e il rilievo". (1) Dall'altro lato però, il colore filmico può anche presentare una referenza debole nei confronti della realtà e apparire come una presenza puramente sensuale, un elemento che può perfino indicare una divergenza rispetto al reale. Pur riconoscendo che il suo ideale di una perfetta riproduzione del mondo visivo per mezzo del cinema avrebbe richiesto tempo e diversi sviluppi tecnici per essere realizzato, Bazin concepiva questo processo come un semplice compimento della missione realistica del cinema. Dal punto di vista di questo ideale realista il colore svolge nel cinema un ruolo indexicale; il colore appartiene di diritto al cinema in quanto esiste nel nostro mondo visivo.

In una prospettiva di questo tipo, nel cinema muto il colore dovrebbe essere considerato come un elemento mancante, così come esso compare nelle descrizioni di alcuni dei primi commentatori del cinema. Nel 1896, ad esempio, Gor'kij lamentava il fatto che nei film Lumière il mondo fosse stato "crudelmente punito con l'essere privato di tutti i colori della vita": "Tutte le cose - la terra, il cielo, gli alberi, gli esseri umani - sono immerse sullo schermo in un grigio monotono, Raggi grigi di sole in un cielo grigio, occhi grigi in volti grigi, gli alberi hanno foglie di un grigio cenere. Questa non è la vita, ma la sua ombra...". (2) Un simile approccio alla storia del colore nel cinema muto si occuperebbe perciò di individuare tutta una serie di tentativi tesi a realizzare l'ideale di Bazin e a rimediare al disappunto di Gor'kij. Processi pionieristici come il Kinemacolor di Urban e Smith, il Chronochrome Gaumont, il Prizmacolor e le prime versioni in bicromia del Kodachrome e del Technicolor verrebbero così concepiti come tentativi progressivi di portare sullo schermo i colori della vita reale.

Ma se Bazin, scrivendo negli anni Cinquanta, stava assistendo al trionfo di questo colore indexicale, il periodo del muto sembra più interessante per l'altra tradizione del colore, quella in cui il colore non viene prodotto attraverso processi fotografici di tipo indexicale ma per mezzo di procedimenti più o meno arbitrari come la colorazione a mano o a pochoir e le varie combinazioni di viraggio e imbibizione. Se le due tradizioni del colore che ho delineato risultano, in concreto, strettamente intrecciate fra loro (con il colore non-indexicale che viene a volte impiegato per ottenere effetti realistici e il colore fotografico che si presta, viceversa, a effetti fantastici), durante il muto sembra tuttavia prevalere un colore di tipo non-indexicale, non realistico ma puramente sensuale, metaforico e spettacolare.

Per comprendere le funzioni e le connotazioni di questo tipo di colore impiegato principalmente come elemento sensuale, spettacolare e metaforico piuttosto che per le sue implicazioni realiste e indexicali, credo sia necessario allargare un poco il nostro angolo prospettico, sia pur mantenendo una precisa pertinenza di tipo storico. Nel corso del secolo che va grosso modo dal 1860 al 1960, il colore penetra in una serie di mezzi che in precedenza ne erano privi: dapprima la riproduzione meccanica delle immagini, poi la fotografia, il cinema e infine la televisione. Nella maggior parte di questo periodo, il colore appare ogni volta come un'innovazione, che invade territori dominati da un immaginario in bianco e nero. Altrettanto importante è poi il fatto che il colore rimanga a lungo un'opzione minoritaria, un'alternativa più rara - e perciò altamente significativa - al consueto bianco e nero. In altri termini, in epoca moderna il colore assume la connotazione di "novità" e si staglia come una scelta speciale sullo sfondo di un immaginario monocromatico. Esso appare come qualcosa di aggiuntivo rispetto al modo di riproduzione dominante, un "in più" di intensità sensoriale che trae almeno in parte il suo significato dalla sua differenza rispetto al bianco e nero. Il colore si presenta come un'alternativa smagliante al bianco e nero e produce un'intensità sensoriale che può sempre eccedere, anche quando derivi da un processo di tipo fotografico, i confini delle implicazioni realiste e indexicali.

5.jpg (9352 byte) Non c'è bisogno di uno storico o di un critico per cogliere il significato di questa opposizione paradigmatica fra colore e bianco e nero. Essa svolge un ruolo attivo nei testi stessi, con il colore che significa sempre qualcosa di più che non semplicemente una accurata riproduzione visiva del nostro mondo oggettivo. Quello che segue è fra gli esempi più eloquenti di questa opposizione, quasi un'allegoria del modo in cui il colore veniva usato nel periodo classico del cinema hollywoodiano.

In un'immagine in bianco e nero, una ragazza adolescente si muove lentamente verso la macchina da presa. Circospetta, ad occhi spalancati, sfiora quasi l'obiettivo e la sua figura si sfoca leggermente. Nell'inquadratura successiva, pressoché monocromatica, l'immagine assume una tonalità fra il seppia e il ramato. Non appena la ragazza entra nel quadro, dirigendosi verso la porta, anche la sua camicetta bianca si colora leggermente, accordandosi alla tonalità ramata dominante. Quando apre la porta, l'immagine monocroma lascia il posto, nella cornice, a una visione dai colori sgargianti - rossi, blu e verdi. La figura si sposta un attimo di lato per non ostacolare la vista, poi rientra nel quadro e oltrepassa la soglia: la sua camicetta è di nuovo candida, il suo vestito azzurro. Un'inquadratura in controcampo ci mostra la ragazza oltre la soglia: il suo viso, finalmente color carne, esprime una grande meraviglia. Con un movimento a spirale la cinepresa si allontana per inquadrare un gruppo di alberi e fiori giganteschi dai colori vivaci, fra cui serpeggiano un ruscello blu e un sentiero arancio-oro, il tutto su un fondale di montagne azzurre. Alla fine di questo movimento l'obiettivo torna a inquadrare la ragazza, questa volta dall'alto. Uno stacco su un campo lungo ripreso a livello degli occhi la incornicia entro questo paesaggio dai colori artificiali, mentre lei si guarda intorna rapita e commenta: "Toto, qualcosa mi dice che non siamo più in Kansas".

Questa sequenza del Mago di Oz mette in luce diversi degli aspetti che voglio approfondire a proposito del funzionamento del colore nel cinema prima degli anni Cinquanta. In primo luogo, la struttura del film si basa sull'opposizione paradigmatica fra colore e bianco e nero (un'opposizione che, nella prima inquadratura in Technicolor, assume l'aspetto di una transizione graduale creata dall'il-luminazione e dalla scenografia) e la evidenzia rendendola tematica. Il colore significa differenza in sé, in questo caso l'improvviso trasferimento in un mondo alieno. In secondo luogo, come è stato spesso sottolineato, in questo film il colore non produce una dimensione aggiuntiva di familiarità e di realismo, una rappresentazione più accurata del nostro mondo cromatico, ma un'intensità sensoriale, uno spazio artificiale e fantastico. La strada che porta "da qualche parte sopra l'arcobaleno" traccia un percorso che finisce dritto nello spettro, fra tinte gloriose. Il colore eleva l'immagine oltre il dominio del letterale e apre una via maestosa (lastricata di giallo) alla metafora.

Questo ruolo metaforico del colore dipende dalla possibilità di percepirlo come una scelta speciale rispetto al più comune bianco e nero. Nel momento in cui divenne un'opzione maggioritaria, altrettanto diffusa o anche più diffusa del bianco e nero, il colore perse gran parte della sua efficacia metaforica. Ma in un'epoca dominata dal bianco e nero, l'uso del colore tende in genere ad assumere una funzione metaforica, e ciò proprio in virtù di questo suo aspetto meno familiare, come accade in un gioco di parole.

Un mondo moderno di attrazioni colorate

Prima di discutere alcuni esempi concreti di questo potere metaforico nel periodo muto, vorrei puntualizzare che questa opposizione fra colore e bianco e nero non si limita al campo del cinema. Come ho accennato sopra, a partire dal 1860 gli Stati Uniti sperimentarono una vera e propria invasione di colore in tutti i campi della vita quotidiana. A mio parere, questa ondata di colore che investe territori in precedenza monocromi costituisce una delle principali trasformazioni percettive della modernità. I discorsi, e specialmente le critiche, che accompagnano questo fenomeno nel suo verificarsi rivelano fino a che punto l'esplosione di colore, che andava ad aggiungersi al grande sviluppo delle forme di riproduzione meccanica, venisse vista come una minaccia per le concezioni elitarie del gusto e per l'aura di unicità dell'opera d'arte.

Torniamo ancora un momento al viaggio di Dorothy Gale nel paese di Oz. La scelta di rappresentare l'ingresso in un regno fantastico per mezzo di una transizione al colore potrebbe sembrare un espediente del tutto naturale per un'industria, come quella hollywoodiana, impegnata da un decennio nella promozione del colore come attrazione e come strumento narrativo. (3) Per quanto ingegnosa essa possa apparire, questa scelta trovava però più probabilmente la sua ispirazione nello stesso romanzo di L. Frank Baum. Anche se il Kansas grigio e monocromatico che appare all'inizio del film sembra quasi voler esemplificare il tipo di immagine prodotta dalla pellicola in bianco e nero in uso nel 1939, esso compariva già come elemento di un'opposizione tematica nel romanzo di Baum, pubblicato nel 1900.

Baum (che negli anni Ottanta dell'Ottocento si era trasferito ad Ovest per aprire un grande magazzino nel South Dakota, impresa poi conclusasi con la bancarotta) descrive la Grande Prateria Americana come un deserto privo di colore, che spossessa i suoi abitanti della vitalità rappresentata dal colore:

Quando Dorothy si fermva sulla soglia di casa e si guardava intorno da ogni lato, non vedeva altro che la grande prateria grigia... Il sole aveva arrostito la terra rimossa dall'aratro fino a fame una massa grigia, percorsa da piccole spaccature. Nemmeno l'erba era verde, perché il sole aveva bruciato le punte dei lunghi fili fino a renderle dello stesso colore grigio che si vedeva dappertutto. Una volta la casa era stata verniciata, ma poi il sole aveva disseccato il colore, e la pioggia lo aveva lavato, e ora anche la casa era smorta e grigia come tutto il resto,

Quando era venuta ad abitare lì, la zia Em era una sposa giovane e carina. Sole e vento avevano cambiato anche lei. Le avevano tolto la luce dagli occhi, lasciandoli di un grigio sommesso; e le avevano tolto il rosso da guance e bocca, che erano diventate, manco a dirlo, grigie. (4)

Ancor più sorprendente è il fatto che questa logica cromatica venga utilizzata anche per l'impianto grafico della versione originale del libro. Oltre alle tavole fuori testo stampate in colori vivaci su carta patinata, Baum e il suo illustratore W. W. Denslow inserirono disegni a colori nel testo stesso. Il capitolo iniziale ambientato in Kansas è stampato in un seppia smorto, mentre quello in cui Dorothy giunge nel paese dei Munchkin è illustrato in verde. Nei capitoli successivi i colori cambiano, accordandosi alle tonalità dominanti del racconto (rosso, ad esempio, per il campo dei papaveri velenosi) o assumendo di volta in volta i colori del paese visitato da Dorothy e dai suoi compagni (verde per Oz, giallo per il paese dei Winkies, rosso per il paese dei Quadlings).

L'interesse di Baum per il colore va al di là di quello di un autore con un forte intuito per l'immaginazione visiva dei bambini. Nel periodo fra il fallimento della sua impresa nel South Dakota e il suo successo come scrittore di libri per ragazzi, Baum si era fatto conoscere come teorico di un nuovo mezzo di cultura visiva, la vetrina da esposizione. Nel 1897 aveva fondato e diretto The Short Window, prima rivista di categoria dedicata all'arte della vetrina, e l'anno dopo aveva fondato l'associazione nazionale dei decoratori di vetrine. (5) La fiducia di Baum nella capacità del colore di sollecitare la fantasia si inscrive nell'ambito della nuova cultura commerciale che andava formandosi al volgere del secolo, una cultura motivata dall'esigenza di influenzare un nuovo mercato di massa per mezzo di attrazioni visive.

Con l'emergere di questa cultura del consumo di massa anche la pubblicità stava assumendo nuove forme, nelle quali il colore giocava un ruolo decisivo. Artemas Ward, un pioniere della teoria pubblicitaria, dichiarava che il colore "induce desiderio per le merci esposte", perché "parla il linguaggio universale delle immagini", comprensibile a tutti, "stranieri, bambini, analfabeti". (6) Non credo che sia una coincidenza il fatto che i gruppi citati da Ward come i più sensibili al richiamo del colore corrispondano precisamente ai tipi di spettatori che nel periodo muto venivano descritti come i più ferventi frequentatori di cinema. 6.jpg (5246 byte)

L'esplosione di colore iniziata nell'ultimo scorcio de11'Ottocento incontrò un'opposizione sorprendentemente aspra. Nel 1874, Edwin Larence Godkin, direttore della prestigiosa rivista di approfondimento culturale e politico The Nation, impiegò il termine "cromociviltà" per descrivere il crollo dei valori nella cultura americana in via di modernizzazione. Nel suo editoriale, che commentava lo scandalo per adulterio in cui era incappato un noto ecclesiastico americano, Godkin definiva questa nuova civiltà di falsi valori e dubbia moralità con il termine di "obbrobbrio", generalmente usato per descrivere i prodotti della nuova tecnologia di stampa che aveva portato le riproduzioni a colori nei salotti dell'intera nazione: la cromolitografia. (7) L'imprenditore più attivo in questo campo, Louis Prang, era convinto che la cromolitografia avrebbe reso accessibili a tutti i benefici della civiltà, illuminando di colore le case di ogni angolo del paese. (8)

Questa proliferazione di immagini a colori alimentò diverse critiche, che ruotavano principalmente intorno a due obiezioni, distinte ma fra loro collegate, riguardanti la riproduzione meccanica del colore. Per un verso, si sosteneva che le riproduzioni cromolitografiche presentavano colori tutt'altro che fedeli a quelli dei dipinti originali. Per quanto aspramente contestata dai litografi, questa critica si basava su una seconda, incontrovertibile obiezione, ovvero che le cromolitografie erano il prodotto di una macchina invece che della mano di un artista. Secondo questo punto di vista, il colore artistico era impossibile da ottenere per via meccanica. The Nation dichiarava, apoditticamente, che "il colore di qualità, dotato di fini e delicate gradazioni, non può essere prodotto a mezzo stampa". (9) L'élite culturale, in altri termini, affermava l'esistenza di due tipi diversi di colore: quello fine e delicato dosato dalla mano dell'artista e quello prodotto in serie dalle macchine, incontrollato e troppo intenso.

Entrambi i versanti di questo dibattito sul colore convenivano però su un aspetto fondamentale: l'enorme influenza, di natura pressoché irrazionale, che il colore poteva avere sulla società di massa. I teorici del marketing e delle arti basate sulla riproducibilità tecnica consideravano la capacità di attrazione del colore come un'opportunità commerciale, mentre i custodi della cultura d'élite vi scorgevano un pericolo per la civiltà. Per i sostenitori della cultura popolare il colore rappresentava il mezzo ideale di una fascinazione visiva capace di catturare l'attenzione del pubblico: uno stimolo al desiderio e alla fantasia, ovvero, in fin dei conti, al consumo. Al contrario, coloro che si sentivano minacciati dalla cultura di massa vedevano il dilagare del colore come la sintesi stessa dei loro timori. (10) Significativamente, l'esposizione universale del 1893 a Chicago, aspirando a rappresentare tutto il meglio della cultura americana attraverso l'imitazione dell'architettura classica, si vide attribuire, per i suoi monumenti in gesso che esaltavano un ideale di ordine e razionalità, l'appellativo di "Città bianca". Mentre celebrava l'ideale di un'architettura neoclassica imitativa, l'esposizione di Chicago (detta anche Columbian Exposition) ignorava quasi completamente il contributo di Louis Sullivan, esponente di una tradizione architettonica autenticamente americana, tecnologicamente innovativa e improntata alla modernità dello stile. È interessante notare, in proposito, che l'Edificio dei Trasporti, contributo in qualche modo marginale di Sullivan all'esposizione, esibiva una facciata di un rosso brillante, in netto contrasto con il paesaggio neoclassico circostante. (11)

La cultura popolare del periodo a cavallo fra Ottocento e Novecento era caratterizzata da una molteplicità di forme, molte delle quali facevano affidamento sul colore. La nuova tecnica della stampa in quadricromia consentiva ora ai grandi quotidiani di pubblicare supplementi domenicali a colori, una nuova forma editoriale caratterizzata, in dosi eguali, da un irriverente umorismo, da una grafica innovativa e da un uso massiccio del colore. (12) Il primo fumetto domenicale di successo aveva un titolo ispirato al suo colore dominante: il giallo vivace di The Yellow Kid di Richard Outcault. Secondo alcuni, questo titolo sarebbe all'origine dell'espressione di "yellow journalism", che designava in particolare il tipo di giornalismo praticato dai giornali della catena Hearst che pubblicavano il fumetto di Outcault. Il colore contribuì in modo decisivo alla grande popolarità dei fumetti di questo periodo. In una pubblicità del Sunday Journal di Hearst, lo stesso Yellow Kid descriveva cosi, nel suo slang da quartieri bassi, i motivi del successo del variopinto supplemento domenicale: "È un arcobaleno di colori, un sogno di bellezza, un vero scoppio di risate: roba tosta, proprio tosta". (13) I migliori esempi di questa nuova forma di caricatura - come Little Nemo in Slumberland di Windsor McKay, Der Kin-der-Kids di Lyonel Feininger, o Katzen-jammer di Rudolph Dirk - erano tutti caratterizzati dall'irruenza del colore che esplode sulla pagina.

Lo sfoggio di colori vivaci contraddistingue anche altri settori della letteratura popolare, comparsi non appena gli editori ebbero riconosciuto l'esistenza di un pubblico di lettori più ampio di quello degli abbonati a The Nation. Le copertine dei dime novels e dei loro eredi del ventesimo secolo, i pulps, annunciavano il contenuto sensazionale delle loro storie con immagini sfacciate (talvolta perfino semipornografiche) e dense d'azione, ma anche attraverso un uso drammatico del colore. (14) Il forte legame che andava configurandosi fra intrattenimento popolare, letteratura e colore rinsaldò la sfiducia dell'élite culturale nei confronti della nuova cultura commerciale e della sua attitudine a rivolgersi piuttosto ai sensi e alle emozioni del pubblico che non alla sua sfera razionale. Il colore stava contribuendo a sviluppare una cultura del sensazionale, fondata sull'intensità sensoriale ed emotiva ed incline a suscitare desideri piuttosto che comportamenti razionali.

Come ho affermato sopra, il colore acquisisce in questo periodo un ruolo di grande importanza nella teoria e nella pratica pubblicitaria. Questo uso del colore nelle strategie di vendita investe un gran numero di mezzi di comunicazione. Nel suo programma di promozione turistica del sudovest degli Stati Uniti, ad esempio, la sezione pubblicitaria delle ferrovie di Santa Fe "impiegò il linguaggio del colore in modo aggressivo e immaginativo", (15) facendo uso di una varietà di mezzi: manifesti e calendari illustrati prodotti in serie, con immagini di paesaggi e scene di vita dei nativi americani, ma anche lastre variopinte di lanterna magica, i cui vividi colori evocavano la qualità esotica di questa nuova mecca turistica. Questo uso chiassoso del colore richiamò critiche analoghe a quella di Godkin contro le cromolitografie, critiche che denunciavano la mancanza "di una chiara comprensione dei principi di armonizzazione del colore, della gradazione dei colori negli oggetti naturali, oltre che di compostezza e comune buon senso". (16)

Il colore non costituiva solamente uno strumento per attirare l'attenzione del pubblico sugli annunci pubblicitari, ma anche un indefinibile valore aggiunto che si sovrapponeva al valore d'uso dei beni di consumo. Negli anni Venti, la trasformazione di prodotti industriali come gli asciugamani da bagno o le automobili "da oggetti funzionali a beni alla moda" (17) avvenne in gran parte tramite la sostituzione dei bianchi e dei neri fino ad allora prevalenti con una varietà di tinte e di sfumature. Come il cinema, il colore cominciò cosi a liberarsi dalla rigida identificazione con il sensazionalismo di bassa lega. La pratica di coordinare i colori fra loro divenne un segno di sensualità sofisticata, mentre la classe media si emancipava dalla cultura della negazione del piacere tipica del puritanesimo. Nel 1915, la Panama Pacific Exposition di San Francisco abbandonò il bianco abbagliante - derivato dal modello della "Città bianca", che aveva caratterizzato tante esposizioni statunitensi dalla Columbian Exposition in poi - per uno schema di coordinamento cromatico orchestrato dal colorista Jules Guerin, il quale dichiarò: "Colore [...] dappertutto - è questa la qualità magica che il nostro pubblico agognava da tempo. Perché il colore, come la musica, è il linguaggio delle emozioni". (18) Questa fiera tempestata di colori, con la sua torre centrale sfolgorante come un gioiello, doveva davvero sembrare la materializzazione del paese di Oz.

Questa progressiva (ma limitata) accettazione del colore può essere rappresentata come un compromesso fra la cultura commerciale popolare e la cultura ufficiale. Da un lato, la cura del colore divenne compito di esperti che operavano per eliminare i contrasti stridenti e le tonalità troppo accese, relegandole ai prodotti d'evasione destinati alle classi inferiori, come la narrativa pulp e i manifesti da circo. Dall'altro, la cultura borghese cominciò a considerare una sensualità più spiccata come una parte accettabile della moderna quotidianità, promuovendola a segno di status sociale e a fondamento della nuova cultura consumistica. Questo "aggiustamento" del colore presenta una certa analogia con la trasformazione stilistica e dei modi dell'esercizio che si verifica nel cinema alla fine degli anni Dieci e che è all'origine, insieme alla nuova tolleranza culturale verso le forme di intrattenimento, del Cinema Classico Hollywoodiano. Ma per quanto il colore, come il cinema, fosse ormai divenuto onnipresente, esso continuò a svolgere, con la sua natura più emotiva e sensuale che ideale e razionale, un ruolo di disturbo nei confronti delle gerarchie culturali.

Il linguaggio del colore nel cinema delle origini

Nei primi decenni della loro esistenza, gli spettacoli cinematografici suscitarono critiche analoghe a quelle che erano state rivolte, qualche tempo prima, alle cromolitografie. Disprezzati dall'élite culturale, i film mostravano però uno strano potere di attrazione visiva, a cui parevano essere particolarmente sensibili i bambini, gli immigrati e le masse illetterate. In quanto arte derivata dalla riproducibilità tecnica, il cinema era ritenuto inadatto ad esprimere i valori più alti della civiltà, tendenzialmente nocivo per la società civile e perciò bisognoso di controllo da parte dei custodi della cultura.

Inizialmente, l'introduzione del colore nel cinema appare motivata da un'esigenza di realismo. Il pubblico dei primi spettacoli cinematografici percepiva la mancanza di colore come un difetto di realismo e il fatto che il programma del primo spettacolo di Vitascope comprendesse alcuni film colorati a mano indica come questo difetto fosse fin dall'inizio al centro dell'attenzione di Edison. Sebbene i film Lumière non facessero uso, almeno cosi pare, di colorazioni aggiuntive, nondimeno è importante ricordare che le ricerche dei Lumière sulla fotografia a colori sono coeve allo sviluppo del cinematografo.

Ma se l'interesse per il colore che caratterizza questo primo periodo della storia del cinema ci riporta a quell'ideale di realismo e di riproduzione del mondo visivo che Bazin definiva come "mito del cinema totale", la pratica del colore cosi come essa si sviluppa nei primi due decenni del cinema si rivela maggiormente affine, nel concreto, alle teorie commerciali del colore. In primo luogo, nel cinema delle origini si possono cogliere distintamente quei principi di funzionamento del colore che ho descritto a proposito del Mago di Oz. Nel periodo muto, il colore esisteva chiaramente in opposizione al bianco e nero. In effetti, non vi erano film che venissero prodotti unicamente a colori. Un certo titolo poteva essere noleggiato sia in bianco e nero che a colori - ma la versione colorata costava di più. Tanto al livello della produzione che dell'esercizio, il colore costituiva una scelta speciale e perciò più costosa, ovvero un valore aggiunto che garantiva un maggior potere di attrazione.

7.jpg (14625 byte) Altrettanto chiaramente, esso appariva come un elemento aggiuntivo, un supplemento di attrazione sensoriale che veniva letteralmente sovrapposto all'immagine in bianco e nero. A mio parere, questa percezione del colore come qualcosa di aggiunto all'immagine in bianco e nero generava piuttosto un effetto di intensità sensoriale che non di realismo (anche se i due aspetti non sono, in questo periodo, teoricamente disgiunti). Grazie a questa intensità aggiuntiva, il colore poteva cosi funzionare in modo metaforico, ovvero come un significante del fantastico.

Sebbene ci sia ancora bisogno di molta ricerca in questo campo, una rassegna delle copie d'archivio risalenti a prima del 1908 mostra che i film più frequentemente distribuiti in versioni a colori erano quelli di carattere fantastico, come le féerie o i film a trucchi di Méliès o della Pathé. Anche i soggetti esotici e spettacolari erano in genere associati al colore. Nei bollettini Biograph del 1908, ad esempio, gli unici film esplicitamente reclamizzati come disponibili in versioni "imbibite" sono The Heart of Oyama, un dramma di ambientazione giapponese, The Barbarian Ingomar, un film storico in costume, The Girl and the Outlaw e A Woman's Way, due film drammatici realizzati in esterni. (19) Anche le più antiche delle copie colorate oggi preservate, i film Edison con le danze serpentine di Annabelle, usano il colore in modo spettacolare piuttosto che realistico: le tinte mutevoli del vestito di Annabelle tentano infatti di riprodurre l'effetto delle luci colorate nei balletti del tipo praticato da Loie Fuller. Film concepiti precisamente allo scopo di esibire il colore come attrazione in sé compaiono anche nella produzione Pathé: è il caso, ad esempio, di La Ruche merveilleuse, la cui azione principale è eseguita da attrici in costume di farfalla che muovono davanti all'obiettivo le loro belle ali variopinte, colorate a pochoir.

Molti film delle origini, inoltre, utilizzavano il colore in modo non continuo. Ad esempio, nel film Pathé Un Tour de monde policier (1906) si trovano inquadrature in bianco e nero, inquadrature imbibite in una singola tonalità e un'emblematica inquadratura finale colorata in più tinte a pochoir. Questa varietà di opzioni cromatiche riflette lo stile generale del film, che alterna scene recitate a brani di attualità ripresi in tutto il mondo. L'inquadratura finale è particolarmente rappresentativa della natura spettacolare del film muto colorato. In effetti, questa parte a pochoir è quella che presenta l'inclinazione realistica più evidente, con il colore che aderisce agli oggetti e ai personaggi in modo referenziale. Si tratta tuttavia di una scena pressoché sganciata dal racconto, un'apoteosi conclusiva, priva di un reale contenuto narrativo, che sopraggiunge dopo il finale. I due antagonisti del film, ora riconciliati, si stringono la mano dinanzi a un grosso mappamondo, mentre una processione di comparse, vestite di variopinti costumi nazionali, sfila davanti all'obiettivo. Qui il colore funziona in pratica come il corrispondente visivo di un punto esclamativo: mette in risalto la spettacolarità esotica del finale e sottolinea emblematicamente le differenti nazionalità in una fioritura di colori.

Quando non potevano permettersi la spesa aggiuntiva di una copia colorata, gli esercenti avevano un'altra possibilità per inserire un numero a colori nel loro programma. Durante l'era dei nickelodeon, quasi tutti i locali cinematografici negli Stati Uniti erano soliti presentare, insieme ai film, un numero di "canzoni illustrate". Lo spettacolo consisteva in un'esibizione canora dal vivo, accompagnata dalla proiezione di lastre stereoscopiche che illustravano il testo della canzone. Queste "lastre musicali" erano dipinte in colori squillanti e spesso fantastici, che riflettevano il senso di desiderio rappresentato nelle canzoni. Era perciò assai raro che gli spettacoli cinematografici di questo periodo fossero del tutto privi di colore.

Come ho accennato all'inizio di questo articolo, nel periodo muto la mancanza di naturalismo non comprometteva la riuscita del colore. Al contrario, proprio il suo aspetto arbitrario e innaturale, di intensità superiore al reale, permetteva al colore di essere esperito come una forza in sé, come qualcosa di più che una semplice qualità secondaria degli oggetti. Anche la leggera discrepanza tra il contorno del colore e quello degli oggetti, caratteristica della colorazione a mano e a pochoir, rafforza il senso di autonomia del colore, che pare quasi staccarsi dalla superficie reale e fremere in una danza scintillante. In ogni caso, l'intensità delle tinte e l'audacia dei contrasti collocano queste colorazioni nella tradizione del colore "emotivo", e perciò potenzialmente "pericoloso", tanto deprecata dai sostenitori della cultura aristocratica. Queste colorazioni non riproducono né l'armonia di un ordine estetico predefinito né una visione della natura che corrisponda ai dati dell'osservazione; esse funzionano, piuttosto, come stimoli per la fantasia, come attrazioni destinate a catturare l'attenzione.

Tuttavia, occorre precisare che nel cinema muto, pur senza realmente produrre un effetto di vero, il colore muove quasi sempre da una motivazione di tipo realistico. In effetti, uno studio complessivo del colore nel cinema di tutte le epoche dovrebbe impegnarsi in primo luogo ad analizzare il delicato pas de deux che i motivi realistici e gli effetti spettacolari o metaforici intrecciano fra loro. Ad esempio, una tinta blu per una scena notturna rappresenta l'uso più comune dell'imbibizione nel periodo muto. Piuttosto che essere percepito come un'immagine di intensa saturazione cromatica e nonostante restituisca un senso di mistero che manca alle immagini notturne della fotografia contemporanea, il color zaffiro intenso di queste scene doveva senz'altro apparire al pubblico dell'epoca come un segno convenzionale, come un significante che indicava la notte.

Ciò stabilito, resto convinto che l'imbibizione (la tintura uniforme di tutta un'inquadratura in un unico colore) sia particolarmente rappresentativa del potere metaforico del cinema muto: anche quando ha una motivazione realistica, il colore singolo domina infatti lo schermo in modo ben più evidente di quanto accada generalmente con le immagini in più colori. Gli spettatori delle copie imbibite di Intolerance percepivano certamente il rosso dell'assedio notturno di Babilonia non solo come un tentativo di rappresentare il fuoco della distruzione, ma anche come una metafora sensibile del sangue, dell'ira e della furia di Marte, dio della guerra.

L'esempio più affascinante che io conosca di questo tipo di effetto è contenuto in una rara copia imbibita di The Lonedale Operator di Griffith conservata presso il Nederlands Filmmuseum. Assistendo alla proiezione di questa copia imbibita ci si accorge subito di come la colorazione realisticamente motivata di una scena chiave del film renda improvvisamente lampante un passaggio del racconto che rimane invece oscuro nella versione in bianco e nero. L'intraprendente operatrice telegrafica protegge le buste paga che ha in consegna tenendo a bada due banditi con una chiave inglese che fa passare per una pistola. Questo importante stratagemma narrativo appare verosimile perché la scena, dopo che la ragazza ha spento la luce, si svolge nell'oscurità. Solamente una copia colorata è in grado di rendere, con il passaggio da una tonalità giallo-ambra al blu, la sensazione del buio che invade la stanza non appena la luce è svanita.

Se questa inquadratura mostra come l'imbibizione possa assumere una funzione tanto realistica che narrativa, l'intera sequenza colpisce piuttosto per l'effetto puramente formale prodotto dal colore. Il brano della tentata rapina (uno dei più celebri esempi, in Griffith, di salvataggio in montaggio parallelo) alterna le immagini dell'ufficio assediato con quelle del macchinista che corre a salvare l'amata sulla sua locomotiva. Questo schema di montaggio viene evidenziato dall'uso del colore. Come il blu dell'ufficio, anche il rosso della locomotiva presenta una motivazione di natura realistica (rimanda, presumibilmente, al bagliore della caldaia a carbone). Ma la rapida alternanza dei colori produce al tempo stesso un gioco cromatico puramente sensoriale che evidenzia le proprietà formali del montaggio, la brevità delle inquadrature e il ritmo rapido del loro susseguirsi. Il passaggio da un colore all'altro crea uno stato di eccitazione fisiologica che riflette (e rafforza) la suspense del racconto.

Se le recenti scoperte sul ruolo del colore nel cinema muto hanno rivelato l'esistenza di una dimensione nuova in film che ritenevamo familiari, l'entusiasmo per questo nuovo orientamento di ricerca non deve farei perdere di vista la natura assolutamente singolare del colore nel periodo muto. Si consideri, ad esempio, il problema della diffusione del colore nel cinema muto posteriore al periodo delle origini. Anche se si arrivasse a dimostrare che negli anni Dieci e Venti la maggior parte dei lungometraggi veniva distribuita in versioni colorate (imbibite e/o virate), resterebbe da stabilire se fosse a colori la maggioranza delle copie effettivamente proiettate. Ma anche se si scoprisse che dalla fine degli anni Dieci il colore era diventato l'opzione più diffusa, la sua natura resterebbe pur sempre quella di un elemento sovrapposto a una base in bianco e nero. In molti film, inoltre, l'imbibizione era limitata a un numero ristretto di scene (immagini notturne o particolarmente spettacolari). Anche nei film colorati a mano o a pochoir, certe aree dell'inquadratura, e specialmente i volti, venivano lasciate in genere in bianco e nero - il che dimostra, fra l'altro, come vi fosse una chiara consapevolezza sia della capacità del colore di dar rilievo agli elementi che dei suoi limiti (la tonalità dell'incarnato è in effetti assai difficile da riprodurre). Perciò, anche se potrebbe essere divenuto a un certo punto prevalente, nel cinema muto il colore non ebbe mai il ruolo che riveste oggi nel cinema o nella televisione, ovvero quello di una mera proprietà familiare degli oggetti, la cui assenza colpisce ben più della sua presenza.

Nel periodo muto, dunque, nel colore venne ad esprimersi in modo particolarmente evidente la natura moderna e popolare del nuovo mezzo cinematografico, il suo sensazionalismo che faceva direttamente appello alle emozioni e ai sensi del pubblico con un'intensità difficilmente eguagliabile da altre forme narrative o di comunicazione. Ma contemporaneamente, nel suo uso del colore, il cinema mostrava una stretta analogia con le nuove arti popolari basate sulla riproducibilità tecnica. Perché infatti, al di là delle connotazioni realistiche che non furono in effetti completamente ignorate, il colore si liberava sullo schermo senza freni, rivelando per intero la sua natura di pura qualità sensibile e sensazionale.

(Traduzione di Sara Pesce e Francesco Pitassio)


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