nasce a Mirano nel 1954.
Dopo un’esperienza come direttore tecnico con l’unità di produzione cinematografica “NK”, per la realizzazione del film Come Cinema prodotto dalla Biennale di Venezia, incontra le maschere a Mirano nel 1977 in occasione di un seminario tenuto da Donato Sartori. Il lavoro di ricerca così avviato, porterà, l’anno seguente, all’incontro con Carlo Boso e la Commedia dell’Arte.
Collaborare con Carlo Boso ha significato e significa tuttora l’occasione per una sintesi tra momenti di ricerca, attivata durante i seminari, e momenti di verifica pratica negli spettacoli in cui le maschere hanno potuto prendere vita. Un lavoro che unisce dunque alla scultura la possibilità di condurre, in collaborazione con attori e registi, una approfondita ricerca sulle radici culturali che fanno di una maschera un affascinante veicolo di espressione.
Stefano Perocco ha realizzato maschere per molti attori e compagnie di teatro, ideato e costruito scenografie e macchine teatrali, tenuto corsi in Accademie, Scuole e Università. In particolare, ha collaborato con il Teatro di Leo diretto da Leo de Berardinis, la compagnia dell’Improvviso diretta da Luca Franceschi, il Théâtre de l’Evil diretto da Guy Pion, le Théâtre du Centaure diretto da Camille e Manolo, la compagnia Faux Magnifico diretta da Toni Cafiero, la scuola Veneziainscena diretta da Adriano Jurissevich, la scuola Kiklos diretta da Giovanni Fusetti e l’Academie Albatros diretta da Carlo Boso.
LA SOFFITTA - Centro di promozione teatrale
LA SOFFITTA 2005
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TEATRO
19 gennaio - 23 maggio |
mercoledì 19 gennaio Laboratori DMS - Quarto Spazio, ore 17 Smascheramenti
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La maschera e il teatro: un rapporto antico quanto la propensione umana per tutto ciò che sa di magico e di simbolico. La maschera come strumento del fare teatro: presenza fisica costante sullo sfondo della “skenè” greca, tesa a fissare tipi, a fermare nel tempo un espressione, sia essa di pianto, di riso, di scherno… ad enfatizzare la voce e l’impatto visivo sul pubblico. La maschera come testimonianza tangibile del filo diretto che corre tra i riti del carnevale e la Commedia dell’Arte: commistione tra demoniaco e comico, tra improvvisazione e codificazione scenica, tra esuberanza acrobatica e studiata professionalità. La maschera come identificazione dell’attore con il personaggio: ancora una vicenda ai limiti del rituale, conciliazione di una schizofrenia fatta mito, che raggiunge il suo acme con l’esperienza teatrale-biografica dei comici dell’arte inseparabili dal proprio ruolo e dalla sua maschera. Tutto questo è presente nel lavoro di chi ancora oggi costruisce, o meglio, plasma sul volto dell’attore la maschera e con essa collabora a ricreare la psicologia del personaggio che sulla scena prenderà vita. Perché questo rimane fondamentalmente la maschera: uno strumento di lavoro. In quanto strumento essa incide sulle prestazioni di chi la utilizza: come una leva aumenta la forza di un braccio o l’automobile consente di esaltare la velocità, la maschera permette all’attore di amplificare la forza, la “presa” del suo personaggio. Perché nascondere quella parte del corpo che è il punto di riferimento privilegiato nello scambio di emozioni e stati d’animo tra attore e spettatore? Perché la maschera in realtà non nasconde… al contrario, comunica al pubblico, per mezzo di un linguaggio fatto di forme e colori, un messaggio senza mediazioni. Alle origini del teatro è il rito e la maschera ne è protagonista indiscussa: la maschera è dio-animale per l’uomo cacciatore, dio delle messi per l’uomo agricoltore e poi spirito, simbolo, apotropaico, “homo salvatico”, diavolo. E sono diavoli le maschere della Commedia dell’Arte, diavoli pagani, a volte malvagi, a volte benevoli, ma sempre legati saldamente alla terra, alla vita, alla morte, senza nulla aver perso di quel rapporto primigenio e ambivalente di forza e di dipendenza dell’uomo dalla materia. Liberiamoci per un momento dall’immagine, a cui forse siamo abituati, della maschera nella Commedia dell’Arte come prodotto di una certa stilizzazione, punto d’arrivo di un percorso di affinamento formale, e pensiamo alle prime maschere, alle sarabande fatte di profili rapaci e movenze disarticolate, al loro spirito animalesco e terragno. Sono maschere violente, aggressive, provocatorie, in sintonia con la crudezza e la forza di uno spettacolo recitato in piazza, per un pubblico distratto e rumoroso, con il vento che disperde la voce e senza una scenografia che concentri l’attenzione. Il nero e il rosso sono i colori ricorrenti, i colori del demoniaco. I nasi sono lunghi e gli occhi piccoli, l’angolo visivo limitato, tanto da provocare esagerati movimenti della testa e del corpo. Proprio questa marcata gestualità, la cui presa sul pubblico è immediata, pose le basi della mimica che ancora oggi è insegnata rifacendosi ai comici dell’arte. Ancora rimane fondamentale nell’ideazione di una maschera la ricerca di forme semplici, essenziali. È questa semplicità la cosa più difficile da raggiungere, dovendo sempre confrontarci con la tendenza a decorare, ad aggiungere particolari atti a complicare piuttosto che valorizzare le linee. Il mondo animale diventa la fonte più preziosa di spunti per lo studio di un tipo, con la messe di analogie che esso ha già prestato alla nostra espressione verbale: “Ha paura come un coniglio”. “È furbo come la volpe”. “È forte come un toro”. Sono immagini visive, quindi dirette, che rendono la parola più efficace. Allo stesso modo, puntando all’animalità del personaggio, si ottengono le forme che servono da veicolo più immediato per l’espressione. Ed ecco come nasce il severo profilo aquilino di un austero Magnifico, le cui linee spigolose posso però afflosciarsi fino a divenire le rughe sfatte di uno spennacchiato Pantalone, residuo dei perduti fasti di una Serenissima ormai decadente. Ecco come i caratteri scimmieschi e le movenze scoordinate di un primitivo Arlecchino possono trasformarsi nei tratti astuti e sornioni, fluidificarsi nei movimenti felini di un servitore ben più scaltrito ed opportunista. Ecco profilarsi prepotente il naso a becco di un Capitano millantatore, emulo spagnoleggiante del Miles Gloriosus, con lo sguardo aguzzo colorito di una sottile malvagità, ma che talora si allarga fisso, a tradirne il carattere ottuso. È questa la selva multiforme di tipi umani che popola il mondo della Commedia. Immaginate il pubblico variegato della piazza, animata dall’agitazione del Carnevale che, magari nascosto dietro l’impersonalità senza espressione di una bauta, osserva se stesso messo a nudo dalla finzione scenica, le proprie sembianze e debolezze amplificate fino al ridicolo. Realtà e finzione a confronto come in un gioco di specchi. Stefano Perocco di Meduna
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