Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna La Soffitta 2004 - TEATRO - Incontro con la Societas Raffaello Sanzio

 LA SOFFITTA 2004

TEATRO
19 gennaio - 16 maggio

 
IL PROGETTO TRAGEDIA ENDOGONIDIA

Impossibilità del tragico
o ri-nascita della tragedia?

Incontro con la Socìetas Raffaello Sanzio

coordina Marco De Marinis
intervengono Angela Andrisano, Claudia e Romeo Castellucci,
Carlo Gentili, Chiara Guidi, Gianni Manzella

Laboratori DMS - Teatro, 23 aprile - ore 15

Sulla Tragedia Endogonidia
scritto raccolto da interviste a Romeo Castellucci

Oscura è la tragedia. L' "oscurità" di questa umanità non deriva da un accademico ragionamento sul tragico. Io non ho nulla da aggiungere. La tragedia non è una mia specialità. Il fatto che me ne occupi vuole forse significare una volontà a mantenere una distanza, un sospetto nei confronti della sua ineluttabilità. Oscura è la tragedia; e io non faccio nulla per rischiararla, per riscattarla. Ma, ancora una volta, mi sorprendo attratto dal suo magnete, dalla sua sfinge, dalla sua capacità di accogliere il futuro. In realtà io credo che la tragedia sappia tutto del corpo e che detenga un potere assoluto su di esso prima ancora di ogni agognata redenzione. Non è religiosa la tragedia, e nel suo nucleo vi è lo scandalo della nascita, non della morte.
     Si può andare oltre l'idea di corpo? Siamo l'animale dell'indovinello della sfinge. La tragedia nasce esattamente quando l'esperienza del mondo si frantuma, da un livello di contemplazione a un problema di conoscenza. In una parola nasce in coincidenza della nascita della visione del cittadino ateniese. Visione che non capisce e non accetta più la violenza del rito cruento. Per questo motivo, e da questo momento in poi, la tragedia diventa il laboratorio e l'ambito esclusivo di tutte le violenze. L'alienazione, in un rovescio totale dei valori, diventa in questo ambito la più pura delle possibiltà offerte al cittadino-spettatore. Stare in un altro posto. Pensare da un'altra posizione. Spostare lo sguardo all'esterno. La macchina-tragedia sostituisce e sospende ogni altro ordine. L'eroe è il padrone assoluto del proprio corpo solo un momento prima dello schianto. Si libera e esplode nell'attimo finale, nell'attimo in cui è davvero fuori da ogni salvezza e redenzione. Il compito della tragedia del futuro è forse quello di non avere più alcuna idea di corpo suffragata dall'esperienza del sensibile.
   Se esiste un sistema, questo si trova all'interno dell'opera e ha una logica blindata, endocrina, razionale e funzionale. Nessuna semiologia, nessuna ricerca sul linguaggio, nessuna esplorazione del corpo, nessuna presa sul reale, nessuna mistica, nessuna etica e niente bocconi zuccherosi sul sociale. L'ho detto; se esiste un qualche minimo valore in questo progetto lo sapremo tra qualche anno e lo scopriremo in rapporto al "mondo della Concezione" cui esso dà accesso; il quale poi, per sua stessa "ammissione" è, e rimane, onnicomprensivo e, a un primo sguardo, perfino incomprensibile. Nel mondo della Concezione si sospendono le regole di questo mondo, di questa realtà; e se esiste un dato politico minimo e linguistico è, probabilmente, da ricercare unicamente in questa interruzione del principio di realtà.
     Per il resto ho capito che, ad essere sincero almeno un po', non mi rimane che dire la potenza del "non dire". Il pubblico si accorgerà che questo non necessariamente significa "silenzio".
Il problema è nascosto lì. Esiste ancora oggi questa possibilità comunitaria di fondare lo sguardo? Non è questa la nuova sfida di ogni teatro? Ha ancora un significato vedere?
     La tragedia non fornisce alcuna consolazione che possa venire da una risposta. C'è la domanda del sempre tesa e che per necessità tragica va contrastata. In realtà non dovrebbe esservi alcuna domanda perché le risposte non sono ammesse. Non dovrebbe neppure esservi la condizione di far esistere la tragedia e il teatro stesso. Non è a buon mercato che ci si libera dal male. Il teatro è soltanto una forza analogica eretta a bastione contro le potenze della morte. La tragedia attica espone alla città il cadavere di violenza perché questa, per settanta anni, è stata la sua funzione estetica e a-politica. L'arte non ha mai risolto problemi: non è una terapia, non è una farmacia. L'arte tragica è un veleno assunto, consapevolmente e volontariamente, dalla comunità e che finisce, senza consolazione alcuna, con uno sgomento di fronte alla scoperta della fragilità e dell'abbandono dell'essere. Benjamin, a proposito del finale delle tragedie, si contrappone all'invenzione aristotelica della catarsi per indicare un sostanziale non liquet che lascia sospeso sul silenzio ogni possibile conclusione e liberazione. Sulla stessa linea, qualche anno prima, Rosenzweig indicava la tragedia come l'"arte del silenzio". Non esiste alcuna paideia tragica capace di educare il pubblico, nessun funzionalismo può disinnescare la portata di bellezza senza nomi e di contemplazione che la tragedia getta in mezzo alla città.
     Non esiste ancora uno sguardo degno di essere tragico, capace, cioè, di creare con la sua forza una comunità umana; questo per il teatro è un compito del futuro.


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