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- IL
PROGETTO TRAGEDIA
ENDOGONIDIA
Impossibilità del tragico
o ri-nascita della tragedia?
Incontro con
la Socìetas Raffaello Sanzio
coordina Marco De Marinis
intervengono Angela Andrisano, Claudia e
Romeo Castellucci,
Carlo Gentili, Chiara Guidi, Gianni
Manzella
Laboratori DMS - Teatro, 23
aprile - ore 15
Sulla Tragedia
Endogonidia
scritto raccolto da
interviste a Romeo Castellucci
Oscura è la tragedia. L' "oscurità"
di questa umanità non deriva da
un accademico ragionamento sul
tragico. Io non ho nulla da
aggiungere. La tragedia non è
una mia specialità. Il fatto che
me ne occupi vuole forse
significare una volontà a
mantenere una distanza, un
sospetto nei confronti della sua
ineluttabilità. Oscura è la
tragedia; e io non faccio nulla
per rischiararla, per riscattarla.
Ma, ancora una volta, mi
sorprendo attratto dal suo
magnete, dalla sua sfinge, dalla
sua capacità di accogliere il
futuro. In realtà io credo che
la tragedia sappia tutto del
corpo e che detenga un potere
assoluto su di esso prima ancora
di ogni agognata redenzione. Non
è religiosa la tragedia, e nel
suo nucleo vi è lo scandalo
della nascita, non della morte.
Si
può andare oltre l'idea di
corpo? Siamo l'animale
dell'indovinello della sfinge. La
tragedia nasce esattamente quando
l'esperienza del mondo si
frantuma, da un livello di
contemplazione a un problema di
conoscenza. In una parola nasce
in coincidenza della nascita
della visione del cittadino
ateniese. Visione che non capisce
e non accetta più la violenza
del rito cruento. Per questo
motivo, e da questo momento in
poi, la tragedia diventa il
laboratorio e l'ambito esclusivo
di tutte le violenze.
L'alienazione, in un rovescio
totale dei valori, diventa in
questo ambito la più pura delle
possibiltà offerte al cittadino-spettatore.
Stare in un altro posto. Pensare
da un'altra posizione. Spostare
lo sguardo all'esterno. La
macchina-tragedia sostituisce e
sospende ogni altro ordine.
L'eroe è il padrone assoluto del
proprio corpo solo un momento
prima dello schianto. Si libera e
esplode nell'attimo finale,
nell'attimo in cui è davvero
fuori da ogni salvezza e
redenzione. Il compito della
tragedia del futuro è forse
quello di non avere più alcuna
idea di corpo suffragata
dall'esperienza del sensibile.
Se esiste un
sistema, questo si trova
all'interno dell'opera e ha una
logica blindata, endocrina,
razionale e funzionale. Nessuna
semiologia, nessuna ricerca sul
linguaggio, nessuna esplorazione
del corpo, nessuna presa sul
reale, nessuna mistica, nessuna
etica e niente bocconi zuccherosi
sul sociale. L'ho detto; se
esiste un qualche minimo valore
in questo progetto lo sapremo tra
qualche anno e lo scopriremo in
rapporto al "mondo della
Concezione" cui esso dà
accesso; il quale poi, per sua
stessa "ammissione" è,
e rimane, onnicomprensivo e, a un
primo sguardo, perfino
incomprensibile. Nel mondo della
Concezione si sospendono le
regole di questo mondo, di questa
realtà; e se esiste un dato
politico minimo e linguistico è,
probabilmente, da ricercare
unicamente in questa interruzione
del principio di realtà.
Per
il resto ho capito che, ad essere
sincero almeno un po', non mi
rimane che dire la potenza del
"non dire". Il pubblico
si accorgerà che questo non
necessariamente significa "silenzio".
Il problema è nascosto lì.
Esiste ancora oggi questa
possibilità comunitaria di
fondare lo sguardo? Non è questa
la nuova sfida di ogni teatro? Ha
ancora un significato vedere?
La
tragedia non fornisce alcuna
consolazione che possa venire da
una risposta. C'è la domanda del
sé sempre tesa e che
per necessità tragica va
contrastata. In realtà non
dovrebbe esservi alcuna domanda
perché le risposte non sono
ammesse. Non dovrebbe neppure
esservi la condizione di far
esistere la tragedia e il teatro
stesso. Non è a buon mercato che
ci si libera dal male. Il teatro
è soltanto una forza analogica
eretta a bastione contro le
potenze della morte. La tragedia
attica espone alla città il
cadavere di violenza perché
questa, per settanta anni, è
stata la sua funzione estetica e
a-politica. L'arte non ha mai
risolto problemi: non è una
terapia, non è una farmacia.
L'arte tragica è un veleno
assunto, consapevolmente e
volontariamente, dalla comunità
e che finisce, senza consolazione
alcuna, con uno sgomento di
fronte alla scoperta della
fragilità e dell'abbandono
dell'essere. Benjamin, a
proposito del finale delle
tragedie, si contrappone
all'invenzione aristotelica della
catarsi per indicare un
sostanziale non liquet che lascia
sospeso sul silenzio ogni
possibile conclusione e
liberazione. Sulla stessa linea,
qualche anno prima, Rosenzweig
indicava la tragedia come l'"arte
del silenzio". Non esiste
alcuna paideia tragica
capace di educare il pubblico,
nessun funzionalismo può
disinnescare la portata di
bellezza senza nomi e di
contemplazione che la tragedia
getta in mezzo alla città.
Non
esiste ancora uno sguardo degno
di essere tragico, capace, cioè,
di creare con la sua forza una
comunità umana; questo per il
teatro è un compito del futuro.
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