La pazzia di Isabella
Vita e morte di Comici Gelosi
Descrizione dello spettacolo
Lo spettacolo incomincia con una lunga elencazione di nomi di comici. È l’appello dei morti. A questa ouverture verbale, segue un monologo di Francesco Andreini, che, indossando la maschera del Capitano Spavento, rievoca con voce fioca le passate glorie della Compagnia dei Gelosi. Le parole sono tratte dall’
Introduzione e dal
Ragionamento decimoquarto delle
Bravure del Capitan Spavento (1606). Il montaggio consente a Sgrosso di rappresentare scenicamente le transizioni recitative, che Francesco Andreini suggerisce al lettore nella seconda parte del
Ragionamento.
Esaminiamo in breve il testo originale, dove l’autore applica alla pagina scritta l’arte delle trasformazioni a vista nelle quali i comici erano maestri.
Nel
Ragionamento decimoquarto il Capitano conclude il racconto della sua “bravura” con lo spettacoloso lancio di Venere fra i bordelli dell’isola di Cipro. A questo punto, come risvegliandosi da un sogno ad occhi aperti, Spavento si ricorda delle incombenze quotidiane, di cui incarica immediatamente il servo: “Trappola, va’ alla posta e vedi se vi sono mie lettere”. Trappola, per tutta risposta, dice che effettivamente una lettera gli è stata consegnata, or non è molto, da un uomo che assomigliava straordinariamente al Dottor Graziano dei comici Gelosi. Il Capitano, aperta la lettera, si mette a ridere. Al che Trappola commenta che, se il suo padrone ride tanto, quell’uomo doveva essere per davvero il Dottor Graziano. No, ribatte il Capitano, “non era sua la lettera”. A questo punto, partendo dalla somiglianza rilevata da Trappola, Andreini sviluppa per bocca del Capitano una digressione sulla compagnia dei Gelosi, citando per ultimo “un certo Francesco Andreini […] che rappresentava la parte d’un Capitano superbo e vantatore, che […] si faceva chiamare il Capitano Spavento da Valle Inferna”. All’inizio del
Ragionamento, il Capitano Spavento è indubbiamente il personaggio dell’Arte, poi, allorché la somiglianza rilevata da Trappola dà adito alla divagazione sui Gelosi, la maschera fa luogo alla fisionomia naturale di Francesco, che, pronunciando il proprio nome attraverso la fittizia identità del simulacro scenico, si scopre idealmente il volto.
Nella “riscrittura d’attore” di Marco Sgrosso, cade il personaggio di Trappola e la transizione si verifica allorché il personaggio passa dalla rievocazione dei Gelosi, che fa in maschera, a quella, più sentita, della moglie Isabella, ricavata dal testo dell’Introduzione. Prima di ricordare la compagna, Andreini/Spavento
si toglie lentamente la maschera con entrambe le mani dal basso verso l’alto e scopre il volto commosso, è Francesco Andreini che parla al pubblico.
Segue l’apparizione di Isabella (Elena Bucci) che, dopo aver affastellato parole intorno ai disagi della sua vita errabonda, avanza dal fondo scena cantando senza accompagnamento una canzone francese. È una reminiscenza del canto che l’Andreini intonò durante la celebre rappresentazione fiorentina della
Pazzia (1589), rivolgendosi direttamente alla duchessa Cristina di Lorena.
I due coniugi si incontrano sul palchetto sopraelevato dei comici situato nello spazio anteriore della scena, fra due alti drappi rossi che evocano la teatralità del sipario. Le loro parole sono quelle del lamento pastorale che funge da introduzione alle
Bravure del Capitan Spavento.
A partire da questo momento Bucci e Sgrosso alternano alla rappresentazione di Isabella e Francesco, quella di due personaggi/tramite che s’incaricano di fornire allo spettatore informazioni e dati sulle vicende artistiche e biografiche dei due celebri attori.
Lo Storico avanza sdrucciolando sul bastone, intercala il discorso con frasi idiomatiche, mentre spiega si eccita; è lecito attribuirgli un gusto gerontofilo per il decadimento fisico: la vecchiaia, la polvere, i dati senza vita sono il suo elemento naturale. Peste, invece, discende dal primo incontro fra Elena Bucci e la Commedia dell’Arte. L’attrice ha infatti ricavato tale personaggio da quello di Morte, interpretato nel
Ritorno di Scaramouche di Leo de Berardinis. Della sua precedente versione come Morte, la più petulante Peste conserva la maschera con l’enorme naso adunco e la voce chioccia, mentre perde i movimenti stilizzati e la veste nera.
Segue una “bravura” del Capitano che Sgrosso recita intercalando la narrazione con spagnoleschi richiami sessuali rivolti a un’ipotetica ammiratrice fra il pubblico.
L’invenzione illumina i risvolti erotici delle performance andreiniane, dove, narrando di amplessi clamorosi e plurimi, è quasi impossibile che l’attore non ammiccasse al pubblico femminile e a quello maschile eccitandoli a partecipare all’orgia immaginativa inscenata dalle sue parole.
Interpretando alternativamente le parti dello Storico e di Peste, che spariscono ed appaiono spostandosi lateralmente intorno ai drappi rossi calati dall’alto, e quelle di Francesco e Isabella, che si spostano lungo la profondità scenica, gli attori realizzano in successione, con vari ponti e interazioni reciproche, il racconto dei comici Gelosi minacciati di morte da Vincenzo Gonzaga, la confessione di Isabella al pubblico (basata sulla dedicatoria delle
Lettere), una seconda “bravura” del Capitano e un dialogo dove Francesco chiede a Isabella di recitare ancora una volta la sua celebre
Pazzia.
Tutta di Elena Bucci è l’idea di negare scenicamente la rappresentabilità della
Pazzia. Mentre le luci calano fino alla completa oscurità, l’attrice si spoglia delle vesti e arretra lentamente, ripetendo di non potere rivestire le invenzioni sceniche dell’altra, con il proprio corpo, con i propri pensieri, con la propria voce. Carmelo Bene diceva che “per fare Shakespeare, bisogna essere Shakespeare”; Bucci, già interprete di Eleonora Duse, assume con partecipazione consapevole le parole di Isabella Andreini, l’altra grande artista di mestiere del nostro teatro, riservandosi però di concludere la performance dimostrando che “per fare la
Pazzia, bisogna essere Isabella”.
Rispettando il terreno dell’attrice scomparsa laddove più marcato è il suo segno, l’interprete attuale indica al pubblico l’orma dell’attrice, il suo lascito vuoto eppure memorabile. La
Pazzia contemporanea, invece di dar adito alla rievocazione di qualcosa che non c’è e non è più possibile, si risolve così nell’esibizione di un’assenza indiscutibile e oggettivamente presente.
Gerardo Guccini