Incontri Seminari Laboratori
edizioni precedenti

anno accademico 2000-01
Confronto con classici e cinema

Il nuovo sguardo del teatro

di Andrea Ferrari

In scena a Bologna, nel giro di pochi giorni, Motus e Teatrino Clandestino, giovani gruppi della scena emiliano-romagnola protagonisti nell’ottobre ’99, insieme a Fanny&Alexander e Masque Teatro, dell’evento Prototipo a Verona. Oddio, proprio giovani questi gruppi non sono, visto gli ormai dieci anni di attività delle due pressoché coetanee formazioni, è che di questi tempi pare che gli artisti di teatro raggiungano la maturità verso i cinquant’anni, dopo i quali le Grandi Istituzioni Teatrali Italiane iniziano a prenderli in considerazione. Finché si è giovani bisogna arrangiarsi come si può e cercarsi gli spazi e così le due compagnie, pur godendo ormai di una discreta notorietà (i Motus sono di ritorno da una tournée internazionale, il Teatrino Clandestino da numerosi festival) vanno in scena in due luoghi alternativi della cultura bolognese: Link e Teatro Polivalente Occupato 2. Il Link inaugura coi Motus una nuova politica di spazi anche staccati dalla sua sede abituale. Infatti Orpheus Glance va in scena in un capannone del vecchio mercato ortofrutticolo, spazio certamente ampio e adeguato, qualche dubbio resta sul periodo scelto per "inaugurarlo" poiché privo di riscaldamento e gennaio non è il più caldo dei mesi.
Problemi climatici anche per l’Otello del Te.Cl. in scena al TPO2, probabilmente l’unico spazio alternativo che riesce a porsi come interlocutore-altenativa (o almeno ci prova seriamente) alle istituzioni culturali pubbliche, operando in una situazione (l’occupazione) da cui non si possono certo pretendere tutte le comodità della Scala di Milano. Va detto che lo spettacolo è di certo a suo agio in uno spazio simile, vista la carica poetica anticonvenzionale del gruppo bolognese, che permea il lavoro e si manifesta molto evidentemente soprattutto nella composizione dei quattro livelli di costruzione. Il piano sonoro (musica, telefonate e dialoghi tra i personaggi, il tutto registrato), quello più "prettamente teatrale" (gli attori sul palco) e il piano cinematografico sono autonomi ma non autosufficienti e vanno inevitabilmente a confrontarsi con un quarto piano, cioè quello dell’idea che lo spettatore ha del testo, della storia e dei personaggi di Shakespeare, con cui l’Otello del Te.Cl. gioca per tutta l’ora di durata dello spettacolo. Non viene infatti mostrata un’interpretazione personale (o almeno solo in piccola parte) di un testo, ma ci si diverte a sbeffeggiarlo, penetrarlo profondamente, riscriverlo con ironia e rappresentarlo modernamente.
Dunque gioco continuo su più livelli: sopra a un telo di velatino bianco avviene la continua proiezione di un film muto che ripropone l’ossatura della vicenda shakespeariana, ambientata però in un inverno della Bologna d’oggi: lunghe sequenze dei personaggi (Otello, Iago, Desdemona) ripresi singolarmente, intensi primi piani degli attori mentre guardano un non meglio precisato film, Otello e Desdemona che vanno a fare la spesa insieme, l’ossessiva inquadratura di una bocca, Desdemona e Iago che incontrano e vanno al bar con Cassio, Iago che fa scattare la trappola del fazzoletto, poi mostra a Otello un video per dimostrare l’infedeltà della donna al quale il moro crede (pur non dimostrando il video nulla). La vicenda è altresì giostrata, modernizzata e motteggiata dal sonoro: un lungo monologo interiore spiega e non spiega perché Iago vuole "metterlo nel culo" a Otello, gli splendidi racconti del moro della sua vita di guerra (con i quali conquista la bella Desdemona) sono trasformati in vicende giovanili nelle quali Iago caga dentro a un motorino in un magazzino, i due innamorati litigano per niente al telefono, Iago telefona per insinuare il dubbio-consolare Otello; inoltre c’è la musica, che spazia dalla classica ai Doors, impostata su temi ripetuti che cambiano col cambiare delle scene del "film" e che fa da commento emotivo, a volte per contrappunto, a volte per convergenza tematica. Dietro lo "schermo cinematografico" si trova il palcoscenico, visibile solo quando illuminato, dove gli attori si muovono in una scenografia chi rappresenta protorealisticamente un appartamento-scantinato, con una lunga scalinata che sale al piano superiore. Azioni in linea di massima tutt’altro che realistiche, un Otello disagiato che non riesce a muoversi come vorrebbe, in preda a continui scatti e tremiti, che alla fine non è neanche in grado di uccidere una Desdemona provocante e lasciva, con la quale si abbandona a lunghe e furiose fornicazioni; c’è uno Iago inafferrabile e deciso, che diventa prete per celebrare con improbabili discorsi il matrimonio tra i due amanti e che infine fa scattare la tagliola Otello.
Nessuno di questi tre piani è predominante, l’effetto d’insieme è fluido e ben congegnato, porta la storia nell’inafferrabile, il continuo slittamento da un piano all’altro ha un effetto quasi estraniante e affascinante, a una dissoluzione psicologica dei personaggi e la vicenda stessa alla fine ha ben poca importanza. Non c’è nessun rispetto reverenziale per il testo di Shakespeare che è utilizzato come un materiale scenico e soprattutto come un bagaglio culturale acquisito del pubblico da abbracciare e schiaffeggiare per rendere più forte l’idea di indipendenza estetica del vocabolario scenico usato dal Te.Cl. che chiude la pièce in modo forse non inaspettato, ma indubbiamente non canonico: luci spente sul palco, Otello novello Chaplin che si allontana dando la schiena alla camera prima che partano i titoli di coda.
Finale cinematografico, e questo ci riporta ai Motus, perché anche per loro il cinema (soprattutto quello di Cocteau e Abel Ferrara) è un’importante fonte d’ispirazione, ed è negli intenti del gruppo dare al loro Orpheus Gance proprio un taglio di questo tipo. Anche loro peraltro vanno a confrontarsi con un grande classico, ancor più antico della vicenda di Otello, ovvero il mito di Orfeo, il cantore figlio di un dio che con la sua arte affronta gli inferi per riavere accanto a sé l’amata Euridice. Numerosi e illustri gli artisti che nella storia si sono confrontati con questo mito, tra questi Rilke ai cui Sonetti ad Orfeo i Motus s’ispirano. Cosa rimane della vicenda nel lavoro della compagnia riminese? Ben poco: Orfeo è osservato da poco dopo la morte di Euridice fino a quando valica lo specchio per iniziare il suo viaggio nel regno delle ombre.
Orfeo rock star decadente, moderno poeta maledetto, vaga per la sua casa popolata da ombre e ricordi cantando e suonando blueseggianti rock, vomita, beve whisky e fuma sigarette. Non c’è rappresentazione della storia, solo una sorta di dissolvenza in disperazione. Per ottenere questo effetto Motus mettono in scena una pluralità di linguaggi artistici sfruttati e orchestrati con grande abilità. Ampio spazio a suggestioni visive e uditive, grande rilievo alla partitura musicale (che accompagna tutto lo spettacolo con suoni campionati e melodie) e alla bella e profonda voce di Dany Greggio, il cantante voluto dalla compagnia nel ruolo di Orfeo, messa in primo piano sin dalle battute iniziali con una canzone introduttiva estratta direttamente da un ipotetico concerto della rock star a Bologna. Poi il semidio resta da solo, nella casa scenografia su due piani con al centro del pian terreno lo specchio-porta degli inferi nel quale appare e scompare Euridice, prima splendida in un vestito bianco, poi sensuale in abito e lunga parrucca rossi; specchio dal quale la donna esce anche, girando per casa ma senza mai incontrare Orfeo o senza che lui la possa vedere. Altri fantasmi popolano la casa, oltre a Euridice: un acrobata quasi sempre armato di pistola che spunta dai luoghi più impensati e che è anche il doppio di Orfeo (davanti allo specchio e durante i suoi sogni-ricordi con l’amata), e uno sfuggente figuro vestito in elegante abito nero e rosso che potrebbe tranquillamente essere Caronte, un angelo caduto, una funzione scenica o la morte stessa. Da citare anche la performance del cane della casa, che entra in scena, si accoccola, fa dimenticare di sé e alla fine si alza e se ne va.
Raramente i personaggi interagiscono con passaggi psicologici, perlopiù non si vedono, si ignorano o si comportano come fossero frammenti usciti da un sogno. Attorno a loro si svela un mondo di piccole e grandi visioni e suggestioni: l’ombra di un gufo in volo, un trenino che attraversa una città in miniatura, un accendino a forma di Gesù Cristo crocefisso, telefonate in francese e inglese, una statua della Madonna contenuta in una custodia di chitarra che prelude alla comparsa di Euridice vestita da Maria Vergine alla finestra di Orfeo, predominio di colori che ricordano morte e amore (rosso e nero) l’angelo caduto che proietta le diapositive di una vacanza al mare dei due innamorati. Alla fine l’abisso di dolore in Orfeo lo spinge a vestirsi col trucco, la parrucca e gli abiti della donna morta per sentirne più viva la presenza, balla con le sue scarpe e poi scopre di non essere solo: la morte (o il suo Caronte) lo guarda e lo prepara a varcare il confine ultimo, lo specchio, il morire stesso.
Lo spettacolo vive di un ritmo non legato al dipanarsi della vicenda (che si può dire sia assolutamente irrilevante) e riesce in effetti a dare allo spettatore un’impressione cinematografica che causa uno strano rapporto con lo spettacolo: questo è indubbiamente un lavoro superbo, armonioso, non noioso e ricco di interessanti e assai poco banali soluzioni tecniche ma non riesce a stabilire col pubblico un vero contatto emotivo. La comunicazione del pubblico avviene tramite idee sfuggenti e alogiche che si esprimono in una perfezione formale e un equilibrio estetico brillantemente trovato, ma tanta perfezione non lascia spazio all’emozione più semplice, immediata, carnale. Certamente ciò avviene non per demeriti del gruppo o per pecche dello spettacolo ma per una precisa scelta poetica dei Motus, impegnati da sempre in una ricerca di convivenza teatrale dei più diversi tipi d’arte. Peraltro si ha un rapporto simile anche con l’Otello del Te.Cl. e ciò è dovuto a quella sorta di effetto straniamento causato dalla convivenza e sovrapposizione dei tre livelli compositivi, anche se mi sembra che sia principalmente l’effetto dissolutivo dello schermo cinematografico a evitare un coinvolgimento prettamente emotivo con lo spettacolo. Credo però che in ogni modo quest’ultimo lavoro dia comunque una sensazione di sporco fisico, umano, forse perché non raggiunge i livelli di perfezione formale della splendida macchina scenica plurilinguistica messa in opera dai Motus, ma sembra che neanche il Te.Cl abbia trai suoi primi obbiettivi un rapimento catartico dello spettatore.
Beninteso, non credo che il teatro debba cercare a tutti i costi l’emozione o che il coinvolgimento del pubblico sia una prerogativa del buon teatro, resto però dubbioso sui risultati estetici di un’estremizzazione di una visione teatrale così tecnica. Finché la macchina funziona i risultati possono essere sicuramente eccellenti come per gli spettacoli esaminati ma è grande il rischio di cadere nella masturbazione estetica, nella sperimentazione tecnica fine a se stessa, che porta, inevitabilmente, all’inaridimento artistico.
 
IL MORO DI BOLOGNA
 
di Silvia Pischedda
 
Il Teatrino Clandestino ha presentato al Tpo una riscrittura dell'Otello, in cui i tre personaggi shakespeariani, Iago, Otello e Desdemona vengono visti, per così dire, sdoppiati: in un video amatoriale girato per le strade di Bologna e sul palcoscenico. Le immagini del video si sovrappongono ai tre attori in carne e ossa, sul palco e raccontano in ambedue i casi una storia, la stessa storia, ma come osservata da due angolazioni diverse. Nel video vediamo Iago, per le strade della città, sull'autobus, che pensa alla vita, al lavoro, ai rapporti che intercorrono tra le persone e traspare in lui, durante questa lunga riflessione, il cinismo, l'odio, l'invidia che prova nei confronti di tutti.
La psicologia, messa a nudo nei suoi pensieri, è fedele al personaggio shakespeariano, ma forse più vicino a noi in quanto dà l'impressione di scaturire da sentimenti di insicurezza, insoddisfazione e di rivalsa nei confronti di una realtà complessa e soffocante. È un quadro fedele della vita, della società odierna e è forse il motivo che ci fa sembrare questo Iago non solo più simile a noi, ma anche più fragile, più umano rispetto al personaggio originario. Il video continua poi con le immagini di Otello e Desdemona, il loro rapporto già vacillante, le loro incomprensioni, fino alla crisi definitiva. Contemporaneamente dietro lo schermo, sul palco a tratti illuminato, a tratti oscuro, i tre personaggi si muovono, non parlano. Otello è rappresentato come un fantoccio, dai movimenti meccanici, impacciati, lo vediamo "gettato dall'alto" come un manichino e di umano ha veramente poco.In realtà non vediamo in lui neanche la sofferenza, la rabbia(che invece ha nel video), è deriso, umiliato, ma non riesce a commuoverci. Vorrebbe essere grottesco, con le sue corna e Desdemona che ride di lui, ma non ci riesce, ci fa appena sorridere.
E Desdemona? Che cosa è successo alla giovane donna che, nel dramma di Shakespeare, lotta per il suo amore e che sembra innocente di fronte alle accuse di tradimento? La ragazza che anche nel video non ha colpe? Sul palcoscenico questa figura è stravolta, ostenta una volgarità che vorrebbe forse provocare, ma che in realtà ci arreca solo un senso di fastidio. Sembra che tutto ciò che accade sul palco sia la degenerazione di ciò che viene proiettato nel video: il rapporto di Otello e Desdemona ridotto a un selvaggio accoppiamento. In lei non c'è amore, non c'è tenerezza, non c'è ombra di sentimento umano. Lui tenta alla fine di stringerle le mani attorno al collo, ma viene deriso e spinto a terra. E sarà nuovamente "gettato dall'alto" come un vecchio sacco. Lo spettacolo finisce lasciando una sensazione di freddezza, l'uso del video per tutta la durata della rappresentazione crea fastidio, laddove vorrebbero provocare, attraverso la lettura di poesie oscene e la continua simulazione di furiosi amplessi che rasentano la pornografia, in realtà annoiano, dove vorrebbero creare un effetto comico, lasciano indifferente il pubblico. Si ha l'impressione di un lavoro non ultimato: squarci di belle intuizioni e soluzioni forti che però vengono come bloccate prima che agli spettatori ne arrivi l'effetto.
 
CRONACHE DI TEATRO 2000-2001
 
TEATRO? PENSIERI DAL ‘MIO’ CRITICO
 
di Raffaella Cenni
 
Andare a teatro. Vedere altre persone che agiscono. Relazionarsi con loro. Agire noi come pubblico. Dormire in platea...
Cosa andiamo veramente a vedere a teatro? Una domanda con migliaia di risposte diverse, tutte plausibili, tutte reali: è solo una questione di punti di vista. Ce lo insegna innanzitutto la storia del teatro, ce lo ribadiscono gli studiosi di teatro, ce lo impongono i teatranti di mestiere; partendo da Aristotele passando da Diderot arrivando ai giorni nostri con i registi/autori...fino ai critici.
L’atmosfera è la prima cosa che ci investe entrando in un foyer, nell’anticamera, restando in fila in mezzo alla strada per acquistare il biglietto, accalcati intorno alle transenne in piazza; a seconda di quale spazio sia stato scelto per la rappresentazione. Subito dopo la scenografia, le luci dentro e fuori scena, i costumi, insomma tutto ciò che riguarda il visivo, a partire dal luogo, fino ad arrivare al trucco dei performer.
So di cosa si tratta? Sì, cerco di documentarmi il più possibile prima di andare a vedere, ma quando lo spettacolo ha inizio, per un ricercato effetto sorpresa, o per conquistare l’incredulità di un bambino pronto a meravigliarsi delle cose più semplici, rimuovo (almeno tento) tutte le mie informazioni e vorrei lasciarmi incantare…... Senza inoltrarmi in discorsi pseudo-filosofici che rasentano una visione mistica circa l’importanza e la funzione del teatro al giorno d’oggi, ciò che veramente conta per me è l’essenza dell’attore. Questa è la mia visione. Il rapporto che scaturisce durante l’azione tra chi agisce e chi guarda. Può essere anche inesistente, così come ognuno può recepire sensazioni completamente diverse, così come può anche essere un attore un danzatore un gruppo di performer ad instaurare un contatto, ripeto di qualunque tipo, con gli spettatori. Questi spettatori distratti, attenti, coinvolti nelle interazioni o fisicamente forzati ad esserci. Questo è il senso del teatro; dunque ciò che io vado a vedere è la ricerca di relazione, sintetizzata a mio parere nella fisicità dell’attore: se qualcuno si ‘mette lì’ avrà pur qualcosa da comunicarmi!
 
 
NOI CRITICI
 
di Delia Giubeli
 
Giunti ormai alla decima e ultima lezione di questo corso, mi viene spontaneo ripensare alla prima, svoltasi lo scorso novembre, in cui Massimo Marino chiese a ciascuno di noi di presentarsi ed esporre le proprie aspettative sul corso e la nostra personale idea di "critica". Molti di noi hanno risposto di voler mettere alla prova le proprie capacità di scrittore, di osservatore, di ascoltatore anche, nel contesto di uno spettacolo di teatro, ma soprattutto con l’intenzione, a mio parere quasi per tutti, di provare a indossare almeno una volta nella vita i panni del vero critico, in particolare del giornalista di una testata quotidiana. La prima e forse anche l’ultima, come ha voluto onestamente farci notare il professore, poiché "come ben sapete, pochissimo spazio è dedicato al teatro tra le pagine dei grandi e piccoli quotidiani nazionali e quel poco che c’è è concesso ai grandi critici o scrittori che a turno vengono chiamati a presentare o recensire spettacoli più o meno importanti". Perciò, preso atto di non poter aspirare a chissà quali impieghi da giornalisti, anche solo apprendisti e dilettanti, se non per vie molto lunghe e tortuose, ci mettiamo al lavoro con la disponibilità e la voglia di provare comunque a sentirci già parte di una redazione e di una equipe di professionisti! Ed ecco qua il risultato del nostro lavoro di circa tre mesi, un mini-giornale che raccoglie recensioni, critiche e anche interviste a registi e attori.
In particolare abbiamo affrontato spettacoli promossi dalla Soffitta, come l’Orfeo dei Motus, il Teatrino Clandestino, due movimenti del Teatro delle Albe inseriti nel progetto "Cantiere Orlando" e infine due spettacoli del Tam Teatromusica nati da un lavoro di ricerca con ragazzi appartenenti a realtà come il carcere e comunità di recupero: gruppi teatrali appartenenti a generazioni diverse e con poetiche e ambiti di lavoro completamente differenti. Nelle ultime lezioni invece abbiamo affrontato un lavoro su videoproiezioni dei due spettacoli di Eimuntas Nekrosius, Hamletas e Makbethas, e due di Luca Ronconi, Il sogno e La vita è sogno, andati in scena lo scorso anno al Piccolo di Milano nell’ambito del Festival d’Europe. Dopo aver visto i video che riportavano solo spezzoni degli spettacoli, commentati dal professore, abbiamo letto varie presentazioni e recensioni apparse lo scorso anno sulle testate milanesi più importanti, firmate da grandi critici come Savioli e Franco Quadri e scrittori come d’Amico e Franco Cordelli. Dal commento dei loro pezzi comprendiamo quanto l’informazione e l’immagine che ci viene data di uno spettacolo e del suo regista dipenda moltissimo da chi scrive: un giornalista ha un approccio più tecnico, forse più vicino allo stile e agli interessi, a volte anche politici, del giornale; un critico va più a fondo e propone una visione più estesa sul regista o sulla compagnia e I loro percorsi di ricerca degli ultimi anni; uno scrittore affronta più da un punto vista letterario il testo e il linguaggio scenografico. E forse è solo leggendo tanto e tanti diversi articoli come questi che ci siamo fatti un’idea di quanti volti può avere uno spettacolo, di cui noi magari abbiamo visto solo il risultato finale, di scena, ma forse ora non più perché ci verrà più spontaneo portare con noi a teatro quell’ ‘occhio critico’ che ci mancava prima per cogliere tutto ciò che sta dietro, nel tempo e nello spazio, al palcoscenico.
 
 
osservare a teatro
 
- dove mi trovo io rispetto al palcoscenico (platea, palchetti, galleria, piccionaia)
- voluma di voce di ogni attore (se comprendo almeno tutte le parole e il loro significato)
- abiti e oggetti di scena
- luci, colori suoni e musiche: impressione artistica nell’insieme (quadro)
- relazione degli attori tra di loro e tra gli attori e gli oggetti di scena, lo spazio
- reazioni del pubblico attorno a me (sbadigli, risate, commenti, pettegolezzi, rumori)
- se I miei battiti cardiaci aumentano o diminuiscono
- se I miei occhi non si staccano mai dalla scena, con una visione fissa a 180 gradi
- se I miei occhi fissano ipnotizzati quelli dell’attore mentre parla
- se rimango col fiato sospeso o se mi sento molto rilassata e trasportata
- se alla fine non smetto più di applaudire fino a che non mi fanno male le mani oppure aspetto lo scemare dell’applauso generale
- commenti caldi a fine spettacolo, presentazioni o recensioni scritte o parlate
 
io, critico
 
Come critico ma soprattutto come spettatore, quando vado a teatro so di andare a ricevere un messaggio. Il regista, gli attori, I collaboratori della compagnia se sono lì è perché hanno qualcosa da dire, hanno bisogno di comunicare qualcosa con urgenza attraverso il mezzo del teatro: perciò l’obiettivo del mittente e del destinatario è lo stesso: che il messaggio giunga forte e chiaro. Ci sono infiniti modi e infiniti tempi per questo, tutti apprezzabili e discutibili, ma a me, critico e spettatore il messaggio deve giungere limpido nella sua totalità, per poterlo poi ritrasmette a mia volta ai miei lettori o uditori.
 
 
I PERCHÉ DI UN’APPRENDISTA
 
di Tiziana Longo
 
Pirandello nel suo palcoscenico spiattellò la vita servendola allo spettatore passivo, costretto a guardarsi, e fece cadere persino la quarta parete che divideva pubblico da attori pur di scuotere le coscienze; ma oggi per evitare che ciò accada quasi si smette di andare a teatro. Da cosa è scaturita la passività dello spettatore? Dell’uomo che per strada cammina insofferente verso il mondo? Che guarda senza vedere che sente senza avere mai ascoltato? Che vive la sua vita senza essere veramente lui a viverla? Non c’è comunicazione perché c’è incomunicabilità e perché la si vuole; perché fa comodo non parlare e non sentire… per non capire. Ma la gente deve capire.
E così mi è venuto in mente di partecipare al laboratorio di critica e cronaca teatrale, un vero e proprio covo di giovani menti creative allo sbaraglio. Una scelta dettata da un bisogno "quasi" fisiologico: quello di imparare a comunicare agli altri le più impercettibili sfumature del teatro contemporaneo, di imparare a svelare nel modo giusto il segreto di un evento teatrale che vuole spingersi oltre confine e creare quella scossa sensoriale tra pubblico e interprete e ancora prima tra uomo e uomo, quel senso di abbandono e mistero, la sorpresa, quella sottile complicità, solidarietà e tolleranza.
 
 
QUALCHE IDEA DI VISIONE TEATRALE
 
di Andrea Ferrari
 
Troppo spesso, a teatro, capita di vedere cose agghiaccianti. A volte trascorriamo l’intero spettacolo pensando a come manifestare il nostro disgusto, limitandoci per lo più a scappare pochi minuti prima della fine, sperando che gli attori siano in quel momento rivolti verso di noi. Altre volte è solo un passaggio, un tentativo di ‘colpo a effetto’ che ci rovina l’intera messa in scena. Ora, per ‘colpo ad effetto’ intendo qualcosa che colgo come inorganico, disgregato dal resto, spesso nemmeno bello in se stesso, aggiunto allo scopo di compiacere o scioccare il pubblico, solitamente quello impellicciato delle prime file. È un ricorrere a espedienti facilotti che può svelare una mancanza di idee, un’immaturità estetica o, nel peggiore dei casi, un’evidente tendenza alla svendita artistica. Io credo che ogni cosa che avviene in scena, ogni elemento che vi compare, debba avere un senso rispetto al tutto, altrimenti disturba, copre, crea attriti. Beninteso, non intendo un ‘senso’ spiegabile ovunque e per forza a parole: benché un’esegesi sia sempre possibile (basta un po’ di fantasia), le cose che a teatro più colpiscono sono spesso quelle il cui significato logico in sé non riusciamo a cogliere.
Personalmente, alla poesia preferisco la narrativa. Anche a teatro preferisco quando viene raccontata una storia. Non che ci debba sempre essere qualcuno che narra qualcosa, ma penso che il dipanarsi di una vicenda sulla scena aggiunga significato e profondità a quello che avviene durante lo spettacolo.
Il teatro mette in campo molti fattori, molti linguaggi artistici che in altri ambiti hanno vita autonoma. È necessario, indispensabile conoscere i meccanismi tecnici di funzionamento di questi linguaggi, stando però attenti a non incappare in ciò che ritengo un grosso nemico di tutte le forme d’arte: la masturbazione tecnica. Il tecnicismo fine a se stesso, il chiudersi nel proprio ‘Ah, quanto siamo bravi!’, è troppo lontano dalla comunicazione artistica che cerco in quanto fruitore, di teatro come d’altro.

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