Significazione.10 Stampa

///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso

“Critica/cronaca.”
Intervista a Giulio Baffi su critica e semiotica teatrali (1)
di Luca Di Tommaso [PDF]



Giulio Baffi è critico teatrale alla redazione napoletana della Repubblica, Presidente dell'Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, Direttore artistico del Festival Benevento Città spettacolo, fa parte del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Eduardo De Filippo e della Fondazione Città Spettacolo, dirige la Collana Teatro della Guida Editore. Ha fatto parte del CdA del Teatro Stabile di Napoli, è stato docente di Storia e Tecnica della Regia all'Accademia di Belle Arti di Napoli. Ha fatto parte del Centro Teatro Esse, ha collaborato con la Nuova Compagnia di Canto Popolare ed ha diretto il Teatro San Ferdinando di Napoli. E' stato titolare della rubrica di critica teatrale de l'Unità e de il Giornale di Napoli, ha creato diretto il periodico di spettacolo Noi a teatro, ha collaborato e collabora con periodici e riviste specializzate quali Sipario, Stilb, Rivista del Cinematografo,Ridotto, Histryo, La voce della Campania, Itinerario, Napoli City . E' autore di pubblicazioni su vari argomenti dello spettacolo, ha ideato e curato numerose trasmissioni radiofoniche e televisive, rassegne teatrali e festival, ha realizzato mostre su aspetti e personaggi del teatro tra cui "Il Mito del palcoscenico" mostra permanente allestita nel ridotto del Teatro San Ferdinando di Napoli e "Nino Taranto ha 100 anni" in esposizione permanente al Palazzo Paolo V di Benevento.

LDT: Allora Giulio, la semiotica teatrale è nata tempo fa con in seno una polemica con ciò che dovesse costituire il suo oggetto, se il testo verbale, quindi i copioni, i drammi, oppure quello che in semiotica viene chiamato testo spettacolare, quindi lo spettacolo, il fatto teatrale di per sé, scenico. Dalle nozioni di base che ho, mi pare che anche la storia della critica teatrale abbia vissuto un contrasto al suo interno, che ci sia stato un passaggio a un certo punto, da uno studio più rivolto all'aspetto verbale, a quello più rivolto all'aspetto scenico, a un certo momento della sua storia. Te ne chiedo conferma, e se così, quando è avvenuto il passaggio?

GB: Il passaggio è stato lento e non indolore. Diciamo che nella prima metà degli anni '50 ha avuto sempre una critica attenta al testo. Se andiamo a ritrovare degli scritti di Spaini, o un primo Monticelli, o a Napoli di un Stefanile, troveremo un'attenzione assoluta al testo, cioè il teatro è analisi del testo, analisi di riferimento della sintassi letteraria, che poi viene rimodellata l'analisi rispetto all'attore, in qualche caso, in qualche modo al gesto dell'attore, per alcuni attori più forti, più decisi. Su Napoli Viviani, o De Filippo, dove il tono della voce, ma sempre legata alla battuta. La complessità della messa in scena non esce quasi mai. Attraverso questo articoli, noi non vediamo lo spettacolo. Vediamo l'attore che ci dice delle cose, ci viene stato raccontato per filo e per segno il passaggio logico o tematico. Racconto dettagliato, a volte fastidiosamente, della storia, analisi di come la storia viene scritta, se ascendente o vicina a Pirandello o più così più colì. E basta. Questo è lo spettacolo di cui la critica nei primi anni '50 dà conto al lettore. Perché poi da qualche altra parta uscivano fuori tutte le notazioni di cronaca, le presenze, le assenze, i comportamenti del pubblico facevano parte della cronaca mondan-culturale dei giornali. A metà degli anni '60 il teatro comincia a muovere qualcosa che non era stato pensato. L'italiano si sprovincializza, anche grazie alle operazioni che sono partite per opera anche del Piccolo Teatro di Milano. Comincia a guardare l'Europa, a guardare fuori e tutto questo provoca naturalmente l'esigenza di un confronto, un raffronto differente, nel vedere in una maniera un po' diversa. Come sempre, anche in questo caso i nodi estetici e i nodi storici si incastrano perfettamente. Arriviamo alla fine degli anni '60, col '68, e tutto viene rimescolato, viene rimescolata l'attenzione, viene evidenziato anche un comportamento, una risposta sociale. In Italia, in particolare, il panorama viene smosso dalle messinscene di Strehler, di Squarzina, di questa quantità di registi che mettono in scena spettacoli diversi dal solito... e nel frattempo si incomincia ad ascoltare la voce di un teatro che viene da fuori. E la punta forte, la punta di diamante, è il Living Theatre. Quando esso arriva in Italia, in particolare a Napoli, crea uno sconvolgimento nel pubblico perché la critica non è attenta, non coglie immediatamente questa cosa. La coglie Paolo Ricci, che su l'Unità era particolarmente attento a un ruolo sociale del teatro. Il Living arriva a Napoli chiamato da un gruppo universitario, quindi è chiaro che è un pubblico più giovane, più disponibile a vedere qualcosa di nuovo. Accadono anche comportamenti strani nel pubblico, strani rispetto alle abitudini. Il pubblico coglie l'invito a partecipare emotivamente e fisicamente, e questa è un'assoluta novità. Quindi chi scrive sui giornali coglie questa novità e anche l'anomalia della scrittura, l'anomalia della messinscena, in qualche modo è invitato, è costretto, intuisce che bisogna dire qualcosa di differente. Non va bene, non basta dire soltanto "il teatro". Sulla scia del Living, arrivano a Napoli anche altre compagnie teatrali. La compagnia dello Scenoir francese ad esempio, che ha sempre un carattere, un segno fisico molto forte. Nel frattempo si comincia a smuovere la ricerca teatrale, tutto quel grosso nucleo che cerca un nuovo linguaggio, accentua il lavoro del corpo. Accentuando il lavoro del corpo, l'attenzione dello spettacolo deve cambiare necessariamente angolazione. Quella fu una stagione di particolare interesse, perché tutto il lavoro del superamento della ricerca teatrale, sul superamento del linguaggio-parola a vantaggio del linguaggio-corpo provoca poi una generazione di attori analfabeti della parola e quindi la necessità di un recupero di questa capacità attoriale. E' difficile, alcuni studiano, altri ancora spingono avanti i vecchi attori di parola che diventano maestri nei pregi e nei difetti. Nel frattempo la critica incomincia a leggere lo spettacolo come rappresentazione sulla scena, s'incomincia a dar conto di ciò che accade, di cosa è la scenografia, di come sono i costumi, le musiche, di perché sono così piuttosto che in un altro modo, di come gli attori occupano, si muovono all'interno di un palcoscenico. Pian piano, impercettibilmente, una generazione di critici più giovani, avverte l'esigenza del racconto del teatro, dello spettacolo, e allarga l'attenzione. Anni in cui Carmelo Bene compie il suo percorso, sconvolgendo gli equilibri estetici del teatro italiano. A Napoli in particolare sono anni in cui il teatro ti ricerca fa passi importanti. È punto di riferimento nazionale. Il teatro di ricerca di Napoli e Roma compie percorsi di ricerca forti, altrove molto meno. Perché altri gruppi di ricerca forti sul linguaggio differente non se ne trovano. Questo naturalmente porta tutto a un rimescolamento forte in materia d'attenzione, nel dar conto alla rappresentazione.

 

LDT: Alle spalle di tutte le esperienze teatrali di ricerca che tu hai citato, mi pare che ci sia tutta la ricerca dei maestri della regia del novecento, e di alcuni teorici molto importanti, come ad esempio Antonin Artaud, che era alle spalle del Living Theatre, ma anche di tutta un'altra serie di gruppi e di realtà. In Artaud, come anche in tutti gli altri maestri della regia del Novecento, si ha una ricerca spasmodica innanzitutto di un nuovo linguaggio teatrale. Ora la mia curiosità è questa: la critica teatrale, di fronte a queste nuove realtà di ricerca sceniche, si è dovuta probabilmente armare, non solo di un nuovo sguardo, ma anche di una nuova strumentazione per parlare, per rendere conto di questo sguardo. In che modo l'ha fatto? L'ha fatto andandosi a riprendere quei classici della ricerca del primo Novecento, quei testi, ecc., o semplicemente adattandosi di volta in volta alle realtà che la scena le prospettava?

GB: Ma, il percorso è stato, diciamo, in ordine sparso. Ognuno ha lavorato come riteneva e come poteva anche perché la critica teatrale aveva rapporti amicali, ma non abitudini al rapporto. Fino a quando non nasce la prima associazione nazionale dei critici di teatri, quella che vede insieme a Savioli, Roberto de Monticelli, alcuni altri... Maricla Boggio, in un convegno a Palmirana, dove si incomincia a creare un nucleo di informazione orizzontale. Anni difficili per me, erano gli anni '70, dove già scrivevo, anno per anno, quello che era stato fatto, in napoletano, nelle stagioni teatrali. E qui incomincia il lavoro, le contrapposizioni tra la mia generazione e la generazione di prima. Il mio rapporto con Paolo Ricci o con Savioli, con Roberto de Monticelli è stato un rapporto molto bello, molto sereno, molto amicale. Da Ricci e da Savioli, i miei corrispondenti da l'Unità, ho avuto aiuto, insegnamento. Tanto per capirci rispetto a oggi, quando io ho cominciato a scrivere su l'Unità, io ho firmato 'Vice' per tempi lunghi. Dopo tempi lunghi Paolo Ricci disse "Puoi siglare." E ho cominciato a farlo. Dopo tempi lunghi ancora Paolo ricci disse che avrei potuto firmare. Oggi non è concepibile un lavoro del genere. È completamente cambiato il tipo di esposizione, di assunzione di responsabilità e in qualche modo di autonomia. Secondo me non proprio in meglio. Perché ovviamente il poter siglare, il poter firmare, significava l'aver acquisito quegli elementi per cui la linea del giornale di cui fai parte ti riconosce. Io non ho mai avuto nessun tipo di pressione, di consiglio, di suggerimento rispetto la lettura di uno spettacolo, attenzione, mai mai mai mai mai. Però evidentemente, mi sembrava anche logico, non mi veniva proprio in mente che io fossi autonomo dal primo giorno che ho cominciato a scrivere. È chiaro che come si imposta, come si vede, come si legge uno spettacolo, è una cosa per cui ci voleva del tempo, e anche della pratica.

LDT: In che cosa consisteva questo contrasto tra la tua generazione e la precedente?

GB: Il contrasto principale tra la mia generazione e la precedente era una partecipazione anche attiva, anche morale, di interesse, di attenzione all'iniziativa teatrale. Prima della mia generazione, il critico teatrale stava al davanzale e guardava lo spettacolo. Stop. Non aveva nessun rapporto con la costruzione dello spettacolo, con la messinscena. Probabilmente ne aveva a livelli amicali, a livelli di attenzione e di interessi, ma comunque c'era una separazione netta tra critica e tutto il resto. La mia generazione afferma che il rapporto che il critico non stava solo a guardare ma faceva parte della messinscena, quindi era logico, era opportuno, se non legittimo che si partecipasse, che si discutesse con una compagnia nell'elaborare una rassegna. Si incomincia a "far parte" molto di più. D'altra parte io arrivo a scrivere di teatro avendo preso parte al Centro Teatro Esse, uno dei gruppi di punta della ricerca teatrale, avendo affinato una conoscenza del problema del mettere in scena uno spettacolo. Conoscevo le difficoltà. Questi segni di partenza, io me li sono portati con forza durante tutta la mia attività di osservatore privilegiato, e ho rivendicato questo privilegio di poter comprendere meglio il disegno del palcoscenico, conoscendo bene quello che non si vede. Tutto il lavoro di preparazione, le difficoltà, la parte amministrativa, i tecnici...

LDT: Quindi secondo te per leggere bene uno spettacolo, bisogna conoscerne i retroscena. È indispensabile secondo te?

GB: Per leggerlo correttamente, bisogna sapere tutto quello che significa costruire uno spettacolo. Dai problemi d'impasse, a come si fanno gli avviamenti, a come si deve fare per stare in scena, alle tecniche. Se le conosci, avrai un rapporto con lo spettacolo, con la rappresentazione, diverso, di partecipazione maggiore.

LDT: Questo problema della posizione, dell'osservatore, e dello scrittore rispetto all'oggetto, che in questo caso è una materia viva, mi ricorda il caso dell'osservatore partecipante antropologo-culturale che si pone un problema etico rispetto all'altro. Mi chiedevo se non fosse un problema del genere rispetto al critico teatrale, che affronta, diciamo, la scrittura rispetto a un altro che è la comunità di artisti che fanno, che producono il teatro, e che allo stesso tempo però partecipa di quel fare teatro, come dimostra il fatto che uno spettacolo viene sempre fruito a partire da quello che si scrive sui giornali e da quello che dicono le critiche affisse all'entrata dei teatri. Le critiche guidano uno spettacolo, ne orientano la fruizione?

GB: Ma, questo uso della critica prima, e della comunicazione in senso più ampio poi, è una delle cose che ha modificato a teatro il rapporto critico prodotto, critico-spettatore e, peggio ancora, giornale-lettore. Nel senso che, a un certo punto, proprio questo tipo di uso confonde non tanto i ruoli, ma l'uso che se ne può fare. Io ho sempre ritenuto che il mio lavoro debba essere quello di incuriosire il lettore per portarlo ad essere uno spettatore, quindi fornirgli degli input di informazione, non tanto completi da dover essere verificati, dando i segni dei punti d'interesse di uno spettacolo. L'attore, la compagnia, invece, comincia a chiedere, da un po' di anni a questa parte, complici il concetto di impostazione della pagina dello spettacolo, di adoperare l'articolo come promozione dello spettacolo. Oppure a intendere la somma degli articoli come promozione dei contributi ministeriali. Arriviamo a dei giochini di compagnie che fanno dei finti articoli da mettere nel dossier da inviare al ministero.

LDT: Con falsificazione di firme, quindi?

GB: Con falsificazione di tutto. Molte volte non viene letto tutto quello che viene presentato. Se io presento un dossier sufficientemente articolato, e con qualche correzione, ci sono state compagnie che erano specializzate nel costruire articoli che documentavano un successo inesistente. Ma questo è un dettaglio diciamo di colore. La verità è che però la compagnia, l'artista dice di "scrivi quello che vuoi, purché scrivi perché mi serva. Mi serve a far sì che qualcuno legge e viene. A far costruire una polemica." Si trasforma l'uso dell'articolo e quindi naturalmente l'interesse si sposta gradualmente ma anche rapidamente a una riflessione sullo spettacolo, ma anche all'informazione sullo spettacolo. E altrettanto gradualmente, ma altrettanto rapidamente, non è più la critica a dover fare informazione sullo spettacolo, ma anticipazione. Gli uffici stampa di compagnia, figura tutto sommato recentissima nella storia del teatro, forniscono alle redazioni e ai cronisti, sufficienti notizie, fotografie, informazioni e numeri di telefono e sollecitano l'intervista a presentazione dello spettacolo. Questa cosa piace alle redazioni, moltissimo ai caposervizi, che ritengono molto più interessante per il lettore, a torto o a ragione, poi la storia non lo so mai come sarà, a sapere come il regista ha costruito uno spettacolo, piuttosto che a sapere come uno spettatore privilegiato, il critico in questo caso, ritiene che sia lo spettacolo. Questo naturalmente, viene avallato anche da alcune parzialità dei responsabili della critica teatrale nazionale, che naturalmente promuovono le scuderie, appassionati percorsi anche amicali. Diciamo si snatura facilmente tutto il percorso e pian piano questo lavoro di presentazione, quindi l'intervista, viene privilegiata quando non si parla soltanto del teatro ma anche dei casi più bizzarri, gli amori e altri percorsi. Insomma si sposta, diciamo che negli ultimi dieci anni il peso specifico, il numero di righe destinato all'anticipazione è tre-quattro-cinque volte maggiore del numero di righe destinate alla riflessione. Questo significa che viene esposto questo piuttosto che quello, e man mano, il meccanismo naturalmente è irresistibile, lo spazio dedicato alla critica viene sempre più ridotto. Negli anni '70, ottanta-novanta righe erano qualcosa di abituale, oggi su giornali di un certo peso come la Repubblica, la media è di quattordici-quindici righe, in cui è impossibile fare critica teatrale. È possibile fare cronaca di riferimento, d'informazione.

LDT: Siamo arrivati pienamente nell'attualità. Vorrei però fare un passo indietro, e tornare nel momento in cui c'è stata questa svolta storica intorno agli anni '70, dalla riflessione sul testo verbale alla riflessione sullo spettacolo, e sul teatro in generale. Mi incuriosisce ancora una volta questa convergenza storica che c'è stata tra, semiotica teatrale da un lato, pratica teatrale e critica teatrale dall'altro Si sono tutte trovate su quest'oggetto di riflessione e di esperienza che è il linguaggio del teatro con i suoi corpi. Mi chiedo quindi ancora una volta, se non si fosse verificato, diciamo, in questo momento di convergenza, un confronto tra la critica teatrale e la semiotica teatrale, e in modo, ad esempio, la semiotica avesse tratto dalla critica, dall'esperienza precedente o attuale della critica, degli insegnamenti per sé. Chiedo a te specificamente quanto e come la critica teatrale avesse tratto dalla semiotica, dalle ricerche che si facevano dal linguaggio teatrale, come linguaggio specifico.

GB: No, io non credo che ci siano stati questi rapporti così stretti. Forse qualcuno sullo riviste, ma non sui giornali. Maurizio Grande o Alberto Abruzzese su Rinascita, tanto per esser precisi svolgevano un percorso più ampio, più articolato, e sicuramente la loro professione li portava ad una lettura dello spettacolo differente, profondamente differente da quella che dava un quotidiano di pari tendenza, come l'Unità, di Savioli, Paolo Ricci, o io.

LDT: Quali sono le differenze fondamentali tra questi due modi di leggere uno spettacolo?

GB: Uno legge uno spettacolo legato al processo della scrittura e uno legge uno spettacolo legato alla rappresentazione. È il meccanismo del vedere.

LDT: Quindi Maurizio Grande e Alberto Abruzzese erano ancora legati a questa vecchia questione?

GB: Lavoravano anche su questa parte. Costruivano un percorso più ampio, ma perchè avevano lo spazio. Per sviluppare una riflessione articolata, hai bisogno di spazi differenti che un quotidiano non ti può dare. Non si poteva dare allora, figurati oggi. Anche allora gli spazi erano diversi, anche perché lo erano le loro personalità. Erano intellettuali che lavoravano principalmente nella docenza, nell'università, nella ricerca, nella semiologia, in tutto questo, e poi piegavano questo loro lavoro all'informazione dello spettacolo. Tant'è che a un certo punto, Alberto Abruzzese si secca, smette, e scrive di altre cose; Maurizio Grande ferma il suo interesse a alcuni fenomeni dello spettacolo, Carmelo Bene, Leo De Berardinis, tutta una parte così, il resto non lo segue, non gli interessa, non lo scrive, non lo vede. O forse lo vede, e non da conto. Non compie quel lavoro quotidiano che il critico-cronista deve compiere. Se io vado a teatro duecento volte l'anno, tutto sommato non ho neanche la voglia o il tempo di costruire una riflessione su uno spettacolo tanto forte, articolata e approfondita, non ho neanche lo spazio dove farla. È un altro percorso, sono due percorsi completamente differenti. E in questo aiutano le riviste, il ruolo più forte che aveva Sipario, dava più spazio anche a questo, anche però mantenendo poi quello che il mercato ci chiedeva. Ed era piccola, breve informazione, le chiamavamo “schede”. Il mercato è mercato. Schede, schede, schede, schede, perché così se ci metti le schede di 10 spettacoli, saranno 10 poli che andranno a comprare la rivista. Se ce ne metti 50, saranno 50 poli che andranno a comprare la rivista, quindi il meccanismo è misurabile, ma assolutamente comprensibile.

LDT: Tu hai parlato di funzione di incuriosimento, per far diventare il lettore spettatore, e quindi anche funzione soprattutto di informazione da parte del critico-cronista. Ora, mi chiedo, allo stato attuale dell'arte, quali sia lo spazio riservato alla funzione analitica della critica-cronica che ha spazi così ridotti a livello giornalistico e quali sia la suo funzione critico-sociale possibile, se ce ne sono, che spazio hanno, che importanza hanno oggi.

GB: La critica analitica è uno spazio risicato, in cui si può esercitare però una funzione. Anche in 10-11 righe e mezzo, si riesce a dare conto delle linee di uno spettacolo, se hai sufficiente bravura di sintesi e conoscenze del fenomeno, del fatto, del tutto. L'analisi che poi si lega a un processo sociale è sporadica, è episodica. La puoi sviluppare se una redazione è attenta al fenomeno, e quindi ti offre un spazio "oltre", uno spazio "altro", cioè per dire la redazione di Napoli di Repubblica è molto attenta al teatro in questo senso, perché il nostro rapporto è forte. Noi riusciamo a fare le copertine, ovvero una pagina in cui si analizza un fatto, un fenomeno, un momento, un personaggio, un attore, un autore. È chiaro che non puoi avere una quotidianità di uno spazio di questo tipo. Se solo ci volessimo attenere a uno spettacolo sappiamo che esso è composto da tanti segmenti che non puoi avere. Però quando c'è un fenomeno, un fatto, un processo, una condizione, una situazione, un'invenzione, una novità, un giornale come Repubblica è attento a questo. Credo che anche altri giornali siano attenti, che comunque non hanno e non aspirano ad avere il peso che hanno le riviste specializzate, l'approfondimento ampio che provoca poi una memoria più forte. La riflessione sullo spettacolo, la recensione viene inevitabilmente trasformata in uno spazio più piccolo. Se pensi che io ieri ho mandato un pezzo su questo spettacolo del Bellini, dove potevo giocare su un motivo su cui lo spazio poteva crescere, cioè il debutto teatrale di Ornella Muti, capisci che se c'è un fatto, lo spazio c'è. E io ho scritto 42 righe, ed è uscito massacrato, non ho capito per opera di chi. Mi hanno tagliato dei pezzi da dentro, ci sono un paio di salti logici. Li vorrei ammazzare! Quindi c'era Ornella Muti che ha avuto il suo debutto teatrale. È la cronaca che fa agio. Se metti sulla cronaca che Ornella Muti fa teatro, non si taglia nulla. Perché, altra cosa importantissima, oggi il giornale, il quotidiano è formattizzato, quindi risponde a spazi precisi, a gabbie rigidissime, specialmente questi tipi di pagine, disegnate, quindi il grafico impone gli spazi possibili. Già sulla costruzione della griglia di base, quell'è e quell'è. All'interno dei pezzi portanti, quelli che nella griglia di base hanno uno spazio, lo spazio è disegnato dal grafico. Quindi se io ho, se una compagnia ha, se io fornisco delle fotografie belle, il mio pezzo avrà più spazio, o più evidenza. La fotografia ha più agio dello scritto. È un dato di fatto, è inutile che ci spacchiamo la fronte, non si vince questa battaglia.

LDT: Questa conformazione di griglie che costringono la scrittura mi sembra quasi una prigione per la scrittura critica e mi chiedo se la scrittura critica possa evadere da questa prigione e trovare linee più felici nelle riviste. Ti chiedo oggi quali sono le riviste da tenere a modello se ce ne sono, e poi, nella rete.

GB: Nelle riviste è difficilissimo ed è sostanzialmente inutile. L'unica rivista un tantino un po' più è Hystrio, ma diffusa a livelli davvero minimi. Oppure Sipario, che non so neanche più che peso possa avere. Le riviste sono mensili, escono in ritardo, parlano di spettacoli che sono stati visti, oppure visti e dimenticati, sostanzialmente servono soltanto come palestre per giovani che devono farsi in qualche modo le ossa o aiuto a compagnie che mettono su un po' di documentazione, insomma non servono a niente. Diventano più interessanti quando presentano dei discorsi che vengono sviluppati, ma la scheda dello spettacolo non serve più a niente, perché ormai io so gli spettacoli da andare a vedere semplicemente tramite internet. Comprare una rivista per sapere che spettacoli ci sono stati due mesi prima è una roba del tutto inutile sotto questo punto di vista. Sicuramente l'informazione, attraverso internet, facebook, funziona, è un'informazione rapida, che funziona molto bene. La riflessione è che c'è un proliferare di fogli di riflessione, che ognuno si costruisce. La mia sensazione è che siano assolutamente autoreferenziali, per tendenze, per quartieri, per caseggiati, per corsie amicali, per luoghi d'interesse. Molte volte, in molti siti i lettori scrivono lunghe considerazioni, a volte moraliste, inutili, noiose, molte volte "mi è piaciuto"/"non mi è piaciuto" , una risposta più che legittima a ogni tipo di spettacolo, ad ogni tipo di proposta di spettacolo. Ma il problema non è "mi è piaciuto", ma "perché mi è piaciuto". O perché non mi è piaciuto lo spettacolo, se ho l'autorevolezza di prendere le distanze dall'umore personale. In genere, rispetto a quello che è il mio percorso, tutti sanno qual è il tipo di teatro che mi piace, e in un anno vedo una parte del teatro che mi piace, il resto vedo un teatro che è teatro e quindi merita attenzione professionale. Quindi il piacere, per quello che riguarda chi riflette sullo spettacolo, non è una cosa legittima da mettersi in campo. L'analisi dello spettacolo, di quel che si vede, è centrare i motivi per cui uno spettacolo funziona o non funziona, “non mi sono annoiato”. Dovrebbero nascere, forse nasceranno – e si articolerà un concetto di riflessione diverso – giovani critici. Oggi fanno gruppo per quello che mi sembra di capire. C'è questo concorso "lettera 22" messo su dall'ETI, e da un altro po' di strutture. Io dico sempre "il discrimine è quanti spettacoli vedi", quanti spettacoli vedi in un anno. Se ne vedi meno di 150, è difficile, di che parli. Io vedendo pochi spettacoli, vedo una piccola parte, attenzione, in tutti questi anni, questi 50 anni, l'offerta si è duplicata. I critici nazionali, che un tempo giravano per le prime importanti, oggi sono trottole un po' patetiche, perché girano girano girano, ma non hanno spazio per dar conto di niente. E comunque, un giornale più di sette giorni a settimana, non può parlare di teatro, ammesso che volesse. Se in una città come Napoli, dove è normale che in una settimana ci sono fino a dodici prime, io materialmente più di sei non ne posso vedere, le altre sei saranno ignorate, e allora il problema è anche avere l'intuizione sul perché vedi uno spettacolo piuttosto che un altro. E qui ci sono vari motivi d'interesse, perché naturalmente una redazione ti chiede di privilegiare il motivo di cronaca che fa forte un'offerta di spettacolo, un'altra redazione ti chiede di privilegiare la tipologia media-culturale del lettore. O di privilegiare il teatro a numero di spettatori maggiore, perché il presupposto è che il giornale lo devi vendere. Allora i criteri per cui tra dodici spettacoli ne scegli quattro, perché è difficile che un giornale riesce ad ospitare più di quattro recensioni o informazioni, è la linea del giornale. È chiaro che su internet io potrei teoricamente dar conto a più di sei spettacoli la settimana. Allora può diventare un veicolo di informazione, ognuno vede quello che vede e parla di tutto quello che vede. A chi? Ma che m'importa di sapere chiunque cosa pensa dello spettacolo? Con alcuni colleghi dell'Associazione Critici, ci mandiamo delle brevi note, tipo "questo spettacolo non te lo devi perdere, vieni dalle tue parti". Ma anche la circuitazione oggi è molto complessa, risponde a criteri differenti, alcuni spettacoli girano più regioni, uno spettacolo come "La trilogia della villeggiatura" di Toni Servillo sono tre anni che gira, questa è la terza stagione che va in giro per l'Italia. Non ha esaurito. Il teatro è comunque un fenomeno parziale. Parziale nelle parzialità. Parziale territorialmente, parziale culturalmente, parziale esteticamente, è parziale all'interno della sua parzialità, il teatro è solo una piccola parte. A un certo punto del fenomeno del teatro ci fu la grande discussione sul teatro come fenomeno di massa. Questa è una discussione totalmente folle, è fenomeno di massa sempre come segmento di massa. Non può essere forse fenomeno di una ristretta elitè culturale. Il teatro della compagnia dei giovani non ambiva proprio ad essere un fenomeno di massa, è invece fenomeno di massa il teatro di provenienza televisiva che è spettacolo, non è teatro, non risponde ai criteri della costruzione della drammaturgia teatrale. I comici, gli opinionisti televisivi tanto per esser chiari. Travaglio che riempie per tre sere di fila l'Augusteo, non fa teatro, fa un'altra cosa, fa rappresentazione, fa spettacolo. Non nego che interessa moltissimo a tutta una serie di persone, ma io poveraccio sto ancora fermo su Pirandello, non mi interessa proprio.

LDT: Ultima domanda. Hai parlato di autorevolezza della capacità da parte del critico, dello scrittore, di stanziarsi dal proprio umore del momento per capire cos'è che funziona di uno spettacolo piuttosto che se gli è piaciuto o non gli è piaciuto. Allora ti chiedo se ci sono dei criteri che tu tieni sempre come riferimento imprescindibile a cui tu fai capo per tenere sempre queste distanze, per riconoscere una scrittura, una critica fatta bene da una non fatta bene, e se quindi ritieni di poterli suggerire. In cosa consiste quella lettura corretta di cui tu parlavi prima?

GB: Io non so quale sia la lettura giusta. Il teatro di per sé, lo ripeto sempre, il teatro è il luogo del possibile, in teatro si può fare tutto. Tutto è lecito, purchè risponda a un progetto. Allora il mio lavoro all'interno del teatro, e quindi il mio lavoro di riflessione, di cronista, di informatore, è quello di dar conto di un progetto. Comprendere, quando vado a vedere uno spettacolo, se risponde a un'idea di qualcuno, che sia l'autore, che sia il regista, che siano gli attori, perché essi insieme ai costumisti e agli scenografi hanno lavorato intorno ad un progetto, come questo progetto passa in palcoscenico, viene amministrato in una serata e cerco di darne conto ricordando gli elementi di forza, quelli di debolezza perché chi legge vada a vederlo. Questo significa, per quanto mi riguarda, avere un fortissimo rispetto per chi ha prodotto lo spettacolo, per chi sta in palcoscenico. Un'accusa che mi viene fatta, che mi fa sorridere, è quella di essere un critico "buono". Mi fanno sorridere perché non ci sono buoni o cattivi. Oggi ci sono attenti a sottolineare punti positivi e punti negativi di una proposta. È facile dire di un attore che fa ridere se egli ha un "esse" imperfetta. Ma questo che ci interessa? Pensiamo che solo con un "esse" perfetta si può recitare e comunicare? No. Allora io scelgo sempre, mi creo dei sistemi, sempre per muovermi in questa quantità grossa di proposte. Io cerco di privilegiare tutto quello che mi sembra prodotto da novità, da talento giovane, da giovani che si impegnano. C'è privilegio, cerco di privilegiare una generazione più giovane, anche se più debole rispetto a una generazione più forte o più vecchia. Questo perché dobbiamo dare conto di che cosa si muove all'interno di questo, se io tra dodici spettacoli ne devo scegliere quattro, cercherò almeno di equilibrare tra il nuovo e il non nuovo. Principalmente cerco dove c'è una drammaturgia, dove c'è un lavoro compiuto su un testo o su un'idea virtuale di stravolgimento, di consacrazione, comunque dove so che gli attori i registi hanno lavorato su qualcosa. Preferisco uno spettacolo emozionante e imperfetto a uno freddo e perfetto. Sono mie scelte personali, pubbliche. Cancello ostinatamente ogni riferimento di memoria, non ritengo legittimo di vedere uno spettacolo pensando a uno spettacolo precedente, a chi altri ha messo in scena, a quando si è fatto uno spettacolo così bello. Se vado a vedere "La tempesta" oggi, non la posso vedere paragonandola a "La tempesta" di Strehler, con la Lazzarini che volava per il cielo. Devo vedere oggi perché e cosa sta succedendo sul palcoscenico, come il caso Salvo Randone. Me lo sono visto, l'ho goduto, oggi vedo un altro “Enrico IV”. Invito tutti, ostinatamente, gli spettatori a liberarsi di questa scorrettezza di fondo, della ricerca del proprio passato, del proprio tempo perso, a vantaggio o a svantaggio della presenza. Non è lecito, poi questo l'abbiamo già visto, un giovane non l'ha visto, l'ho visto io, frasi tipo "sono cose vecchie", sono cose vecchie di che? Se me l'hanno fatto oggi evidentemente sono cose di oggi, storicamente quando affronto (e se posso affrontare storicamente) una lettura di uno spettacolo, allora potrò dar conto di un passaggio temporale all'interno di un testo messo in scena. Io vedo uno spettacolo teatrale rappresentato in quel momento e di quello posso e devo dar conto, di quel progetto. Sono non più buono, anzi cattivo e cattivissimo, anche se mi capita raramente, quando nelle scelte (e sarà perché sono fortunato o perché tutto sommato le antenne le so far vibrare prima), dico che lo spettacolo è disonesto, cioè mostra, fa finta di mostrare un progetto che invece è un progetto che ammicca a un mercato, a un'opportunità, in maniera anche volgare. Capita, sì, ed è doveroso puntare gli spettacoli disonesti e dissuadere il pubblico, contrattando la disonestà teatrale. Però sono pochi, pochissimi, gli operatori, gli attori, i registi, in Italia sono a volte trascurati, indigenti, di poca fantasia, ma mai disonesti. In un anno dei duecento-ducecentocinquanta spettacoli che vedo, conservo la memoria trionfante di non più di cinque spettacoli. Questa è la proporzione giusta e quando in un anno vedo cinque spettacoli belli, penso sia stato un anno fortunato. Di questi altri centonovantacinque o duecentoquarantacinque un'altra cinquantina saranno interessanti, un altro centinaio saranno corretti e così via. È indispensabile che escono fuori quei cinque spettacoli, perché se se ne producessero venticinque, probabilmente non troveremmo quasi nulla da ricordare nel tempo.

(1) L'intervista è stata svolta nell'inverno del 2011.