Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
SUONI DAL MONDO Festival di Musica Etnica - XI Edizione |
Festival di Musica Etnica - XI Edizione
La cantante di Pansori
regia di Im
Kwon-taek
(Corea del Sud - 1994)
Sceneggiatura: Kim
Myung-gon
dall'opera omonima di Yi Chongjun
Fotografia: Jung Li-sung
Montaggio: Park Sun-duk
Scenografia: Kim Yu-joon
Musica: Kim Soo-chul
INTERPRETI E PERSONAGGI:
Kim Myung-gon (Il
padre)
Oh Jung-hae (Songwha)
Kim Kyu-chul (Dongho)
Produzione: Tae-hung Production - Durata: 113'
Sinossi
Un uomo vive insegnando il Pansori - il canto tradizionale coreano - alla figlia adottiva e il tamburo di accompagnamento al figlio. In costante viaggio attraverso il paese, i tre sbarcano il lunario grazie alla musica. Ma quando il fratello decide di separarsi dal gruppo, la sorella decide di non cantare più e il padre-padrone la acceca. Anni dopo, nel ritrovare il fratello, il canto della donna raggiungerà il sublime.
Il Pansori rappresenta, dal punto di vista musicale, la sublimazione del dolore e della disperazione collettiva. Questo canto tradizionale, molto difficile da apprendere, è stato sistematicamente represso a partire dal 1945.
Bio-filmografia
Im Kwon-taek nasce nel 1936 a Changsong, una provincia della Corea del Sud. Nel 1957 diventa assistente di Chong Cha'anghwa. Im Kwon-taek è senza dubbio il più importante cineasta coreano contemporaneo.
1973 Erbe cattive
1979 L'albero genealogico
1982 Il villaggio nella nebbia
1984 La figlia del fuoco
1986 Una madre in affitto
1987 Cronache del Re Yonsan
1988
1989 Adada
Il grido e il canto
Miles Davis diceva che, per trovare la giusta sonorità della sua tromba, era solito suonare nella tenuta di famiglia, di fronte ad un grande lago. Ne La Cantante di Pansori, la giovane Songwha canta - o, piuttosto, non fa che gridare - la sublimazione del dolore e la disperazione collettiva del Pansori, al freddo, di fronte ad una piccola valle coperta di neve. Solo dopo anni di instancabile esercizio, Songwha riuscirà a raggiungere la perfezione canora, coronamento di un'arte ormai dimenticata in Corea. E ciò avverrà dopo la morte dell'onnipotente padre adottivo, nel momento lungamente atteso del ricongiungimento con il fratello, di cui si era persa ogni traccia anni prima. Da lei riconosciuto solo grazie alla musica (il padre, infatti, l'aveva accecata perché si concentrasse esclusivamente sulla sua arte), il fratello l'accompagnerà per tutta la notte con il secco battito del tamburo. La scena, decisamente sconvolgente, precede l'epilogo, in cui assistiamo alla partenza mattutina del fratello. Songwha e il fratello Dongho, riunitisi senza mai accennare alla propria separazione, raggiungono una sorta di suprema ed incantevole bellezza, ovvero il momento sublime in cui il canto della giovane donna sostituisce il grido. Dopo vent'anni di sofferenza, finalmente alcuni minuti di felicità!
In tale momento, violento ed emotivo, il regista scompone - per la prima volta in modo sistematico - tutta la sequenza in primi piani: i campi e i controcampi dei personaggi colgono l'intensità del rapporto, la passione per l'arte e la loro disperata situazione personale. Si cercano per anni e, una volta ritrovatisi, si fanno dono, l'un l'altro, della musica. Dongho, che è sempre stato un mediocre accompagnatore, poco interessato al Pansori, suona il tamburo per tutta la notte; e Songwha canta per lui con assoluta perfezione.
Sebbene il film sia costruito su spostamenti temporali, resi attraverso i flash-back di Dongho, è soprattutto Songwha ad occupare il campo visivo, uno spazio condiviso in un primo tempo con il fratello e il padre e, in seguito, dopo la partenza del fratello, solo con il padre. Morto questo, Songwha sarà l'unico personaggio per varie sequenze. I musicisti bambini, accompagnati dal padre-padrone, vivono grazie al Pansori, che eseguono per la strada, nei mercati e nelle feste familiari. Rimasta sola, Songwha viene accolta da un locandiere: potrà così perfezionare il suo canto.
L'evoluzione del personaggio di Songwha ben rappresenta il melodramma che da sempre caratterizza la produzione sud-coreana. E' uno schema moltiplicato all'infinito: l'uomo è il dominatore, mentre la donna è destinata a soffrire e a sacrificarsi. Il melodramma che recupera l'identità femminile nascerà solo negli anni Ottanta, e diventerà un genere femminista in cui "la donna dal tragico destino" è al centro della vicenda. Da questo, deriveranno due sottogeneri: il melodramma della maternità e quello della pietà filiale. Quest'ultimo, messo seriamente in discussione dal regista ne La Cantante di Pansori (utilizzando la figura del padre criminale), è una virtù fondamentale della dottrina confuciana (l'hyo), idea-forza del concetto di famiglia. Manipolata dalla dittatura militare al potere, verrà anche utilizzata per propagandare l'unità nazionale (la fedeltà al potere, al padre della nazione, il chung) e l'anticomunismo, in opposizione alla Corea del Nord, dove non esisterebbero più nè struttura patriarcale nè tessuto sociale.
E' significativo che la narrazione cominci all'inizio degli anni Sessanta, quando, in seguito al colpo di Stato del 16 maggio 1960, la dittatura riprende la dottrina confuciana e rinnega sistematicamente le radici della cultura coreana, optando, sotto pressione degli USA e dopo la guerra civile conclusasi nel 1953, per un'apertura all'Occidente. Il primo flash-back ci riporta indietro di venticinque anni, attorno al 1935 (anno di nascita del cineasta), e mostra il viaggio del padre e dei suoi due figli adottivi, pellegrinaggio che si svolge soprattutto nel periodo chiave della fine dell'occupazione giapponese, nel 1945. Senza essere mai proibito durante i trentasei anni di occupazione straniera, il Pansori subisce, comunque, una sistematica repressione per lasciare spazio alle mode americane. Il ritorno al passato permette al popolo coreano di riprendere coscienza della sua storia e della sua cultura. Gran parte dell'opera cinematografica di Im Kwon-taek ha come comune denominatore proprio la riabilitazione del passato: lo notiamo in Una madre in affitto (Sibaji, 1986), in Cronache del re Yonsan (Yonsan ilgi, 1987), ne L'albero genealogico (Chokpo, 1978), che tratta il tema della ricerca dell'identità, e ancora ne Il Villaggio nella nebbia (Angae maul, 1982) dove si affronta il tema della trasmissione del sapere.
Ritroviamo tutti questi elementi ne La Cantante di Pansori. Prolifico autore di oltre novantacinque film nell'arco di un trentennio (inizia nel 1962, ma considera la sua prima, vera opera d'autore L'albero genealogico, prodotto nel 1978), il regista dichiara: "Il nostro cinema ha il dovere di ridare vita alle antiche radici della nostra cultura, che consistono, secondo me, nella pulsione alla ricerca della natura umana. Senza dubbio, sono poche le speranze di far rivivere questa filosofia, ma dobbiamo compiere ogni sforzo in proposito".
La Cantante di Pansori è il maggior successo commerciale nella storia del cinema coreano (è stato visto da oltre tre milioni di spettatori). Il film, divenuto ormai un fenomeno sociale, presenta molteplici sfaccettature: il ritorno alle radici perdute, il sottile collegamento tra le sonorità antiche e moderne (la musica è costruita sui dolci suoni del flauto e su una base di archi prodotta dai sintetizzatori, come contrappunto alle note acute e dolorose del canto e al secco battito del tamburo); la sincerità interpretativa dell'attrice-cantante (che non si fa mai doppiare); e, ancora, un eclatante lirismo rivolto alla vita e alla natura (capace sempre di restituire gli individui al loro ambiente), una splendida fotografia che gioca con le luci e la materia, e una messa in scena che coniuga movimento e staticità, vicinanze e lontananze, e che oscilla costantemente tra violenza e sentimentalismo... Il tutto grazie alla perfetta maestria del regista, senza alcun dubbio al meglio delle sue capacità poetiche e narrative.
(Hubert Niogret, in Positif, dicembre 1995)
La via dei reincontri
Se chiudete gli occhi, il canto profondo e doloroso del Pansori vi penetrerà nelle vene: tuttavia, non vedrete i sontuosi paesaggi della Corea, il paese dalle calme mattinate e dalle fitte nebbie. E' questo il destino di Songwha, la cantante di Pansori che, accecata dal padre e separata dal fratello Dongho, trova nella sofferenza il punto più alto della sua arte. Qualche anno dopo, Dongho, ormai trentenne, giunge in una locanda di campagna dove, ascoltando una cantante di Pansori, rivede e rivive il proprio passato. Ai ricordi personali, si mescolano quelli di tutto un popolo. Alla voce della cantante, si sovrappone quella del cineasta che esprime la sua incontenibile rabbia. Attraverso il tentativo di Dongho di ritrovare Songwha (la sorella adottiva), scorgiamo le profonde lacerazioni della Corea moderna - nazione divisa da una frontiera invalicabile - nonché la tragedia di migliaia e migliaia di famiglie condannate alla separazione. Ambientando la storia negli anni Sessanta, sullo sfondo di queste vicende personali, il regista intende descrivere il dramma di una nazione da riunificare, ma, anche - mediante il Pansori (il canto tradizionale coreano) - l'essenza di una cultura sconvolta dagli avvenimenti degli ultimi quarant'anni.
Uno dei motivi che fa de La Cantante di Pansori il maggior successo del cinema coreano di tutti i tempi, è senza dubbio l'elemento rievocativo: si affronta in modo indiretto (con accenni discreti e suggestivi) la questione nazionale più delicata, permettendo al contempo alle giovani generazioni di riscoprire una cultura ormai dimenticata.
Costruito come un lungo flash-back che ci riporta nel periodo che precede la guerra civile, La Cantante di Pansori è un film nostalgico e sentimentale che rivela i sogni di pacificazione del regista. Ma la nostalgia ha, soprattutto, valore di manifesto e di resistenza, poichè il Pansori, un'arte ormai in declino, è il tema principale di questo melodramma. Dongho e Songwha vagano, con il loro padre adottivo, da un villaggio all'altro della Corea, perpetrando così la tradizione orale e popolare del Pansori (ed è soprattutto il canto ad occupare la maggior parte delle scene e ad imporre al film il proprio ritmo). L'autore ne rispetta parole e musica, evidenziando il difficile apprendimento di quest'arte, iniziato durante l'infanzia. Il Pansori esprime "l'anima della Corea", troppo spesso oppressa sia dall'invasione giapponese che dall'occupazione americana. Lo si deduce dalla breve scena in cui uno swing americano si sovrappone al canto di Songwha; ma è nel rispetto dei dettagli che il regista svela la peculiarità musicale del Pansori. Grazie alla sua interprete, che non è mai doppiata, il canto ci seduce grazie alla sua autenticità e al sommesso dolore: anche il tamburo, infatti (unico accompagnamento alla voce), viene riprodotto con assoluta precisione. Con scrupolosa autenticità, il regista si concentra sugli archetipi culturali della nazione coreana: da qui, il senso di atemporalità che ogni sequenza emana. Tradizioni, rituali e vita quotidiana ci vengono restituiti con una minuziosità tale da mostrare, nel modo più legittimo, il declino della civiltà rurale coreana.
Primo film di Im Kwon-taek ad essere distribuito in Francia, La Cantante di Pansori rappresenta fedelmente l'universo cinematografico coreano. Ritroviamo, infatti, i temi dell'errare, della miseria e il forte senso del melodramma (già presente in Adada, storia di una sordomuta vagabonda, o in Una madre in affitto, film imperniato sul commercio di bambini). Tuttavia, la costruzione delle scene appare meno rigorosa; la parte finale - il ritorno al presente, in cui il punto di vista di Dongho viene abbandonato senza spiegazione alcuna, spezzando il nostalgico senso di dolcezza narrativa - risulta infatti di difficile comprensione.
La Cantante di Pansori punta essenzialmente al piacere sensoriale: le lacrime sono più forti delle parole, mentre l'inquadratura di un paesaggio mostra semplicemente (più che citare) il vagabondare dei personaggi. Grazie ad una regia fluidamente classica e al diapason delle antiche canzoni, l'emozione è onnipresente. Scorgiamo una messa in scena dell'orizzontalità e della contemplazione, che fissa con sapienza le linee delle montagne e delle campagne per meglio catturarne lo scorrere del tempo. Tuttavia, ciò che più impressiona dello stile del regista, è la sua abilità nell'avvicinarsi ai personaggi mediante carrelate circolari, nel fissare le espressioni degli attori restringendo l'inquadratura e nel riprenderne i volti in primo piano. Im Kwon-taek è capace di creare momenti di grande intimità: il suo obiettivo è infatti di raccontare nel miglior modo possibile la violenza delle emozioni. Le inquadrature (la cinepresa è a livello del suolo, per riprendere i personaggi che cantano seduti per terra) creano una forte sensazione di immobilità e serenità; la cinepresa si ferma solo sugli sguardi, come in una delle ultime scene del film, capace di svelarci tutta la raffinatezza dell'arte dell'autore. In questa scena, Dongho ritrova Songwha durante un ultimo brano musicale: lui al tamburo e lei al canto, seduti l'uno di fronte all'altra su di un grande tappeto. Ripreso in profondità, lo spazio sembra impenetrabile. La cinepresa scende poi lentamente per fermarsi accanto ai corpi e stringerli in un abbraccio amoroso, riducendo la distanza mediante alcuni movimenti circolari. Fratello e sorella sono ormai un'entità unica.
(Sophie Bredier in Cahiers du cinéma, nâ 497, pp. 53 e 54)