Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Cimes - LAB TEATRO 1998
 

Incontri Seminari Laboratori
edizioni precedenti

 

TEATRO
1998/99

Laboratorio di critica teatrale

L’ARTE DELLO SPETTATORE CONSAPEVOLE

A cura di Massimo Marino, con interventi di Luigi Gozzi e di Gianni Manzella

TESTI

 

Presentazione di Massimo Marino

Recensioni dei partecipanti

 


 

Presentazione di Massimo Marino(*)

Un’arte in via di estinzione, la critica teatrale?
Guardare, soppesare, confrontare, giudicare…
Espulsa dai quotidiani, sui quali rimane spazio solo per la presentazione di eventi spettacolari e personaggi di supposto grande richiamo; in crisi interna di ragioni d’essere; sostituita dalla chiacchiera paratelevisiva.
Ha un senso un "laboratorio di critica teatrale" oggi ?
Ha un senso. In questo panorama poco consolante sempre maggiore è la richiesta di spettacolo dal vivo e di informazione e di riflessione sul teatro, la danza, le arti della scena. Nuovi spazi si aprono nella stampa locale e nelle radio (e anche nelle televisioni, con alcune sperimentazioni e con la prospettiva dei canali tematici); nascono nuove riviste ("ART’o" e "Scena<e>") e riviste già consolidate si rinnovano e allargano la sfera dei loro interessi ("Prove di drammaturgia", "Hystrio" e altre).
Ha un senso imparare a guardare lo spettacolo, analizzarlo. Ha un senso provare a capire profondamente le ragioni degli artisti, ricollegandole agli avventurosi percorsi del teatro del Novecento.
Ha un senso formarsi un punto di vista, collocando il singolo spettacolo in una cultura del teatro, arte antagonista del corpo e del confronto dal vivo. Cogliere l’unicità dell’evento. Imparare a ridare il sapore della cronaca, lo stupore e il ragionamento.
È necessario tornare a guardare per vedere a fondo; è importante descrivere per scrutare anche nel ritmo della lingua, delle nostre lingue, nelle nostre capacità di osservazione, passione e indignazione e nelle risorse del teatro come arte della comunicazione e della convivenza.
Sono stati più di venti gli studenti, di diverse facoltà, che si sono iscritti al laboratorio presentato da questo scritto. Il lavoro è durato da novembre a marzo: due incontri preliminari e metodologici prima di Natale e poi da gennaio regolari sessioni di lavoro di due ore con cadenza settimanale. Un lavoro principalmente pratico, ma anche di riflessione sulla storia della critica e sui modi in cui si fa e si può fare critica oggi.
Gli studenti, per essere ammessi, hanno presentato una breve critica su uno spettacolo visto. Insieme si sono poi individuati alcuni lavori da vedere, recensire, approfondire tramite incontri e interviste con gli artisti. La "personale" della Compagnia Pippo Dalbono, presente nella stagione della Soffitta (Centro di promozione teatrale dell’Università), è stata seguita in modo particolare. Gli scritti che seguono danno conto del lavoro del laboratorio nelle sue diverse fasi. Si tratta di vere e proprie recensioni di diversa lunghezza e con differente impostazione, ma anche di appunti in attesa di stesura finale e di differenti esercizi (descrivere uno stesso spettacolo in trenta e in sessanta righe; affrontare opere con diversi punti di partenza, basate su una drammaturgia testuale o d’attore, ecc.) .

(*)Massimo Marino è stato critico teatrale dei quotidiani "L’unità" e "Mattina Emilia Romagna". Attualmente collabora con la rivista "Hystrio". Con Gianni Manzella (critico del "Manifesto") ha fondato l’Associazione Culturale ART’o che edita l’omonima rivista di cultura e politica teatrale, diretta da Gianni Manzella.


Recensioni dei partecipanti

LENZ RIFRAZIONI

ROMEO AND JULIET

LINK

2-3 DICEMBRE 1998

Quattro corpi di donna accartocciati su pedane mobili, il ricordo della femminilità oscurato da grembiuli e cappelli, così le attrici del Lenz Rifrazioni attendendo immobili sulla scena che il pubblico prenda posto. Impalcature di legno montate su rotelle e coperte da sacchi dell’immondizia chiudono sul fondo lo spazio dell’azione, la "Sala bianca" del Link. Per il resto lo spazio è vuoto e asettico, funzionale al carattere metaforico che avrà che assumerà nel corso dello spettacolo. Il Romeo e Giulietta è inscritto nel nostro immaginario collettivo europeo come una romantica e tragica vicenda di amore giovanile, e probabilmente il memorabile allestimento di Peter Brook nel 1970 rimane l’unico ad aver mantenuto lo spirito originario del dramma sottraendolo alla banalizzazione. Quella dei luoghi comuni è un’impasse che difficilmente si può eludere senza cadere in nuove retoriche. È infatti l’operazione drammaturgica di Federica Maestri ricorre a strategie narrative che sono ormai forme stereotipe del contemporaneo: composizione a brandelli, assenza di linearità narrativa, interpolazione, nel testo-matrice shakespeariano, di brani appartenenti ad altre opere. Non penso sia fuorviante vedere in questo lavoro una radicalizzazione del percorso seguito da Bene nelle sue messinscene dell’Amleto, anche se il Lenz appartiene a quel genere di teatro che non è disposto a riconoscere modelli predeterminati e autoreferenziali. La scrittura registica è apparsa comunque compatta e pulita, composta come suite per quattro donne e una bambina.

Davanti a noi si svolge un dramma senza attori. Si muovono sulla scena solo simulacri di protagonisti, con i loro fantasmi amorosi e sociali e con il loro dolore di creature disperate e sole. Il ruolo è negato. A turno le interpreti evocano i versi che parlano dell’amore infelice, versi di Shakespeare, di Lenz e di Ovidio, uniti a creare un mosaico sonoro che tenta di restituire tutto il nodo tragico della vicenda attraverso i fenomeni di linguaggi diversi. Assistiamo così allo scavare la sostanza testuale e metrica di versi appartenenti a luoghi ed epoche differenti per ritrovare l’essenza primitiva e costante del mito che le accomuna. Il mito senza tempo di Piramo e Tisbe narrato da Ovidio nelle Metamorfosi si fonde al dramma shakespeariano e a quello di Jakob Lenz per rendere la cifra dell’universale. Lo spazio della rappresentazione è così tutto il mondo: Tisbe e Giulietta sono tutte le donne.

A mio avviso la maggiore intuizione del Lenz nell’ideazione di questo Romeo and juliet risiede nel risalto dato alla componente erotica in uno settacolo che è apoteosi di donna e insieme annichilimento dell’identità sessuale nella sublimazione del corpo androgino. Ciò rende possibile ad una stessa attrice di incarnare indifferentemente Romeo o Giulietta senza cadere nella retorica dell’en travesti. L’istanza di rappresentazione non risiede tuttavia nel rapporto di coppia quanto piuttosto nel soggetto-donna. Non è il binomio Romeo-Giulietta a caratterizzare lo spettacolo.

Romeo non esiste. Siamo innamorate di un sogno che fu di un’amante bambina. Giulietta non è morta. Dorme sognando di lui. Giulietta è la vita bambina che indossa abiti da prostituta e depone ai piedi del pubblico i cadaveri di tutte le allodole. Romeo non è qui. L’allodola non canta più per svegliare il giorno. L’allodola è morta e il suo corpo giace nel grembo di Giulietta bambina. Così il verso non si libra, leggero, dalle bocche degli amanti, ma è suono arcaico, strozzato, ed il solo evocarlo è dolore. La bambina che sfonda il tormento dell’amore abortito e penetra nel mondo dell’eros. Vita bambina, parola pura, sfuggente alla legge del divenire. Intorno è caos primigenio di forme mutanti. Lo spazio di partenza si organizza intorno a un centro vuoto dove progressivamente si accumulano simulacri di oggetti. Non c’è ordine: la logica della superficie pulita è indifferente a questo allestimento. A tratti, svogliatamente, un’attrice "trascina via i cadaveri", nella migliore tradizione shakespeariana. Lo spazio mutevole, in continua progressione. Tutto partecipa all’estetica del movimento, anche gli oggetti e gli elementi della scenografia descrivono questo processo vertiginoso e inarrestabile che condurrà a mostrarci Giulietta morta, unico momento mimetico dell’azione. Giulietta giace, le mani incrociate sul petto, ma è solo un elemento incidentale nell’economia della scena. Altre attrici svolgono altre azioni, perpetuamente monologanti, o forse ognuna rappresentando, con modalità differenti, quell’unica tragedia.

Annalisa Sacchi


 

ROMEO AND JULIET di LENZ RIFRAZIONI

Tragitragedia s.f.

1 (neologismo) Componimento drammatico in cui le ambizioni sperimentali moltiplicano, sia appositamente che involontariamente, la tragicità della classica tragedia rifatta. Dal punto di vista fenomenologico, ciò accade perché si introducono le nuove metodologie e le tematiche nell’interpretazione e nella drammaturgia di tragedie classiche. Spesso viene prodotta con un basso budget. L’audio d’avanguardia e la sedia scomoda sono due opzioni preferite. È vivamente sconsigliato criticarla in un modo esplicito e realistico. 2 (fig.) Fatto tragitragico.

Al Link, è andato in scena un ambizioso lavoro di una compagnia di Parma, LENZ RIFRAZIONI. I coraggiosi organici del gruppo parmense , questa volta, hanno messo sul tagliere una tragedia di Shakespeare, ROMEO AND JULIET e l’hanno tagliata con uno spirito dal cuoco di nouvelle cuisine.

Allora com’era la cucina parmigiana? Sul palcoscenico c’erano cinque attrici tra cui c’era una ragazzina, quattro carrelli semplici e una scenografia girevole con un telone blu in vinile. C’erano anche Romeo, Giulietta, cani, uccelli e pesci che parlavano in inglese, in italiano, nei versi di animali e nel silenzio. C’era anche qualche pezzo di un testo shakespeariano. La cucina è stata servita in una maniera piuttosto speciale, particolare, astratta e libera, ma il gusto era tragico. Non era affatto disgustoso né squisito, ma era semplicemente tragico. Infatti quando sono uscito dal Link avevo la pancia piena di tragedie e pesavo, forse, due chili in più.

Tsuyoshi Nakano


Fragili resistenze di parole

Presentato a Bologna mercoledì 2 e giovedì 3 dicembre al Link Project, Lenz Rifrazioni esprime nell’opera Romeo and Juliet la sua poetica artistica di riconosciuta originalità. Questo gruppo d’avanguardia del Teatro contemporaneo disegna un’opera di forte impatto visivo capace di creare.

Nel tentativo di innovare la propria poetica e il proprio linguaggio, la compagnia procede lungo il sentiero della sperimentazione e si inoltra nel difficile cammino di riscrittura di una delle più famose tragedie di William Shakespeare. È dentro ad un racconto di cui, dalla platea, non si riesce a leggere la trama che si svela la messinscena del testo classico fino ad ora considerato irrapresentabile per le difficoltà insite alla sperimentazione drammaturgica e linguistica cui il teatro Lenz solitamente aspira.

Sul pavimento di cemento del Link il lavoro dei teatranti sveste ogni sillaba di questo grande testo poetico dal potere della Letteratura per farsi coscienza parlante. In scena c’è la prima lingua con cui è stato composto: l’inglese antico. Nella difficile, quanto sottile elaborazione delle parole, la scelta si rivela estrema, radicale. La voce delle attrici è capace di dar vita al gesto, di dar corpo alla voce; essa penetra là dove ha intenzione di andare. Il suono di queste espressioni smonta e riduce a brandelli il potere delle parole che a malapena si riescono ad udire, che a fatica adempiono al loro compito di raggiungere la comprensione. Si assiste ad una serie di implosioni ed esplosioni del corpo che si mostra gabbia dalle dubbie forze repressive. Esso, disorientato, nel tentativo di evadere s’infrange e comunica attraverso un linguaggio crudo e animale. La tragedia di questo amore è rivelata e compiuta nella metamorfosi a cui i corpi sono sottoposti nel tentativo di raggiungerci. Qui la poesia può farsi materia e i versi, scanditi con durezza, asprezza, sono spezzati e diventano atti, gesti improvvisi. La parola nel corpo dell’attore rimane morente e inservibile; la passione che stritola i corpi spinge verso la fine.

La ricerca verso cui Lenz tende è in grado di scoprire quel percorso d’arte indicato da Jerzy Grotowski come profonda dedizione allo scavo nella storia del fare teatro alla ricerca di un punto zero da cui potere ripartire ad inventare il rapporto tra chi crea tale dimensione di ombre vive. Egli insegnava: "Se viviamo pienamente, la parola nasce dalle reazioni del corpo. Dalla reazione del del corpo nasce la voce, dalla voce il linguaggio".

Lo spettacolo ha inizio dentro al buio, ma ai suoi limiti… sull’orlo di deboli richiami alla luce. Inseguendo sussurri di voci che scivolano in canto, quattro figure in ombra attendono sommesse e ricurve un risveglio. L’inizio è un inganno, è l’essenziale che schiaccia il resto quando il motore della storia d’amore investe le fragili resistenze delle pur belle parole.

Federica Furlanis


COMPAGNIA PIPPO DELBONO

 

Incontro con la compagnia Pippo Delbono. Palazzo Marescotti, 11 Marzo 1999

  1. "Persone che sognano delle cose assurde".
  2. Prima di ogni altra cosa, c’è la faccia di Pippo Delbono. Avete presente la faccia di Pippo Delbono? Dovreste; dovreste aver osservato il sorriso che passa al ghigno feroce un momento dopo l’espressione di trasognato candore, gli occhi che vi fissano dal bordo del palcoscenico quando ancora un istante più tardi, pacificato il corpo dalla rabbia vitale che il più delle volte lo anima, vi parla pacato guardandovi fisso, con espressione così luminosamente vera che si fa fatica a pensare di avere un attore davanti.

    La sincerità, da questo concetto apparentemente semplice parte tutta l’esperienza del teatro di Pippo Delbono; la faccia che abbiamo visto sul palcoscenico è esattamente la stessa che ci troviamo davanti a questo incontro con la compagnia: forse è leggermente più riservata, questa, e gli occhi più sfuggenti, anche se ugualmente magnetici. È visibilmente poco a suo agio, nel ruolo serioso del conferenziere; se lo spazio lo consentisse, eviterebbe probabilmente di sedersi dietro ai microfoni anche se è chiaro, come pacatamente spiega nella breve introduzione Pepe Robledo, compagno d’arte di Delbono dall’esperienza nell’Odin dell’83, che è lui quello che parla, il regista anche fuori scena, colui che, come avviene in palcoscenico, si incarica di fornire un raccordo, di unire con un filo invisibile di poesia e ironica incertezza tutte le variegate, talvolta caotiche esperienze umane e teatrali che animano la variopinta compagnia. Una compagnia singolare, dentro e fuori dal palco: può capitare, introducendosi dietro le quinte dopo lo spettacolo, di essere accolti dalla grazia di Bobò, sordomuto che capisce e si fa capire, e che senza neppure il bisogno di chiederlo, ti accompagna felice nei camerini, dove si può anche avere l’impressione di essere capitati nel bel mezzo della compagnia di attori di Amleto; un Amleto in cui, però, la follia del principe di Danimarca non sia la malattia da guarire, ma una "differente normalità" da avvicinare con interesse. È una caotica armonia quella che regna in questo singolare insieme di esseri umani. Persone diverse, come spiega Delbono durante l’incontro, che non si sarebbero mai incontrate altrimenti e che, proprio per questo motivo, creano sintonie strane tra di loro, cercano l’adattamento reciproco che può talvolta dar luogo a disagio, ma che alla fine si rivela fonte di esperienza. Alla base del teatro, secondo Delbono, deve necessariamente essere questo momento di scambio: parla di "processi di sincerità, anche quando si hanno delle ferite forti", perché questo "permette di andare in profondità": nei rapporti umani, prima di tutto, per poi lasciar confluire l’esperienza, con naturalezza e autenticità, nel momento scenico. Delbono tende a sottolineare fortemente questo aspetto, lasciando intuire in primo luogo un proprio personale coinvolgimento in tal senso; egli è la prima di quelle "persone che sognano delle cose assurde" che, nella loro costante instabilità, costituiscono la base stabile del suo teatro.

  3. "Vabbè, posso stare anche con uno che puzza".
  4. L’incontro tra le persone, nella vita, non è mai una cosa troppo facile; nell’esperienza così singolare della Compagnia Delbono, si diceva, lo è ancora meno. Soprattutto dopo l’inserimento nella compagnia di personaggi particolari, provenienti da esperienze difficili, socialmente ai margini e, spesso, di grande sofferenza. L’estrema naturalezza che oggi la maggior parte degli spettatori percepisce, nell’incontro scenico tra quelli che Delbono stesso ha definito "due popoli di barbini", e che è d’altra parte chiaramente riscontrabile negli incontri extra-teatrali, non è stata raggiunta senza i momenti difficili che nascono da una totale dedizione. Gustavo Giacosa, giovane attore argentino che da anni presta la sua figura sottile e la voce profonda dalle insinuanti modulazioni per dare corpo alle più sorprendenti apparizioni del teatro di Delbono, parla del disagio tangibile che gli attori cosiddetti normali provavano di fronte ai nuovi arrivati; con disarmante naturalezza illustra in poche parole un percorso travagliato, fatto anche di gelosia verso questi alieni che improvvisamente catturavano l’attenzione del pubblico, intaccando il naturale egocentrismo degli attori di professione. Con lieve ironia fa notare che è Bobò, in quel momento, a sedere accanto a Pippo con un microfono davanti, e ad intervenire a piacimento sulle questioni che più intende sottolineare; l’incantevole paradosso di un uomo privo di parola che parla ad una conferenza universitaria appare qui del tutto naturale; gli interventi di Bobò sono di straordinaria ed eloquente chiarezza, e di fronte a questo, ovviamente, nessun disagio o mania di protagonismo può resistere a lungo perché. Conclude Giacosa, ogni singola personalità è in grado, nella compagnia, di esprimere se stesso secondo le proprie possibilità e, soprattutto, con la gioia che scaturisce dalla libertà di poterlo fare: "giacché non c’è nessuno di voi, per quanto modesto e umile, che non abbia negli occhi un nobile lampo…" grida la voce di Delbono in uno dei momenti centrali dell’Enrico V.
  5. "Bhe, basta cò stò training…"

Le modalità tradizionali non rientrano molto nello spirito complessivo della compagnia, lo si è capito; la ricerca della spontaneità, del lasciare che le cose accadano, riguarda 0anche l’aspetto tecnico: a chi gli domanda dei modi di preparazione degli spettacoli, del lavoro strettamente attoriale, Delbono risponde ironicamente che di solito le scuole di teatro insegnano a diventare dei personaggi, anche al di fuori del palcoscenico. Si capisce come questo sia più o meno l’esatto opposto di ciò che egli ricerca: spiega del tentativo di portare in scena persone piuttosto che personaggi, logica conseguenza del considerare il palcoscenico come luogo di massima sincerità in cui si possa esporre, se possibile, in maniera più totale e veritiera che nella vita reale.

La realtà perseguita nelle azioni, e naturalmente la libertà che è alla base di tutto il lavoro, sono fonti di un teatro che non ricerca certezza: lo stesso Delbono di trova spesso, e ancor più negli ultimi spettacoli, al centro di situazioni che esasperano il dubbio, la contraddizione, talvolta il caos; le esperienze umane di Delbono stesso, che hanno alla base degli incontri tanto fondamentali da investire macroscopicamente lo sviluppo del suo percorso artistico, hanno accentuato tali aspetti; ed è come se la sua capacità, presente comunque anche in passato, di rendere viva, con la forza della sua presenza scenica e della parola, l’incontro fra le diverse esperienze che nel suo teatro convivono, si oggi usata con una doppia valenza: il dar senso alla scena e ai personaggi, da parte dell’attore Delbono, viene ancor più che in passato compensato dalla scena e dai personaggi stessi che, come in un grato scambio, sanno dar senso alla vita del Delbono uomo. In una ambivalenza che è contraddizione, come è alla base del suo teatro e della vita stessa, ma anche e secondo le stesse esigenze, crescita e arricchimento interiore per chi –attore o spettatore- vi prenda parte.

Marco Colucci


ENRICO V DA WILLIAM SHAKESPEARE, REGIA DI PIPPO DELBONO

ARENA DEL SOLE, SALA INTERACTION

13-03-1999

Innumerevoli tentativi sono stati fatti nell’ambito della storia della critica per giustificare la diluita struttura cronologica dei drammi storici di Shakespeare; fu sempre osservato che questi drammi, pur legati ad un tema con forza centrifuga, non furono concepiti intorno ad una struttura unitaria e quindi adatta alla messinscena.

Il pubblico elisabettiano, d’altro canto, si aspettava proprio questo tipo d’adattamento

Cronachistico del dramma storico, con abbondanza di riferimenti epici che avrebero spaziato dal lontano passato verso un futuro sempre più glorioso. Il poeta era sicuramente consapevole dell’orizzonte d’attesa del suo pubblico. Pippo Delbono sembra essere altrettanto consapevole di cosa ci aspettiamo noi, pubblico di contemporanei, da un dramma epico e per contestualizzare l’idea centrale dell’Enrico v non poteva scegliere spazio scenico più idoneo: uno sfondo scenico nudo, quale quello della sala Interaction dell’Arena del Sole, quasi diluito nello spazio riservato agli spettatori, in parte seduti su poltrone, in parte seduti per terra su cuscini. Pippo Delbono è riuscito, in un tale contesto scenico, e con una quasi totale assenza d’allestimento, a trasmetterci la forza travolgente che scaturisce dalle parole e dall’immaginario dell’Enrico v.

La sequenza cronologica del dramma originario è stata condensata attorno al tema portante del dramma che ne costituisce anche la forza centrifuga; lottare con tutte le proprie forze inseguendo un ideale all’apparenza irraggiungibile, o almeno reputato tale da chi non crede nella forza degli ideali. Per Enrico V tale ideale si materializza nella conquista della Francia e la forza che gli si oppone è la pragmatica e consumata corte francese; quest’ultima è composta da una classe dirigente talmente cinica e corrotta da renderla cieca alla forza vitale e irrefrenabile di coloro che sentono di essere nel giusto e lottano con tutte le loro forze per imporsi. La corte francese viene rappresentata come luogo del decadimento fisico e morale, venera una specie di divinità equina che è a sua volta un prodotto artefatto e deviante della propria classe; una maschera di cavalla bianca agghindata di tulle bianco e sventagliante con civetteria un ventaglio rosso e bianco.

Enrico ci appare in scena dapprima solo vestito con jeans e canottiera e con in mano una birra; si allude alla sua gioventù scioperata e guidata dal re delle taverne Falstaff, ma già lo vediamo proiettato verso la sua imminente maturità. Quando riappare in scena sembra essere stato folgorato da un sogno, la conquista della Francia; non solo avrà abbandonato la birra ma indossa un giubbotto di pelle che evoca un’armatura e un cerchio di plastica in testa, una corona; il suo ruolo regale è svolto con una forza dirompente che instilla coraggio e orgoglio sia agli altri personaggi del dramma che a noi spettatori; la passione dell’inseguimento di un sogno impossibile ha la forza di unire pubblico e attori in una emozione unitaria grazie alle parole travolgenti di Enrico V, la cui emissione gli costa una tale fatica fisica da soffocargli il respiro.

La forza persuasiva delle parole, della musica e dei corpi ci permettono di localizzare gli avvenimenti nonostante lo scenario completamente spoglio. Gli attori che interpretano i personaggi inglesi indossano abiti del nostro quotidiano, jeans e magliette, per arricchirsi semplicemente di una giacca di pelle e di anfibi quando sono in guerra. La corte francese veste abiti contemporanei ma eleganti: giacche e pantaloni di gabardine e, indice della loro lussuria, un foulard rosso al collo. I pochissimi oggetti che compaiono in scena sono essenziali e quindi dialettici e polisemici; un secchio con uno strofinaccio accompagna il servitore fedele in tempo di pace, quando la guerra non ha ancora alterato il ritmo regolare della società; il secchio viene consegnato per ricevere un cappotto/armatura e un bastone/arma. Ma i veri evocatori dell’immaginario scenico sono i corpi degli attori che si distribuiscono, si ammassano, sfilano, mimano e danzano creando icone significative e trascinando l’azione tragica.

La tensione epica degli inglesi contrapposta allo scetticismo della corte francese ci coinvolge ripetutamente permettendoci di contestualizzare quel tipo di opposizione di forze nel nostro vivere quotidiano e facendoci riflettere sul nostro atteggiamento rispetto ad esso; ci pare che così Pippo Delbono abbia voluto trasmettere la sua idea di epico ad un pubblico di spettatori di oggi.

Di Capua Maria

 

 

LA RABBIA

"Ciò che mi colpisce di Pasolini sono proprio le contraddizioni" (P. Delbono)

Nel novembre del 1995 la compagnia di Delbono presentò a Roma "La Rabbia", spettacolo dedicato a Pier Paolo Pasolini in occasione del ventennale della morte del poeta friulano, quest’anno, lo stesso spettacolo, è a Bologna.

Gli spettatori scendono nella sala Interaction dell’Arena del Sole, sul palco c’è già Pepe Robledo, fedele collaboratore di Delbono, con addosso una tuta da lavoro blu, che cosparge la scena con della segatura; le luci accese, il pubblico parla,quando all’improvviso ecco Pippo che irrompe nella scena ed inizia a raccontare, o meglio a leggere: Ricorda, nel pensare a Pasolini, il padre e il suo modo di essere sempre fuori posto in tutte le circostanze; ricorda di aver letto del poeta friulano che si era presentato ad un premio letterario sporco, dopo aver giocato a pallone, e rideva. Così attacca Delbono, con un pezzo pieno di sentimento e impregnato di ricordi passati che, pur essendo distanti, gli stanno addosso più che mai. Lo spettacolo è basato su contrastanti azioni simultanee, in particolare la scena dell’abbagliante Carrà: un ragazzo su altissimi tacchi a spillo, stretto in un abitino luccicante è posto in primo piano mentre canta e balla uno dei famosi pezzi della soubrette; sul fondo del palco, in un angolo buio, un desaparecido torturato supplica il suo boia di giustiziarlo: "Spara!", il tono sale "Spara!", la voce si fa più alta stridente "Spara!", l’atmosfera brucia di sofferenza e lo spettatore si trova spiazzato, non sa dove volgere lo sguardo. Il contrasto è evidente, il sorriso suscitato dallo sproporzionato Carrà, non è mai stato così amaro; la platea ne resta turbata, incapace di scegliere tra una risata divertita o un pianto angosciato. Anche qui, come negli altri spettacoli della compagnia, fondamentale è la musica, che diventa un elemento drammaturgico, creatrice di intensi contrasti; essa è, nella maggior parte dei casi, molto alta, a tal punto che la platea ne percepisce forti vibrazioni; e in più occasioni pare fare a gara con la voce dell’attore, per chi riesce a farsi sentire di più. Quindi, con la musica, è anche la voce a farsi molto sentire; soprattutto quella di Pippo Delbono che, nella sua toccante performance, più volte ripetuta, urla a squarciagola, impreca ed accusa; il suo viso ormai paonazzo, sicuramente arrabbiato ma anche stremato. Insomma PippoDelbono si rifà alle parole e alle immagini di Pasolini che ha ritrovato nella sua vita e nella storia delle persone che vivono con lui. Il lavoro che ne è uscito non è teatro; l’attore non interpreta, non recita, ma si avvicina alla vita e quindi al mondo pasoliniano. Qui si realizza l’obiettivo del regista, egli vuole che i suoi attori siano persone e non personaggi, nella vita così come sul palcoscenico.

Chiara Fava

 

 

GUERRA di Pippo Delbono

Guerra mondiale come la guerra personale, interiore, del singolo che combatte per il proprio spazio. Le difficoltà di un barbone che tenta di vivere insieme "agli altri", le ingiustizie subite da un uomo etichettato come "pazzo", la tragedia degli uomini che fanno la guerra contro i loro oppressori. E Guerra è anche il titolo dell’ultimo lavoro di Pippo Delbono, artista genovese perennemente in viaggio. A Bologna Delbono si è presentato portando quello che è un lungo percorso fatto si di spettacoli, conferenze e seminari ma ancora prima formatosi dall’esperienza di un uomo. Con la sua compagnia, conosciuta come singolare, è approdato a Guerra. "Una grande rivoluzione non può nascere che da un grande sentimento d’amore" è la frase che accompagna il titolo ma anche gli attori in scena. Gli attori, gli uomini e la loro vita sono il nucleo costante delle fatiche di Delbono. Fatto è che questo teatro di vita non porta testimonianze ordinarie ma, al contrario si fa promotore di situazioni straordinarie, marginali, spesso estreme. Gianluca, Nelson, Bobò e Armando, alcuni degli attori sono interpreti che parlano in silenzio perché i loro corpi segnati possono, tristemente, parlare per loro. E Guerra, evolvendosi tramite l’esposizione di questi libri aperti, parla, partendo dalla guerra nella ex-Jugoslavia, delle guerre interiori che l’uomo costantemente deve combattere. "C’è un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace"(dall’Ecclesiaste). Qui sta Delbono, nel contrasto, nella gioia ottenute risalendo dalla disperazione, nella vita che può essere incubo quanto felicità. Guerra non è esattamente uno spettacolo teatrale, è più una testimonianza di esistenze marginali, abitudinariamente rimosse dal pensiero comune. Si sviluppa per blocchi apparentemente confusionari quest’opera, in cui a turno tutti gli uomini-attori si raccontano, si perdono nel dolore della forma per tornare, in un secondo momento, ad essere quello che lo spettatore vede. Gianluca, ragazzo down, si esprime in una precisa esibizione rock, vestendo i panni di un pagliaccio felice che racconta i suoi sentimenti; Nelson, il barbone professionista, canta a volumi variabili mentre Armando, poliomelitico, esegue una danza sulle sue stampelle. Nascono salotti, locali, luoghi immaginari che si generano da una scena sostanzialmente vuota. Sono le gerarchie a comparire ora sul palco, sono i portaborse succubi come Bobò costretto a seguire una signora portandole la valigia o gli inservienti sfruttati come Gustavo Giacosa nei panni di una cameriera (con tanto di vestitino di pizzo a coprire i suoi due metri di altezza), sono i forti che soggiogano i più deboli; ma nel mondo di Delbono, assistito costantemente da Pepe Robledo, le cose cambiano, scoppia il caos assoluto, si sommano gli inseguimenti e le urla, sgorga il sangue, gli oggetti volano spaccandosi, i corpi, sofferenti si scontrano: è la rivoluzione, è la Guerra. La confusione cresce spaventosa, le statue corrono, gli uomini hanno i trampoli, una grassa donna si strappa i vestiti di dosso, il sangue macchia i visi dei tiranni, il salotto aristocratico, come tutto il resto, è completamente devastato in un’aria di tremendo terrore. Rimane la desolazione della vita annientata. Si alza una voce: è Pippo Delbono che inizia a raccontare la vicenda di Bobò (Vincenzo Cannavacciolo), della sua vita in manicomio e della sua vita riconquistata uscendo da quel carcere. Mentre il racconto prosegue è Bobò stesso che mima la sua storia raccontando il suo amore per le cose che vede e di come amerà giocare per sempre come un eterno bambino. Arriva sul palco il clown Gianluca e con lui parte in sottofondo "Il vecchio e il bambino" di Guccini, la "strana coppia" mima il brano, per concludere lo spettacolo scendono in platea a stringere le mani di un pubblico entusiasta.

Alessio Guerra


Teatro del Lemming

DIONISO Tragedia del Teatro

Spettacolo per nove spettatori

PROLOGO: "La città si deve rendere conto, anche contro voglia, di che cosa ella è priva finché ignora le orge del mio rito e non ha parte ai miei Misteri".

La sensazione è quella del sequestro. La porta della sala teatrale è chiusa di fronte a noi, nove spettatori in attesa di accedere al rito, seduti a semicerchio su nove sedie rivolte verso quella porta. Nove spettatori spauriti, che saranno tra poco coinvolti anche contro voglia –ed, in qualche caso, a loro insaputa- nella forma più primordiale e divorante del Teatro stesso. E poi la porta si apre, dopo un attimo di attesa esce il regista Massimo Munaro, che sorride quasi imbarazzato di fronte a nove occhi che lo scrutano ed intuiscono, per qualche strana ragione, che è lui, con quel sorriso in verità assai poco ingenuo, che di lì a poco si trasformerà in sequestratore. E come tale, difatti, egli inizia a comportarsi: ci prega –ma è chiaramente un’ingiunzione- di toglierci le giacche, gli orologi, le scarpe; ci prega di abbandonare i nostri rifugi spazio-temporali. Ci introduce, dopo tali adempimenti, nel buio ambiente dove il rito avrà luogo. Ci fa sedere su di una panca, e poi ci abbandona, perché la celebrazione deve avere inizio.

PARODO: "Beato chi ha il demone amico e, iniziato ai Misteri, ne ha parte e fa pura la vita".

Il mito di Dioniso narrato nelle "Baccanti" di Euripide è alla base di questo spettacolo del Teatro di Lemming. Dioniso è il dio dell’ebbrezza, dell’abbandono, dell’uscita da sé e dalle proprie capacità raziocinanti. Dioniso era il dio del Teatro, della Tragedia che innalzava l’uomo verso Dio, che consentiva a ciascuno di abbandonare la propria umanità e di incarnarsi, per il breve tempo della rappresentazione, in una personalità sovrumana, onnipercettiva e onnipotente; divina, appunto. Dioniso era un dio temibile: il mito vuole che suo cugino Penteo lo avesse scacciato da Tebe per la pericolosità sociale dei suoi riti orgiastici. Riti che alla fine si rivelano dannosi per Penteo stesso il quale, nella pruriginosa volontà di osservarli senza prendervi parte, incorre nella vendetta del Dio, venendo divorato dalla sua stessa madre Agave in preda al delirio bacchico.

Siamo nove spettatori, e siamo Penteo, con la pretesa di voler assistere al rito senza parteciparvi.

DIONISO: "Le vuoi vedere riunite sulla montagna? PENTEO: "È quello che più voglio! E ne darei dell’oro! A non finire!"

Gli attori sono di fronte a noi, spettatori seduti come in un qualunque teatro: l’ambiente è buio, inquietante, rischiarato solo dalle poche candele che gli attori tengono in mano; una sottile gioia ghermisce lo spettatore, che per un breve interludio pensa di essere stato risparmiato e, come Penteo, ammesso al rito senza parteciparvi; di essere riuscito a penetrare in qualcosa di segreto e terribile, senza essere, tuttavia, costretto a prendervi parte. Ma non è così; e tale consapevolezza si infiltra, tagliente ed ambigua come la gioia di prima: serpeggia, soltanto, e neppure si può distinguere se sia sensazione inquieta, o soltanto l’estensione della felicità precedente. Comunque si manifesta, e poi si incarna visibilmente, quando Dioniso annuncia minaccioso la sua vendetta, ed ancora ci piomba addosso, con la carnale violenza di nove attori, di nove Baccanti, che schierati di fronte a noi, avanzano convulsi, compatti, al ritmo di una musica in inquietante crescendo. Lentamente intuiamo, comprendiamo quale tra loro sia destinato a noi, quale sarà la Baccante che per il tempo indefinibile della rappresentazione, ci trascinerà con sé, abbattendo il muro innalzato dal teatro moderno a difesa della ragione, e precipitandoci nell’irrazionalità primordiale del teatro dionisiaco. L’attimo della caduta arriva, ed è preciso, riconoscibile: abbandoniamo noi stessi nel momento esatto in cui, per la prima volta, incrociamo con timore famelico gli occhi della Baccante a noi destinata.

EPILOGO: "Puniamolo! E prima fagli perdere il senno, metti dentro al suo cuore il delirio che fa vano il pensiero".

Agli spettatori uomini si avvicina una attrice donna; alle spettatrici donne, naturalmente, un uomo. Si avvicinano, uomini e donne, affiancati, quasi a balzi, infrangono mura di distanze che non si pensava potessero essere infrante, mentre altri corpi, altre figure si muovono sullo sfondo, appena percepiti sebbene inquietanti. [E dove sarà il regista? E quel letto rosso sangue al centro del palcoscenico, quegli oggetti presaghi di sacrifici umani, quelle voci diffuse da altoparlanti, a cosa serviranno veramente? Perché quell’attrice in sottoveste, dagli occhi spiritati e dalla bocca crudele, si avvicina sempre di più, fissandomi? Faccio un rapido calcolo mentale: si, è lei, mi fissa inequivocabilmente, mi fissa e si avvicina a me…] I nove hanno in mano una candela, sembrano volerci offrire la sua luce, poi si illuminano il viso, illuminano il nostro, la spengono; danno inizio ad un contatto fisico, danno corpo alla sensualità latente che era in agguato, afferrano il proprio spettatore per le mani e lo trascinano con urla selvagge al centro della scena, nel mezzo vorticoso della sensualità che ormai dirompe e sconvolge, lo attirano, lo respingono, si fanno beffe di lui e poi lo gratificano. [La mia Baccante mi attira a se, e mi sussurra di seguirla; mi dice anche "io ti vedo mentre tu mi vedi"; mi getta in terra con forza, e con dolcezza mi immerge la mano in un catino d’acqua; pone la mano sul suo viso perché lo bagni completamente. Non smette un attimo di fissarmi negli occhi.]

Siamo nove spettatori e siamo Penteo che, sedotto dal Dio, si lascia guidare sul monte Citerone.

Ci abbandonano; l’attore o attrice che ci avevano attirato nel vortice della perdizione improvvisamente ci lasciano, per alcuni attimi a noi stessi, e inseguito nelle mani di una nuova attrice, o attore. E subentra lo spiazzamento, o meglio un nuovo e diverso spiazzamento, perché nel mezzo dello spettacolo, del furor d’immedesimazione in cui eravamo precipitati, il brusco cambiamento ci riporta sulla terra, frammisto ancora a schegge di finzione che procurano irrazionale odio verso quell’attrice [ma sarà stata poi veramente un’attrice? O era una Baccante?] che ci ha trascinato con l’inganno in quella immonda messa in scena…e poi di nuovo, sinistra, s’insinua la seduzione; e a pochi istanti dai nostri pensieri più lucidi ci ritroviamo di nuovo, Dioniso sa come, sul lato oscuro dell’irrazionale, seduti sul grande letto rosso sangue, intenti a gustare acini di uva, a subire carezze di una Baccante gemente che per di più ad un tratto ci lascia, per un nuovo cambio in cui questa volta agli uomini si accostano altri uomini che, come le donne con le donne, guardano, sfiorano, seducono, gemono. Finché torna lei; senza preavviso o spiegazione alcuna, senza neppure che ci si chieda perché, la prima Baccante torna ad abbracciarci, e noi di questo le siamo grati, e la seguiamo, e ci lasciamo adagiare sul letto, assieme ad altre voci e profumi e calori che sono adagiati assieme a noi, privi di memoria e della volontà di averne. Ed è nell’attimo del più profondo oblio che il Dio crudele attua la sua vendetta: la testa di Penteo piomba saettante sulle nostre teste, cade tra lampi di immoto stupore, si ferma, pendente da una corda, a poca distanza dai nostri occhi; Dioniso trionfante annuncia il compimento della sua vendetta, una luce accecante improvvisamente si accende sul letto, un applauso scroscia dalla parte del pubblico: tutti gli attori sono lì, in piedi, a gustare il trionfo del rovesciamento avvenuto. Una porta si apre; scrutati, disfatti, attoniti, gli spettatori superbi che volevano vedere senza essere visti vengono scacciati dal palcoscenico: gli attori devono riprendere il proprio posto, e noi questa volta non saremo ammessi a guardarli.

Marco Colucci


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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna