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PER LUISA PASELLO

di Cristina Valenti

 

Colpisce come la scomparsa di Luisa Pasello sia stata accompagnata da segni tanto discreti e rarefatti, nel momento in cui ogni voce di commiato, immancabilmente, ricordava l’attrice come un emblema, insieme alla gemella Silvia, del teatro di ricerca degli anni Ottanta in Italia.

Ma anche questo destino ultimo, di una memoria che fatica a stagliarsi nei suoi tratti individuali, appartiene a ben vedere alla storia e all’eredità di quegli anni, fatti di vicende collettive e circoscritte in orizzonti omogenei. Eppure Luisa è stata fra le interpreti più originali ed esuberanti di quella stessa generazione che ha rappresentato come un’icona, aderendovi al punto da esserne inscindibile. Fedele ai metodi di lavoro, alla disciplina e anche alla filosofia del teatro di gruppo, la sua carriera di attrice attraversa la crisi di quel modello e ne disegna le fuoriuscite possibili, all’insegna della duttilità e dell’apertura verso mondi artistici diversi.

 

A da Agata - ph. Maurizio Buscarino (da web)

 

La padronanza di strumenti differenti è stata d’altro canto il tratto fondante della sua formazione. Dopo essersi diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 1981, ha studiato canto al Conservatorio Frescobaldi di Ferrara con la professoressa Clara Ziegler per approdare nel 1982 al Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera (con il quale la sorella Silvia già collaborava), dove si è inserita nel progetto biennale “L’eresia del teatro: Stanislavskij”, diretto da Dario Marconcini e Paolo Pierazzini, affiancando gli otto partecipanti effettivi con il compito di cucinare e di aiutare nelle esercitazioni sul canto. In seguito avrebbe ricordato il Progetto Stanislavskij come “un tempo d’oro, senza l’incubo dello spettacolo”, dove il training scopriva vie e motivazioni personali per ciascuno. La scelta dei pedagoghi, Jerzy Stuhr, Marisa Fabbri, Ryszard Cieslak, Ingemar Lindh, rifletteva l’impostazione del progetto, che intendeva coniugare tradizione e ricerca, con l’obiettivo di dotare gli attori di formazione “terzoteatrale” di strumenti completi, colmando in particolare la lacuna sempre più avvertita che riguardava l’uso della parola.

Niente di scontato in tutto questo. Un percorso tutt’altro che facile, giocato sulla sottile linea di frizione fra appartenenza e autonomia, fedeltà e irrequietezza. Lo racconta molto bene Mirella Schino nel libro che ripercorre i primi vent’anni del Centro di Pontedera (attuale Fondazione Pontedera Teatro). Gli anni Ottanta si erano aperti nel segno di “un mutamento interno e esterno” per i membri del Centro, “tra fedeltà al passato e perdita di fede. Tra desiderio di essere diversi e desiderio che esista ancora una comunità con gli altri gruppi, potente e chiusa come un’onda d’urto”.
Il Progetto Stanislavskij raccoglieva entrambe le istanze, alle quali i giovani partecipanti diedero voce non senza lacerazioni. E gli anni che seguirono videro rafforzarsi la sperimentazione drammaturgica di Pontedera proprio nell’incrocio fra valori della ricerca e riscoperta dei fondamenti della tradizione. Luisa Pasello ebbe un ruolo importante nel gruppo di attori “esterni” che nutrì la nuova fase di sperimentazione, dove il testo assunse una centralità precedentemente sconosciuta. Così, dopo il suo debutto come attrice nel 1982 nello spettacolo Aleph (impressioni da un inferno), per la regia di Cieslak, nel 1984 partecipò a Zeitnot, diretto da Roberto Bacci, un lavoro con una partitura testuale alla quale Luisa aderì come a una sfida, di cui avrebbe ricordato in seguito tutte le difficoltà, nel portare su un altro terreno una formazione maturata pressoché esclusivamente con l’attore grotowskiano per eccellenza.

 

Due lupi - ph. Francesca Fravolini (da web)

 

Dobbiamo a Luisa Pasello, insieme a Silvia e ad alcuni altri attori della generazione, se il teatro di gruppo di impronta terzoteatrale ha saputo rivelare fra le proprie potenzialità risorse espressive in grado di superare il training tradizionale per coniugare voce e corpo, emancipare la parola dalle modulazioni automatiche, aprirsi a esperienze registiche diverse arricchendo una sapienza attorica al fondo unitaria.
Nel senso dell’apertura è proseguito infatti il suo percorso successivo, che l’ha portata a lavorare nel 1985, al Festival di Santarcangelo, con il gruppo polacco Akademia Ruchu e con il regista Thierry Salmon (anch’egli precocemente scomparso) ne Il Passaggio. Con lo stesso regista ha creato, insieme alla sorella Silvia, il suo spettacolo forse più fortunato, A da Agata da Margherite Duras nel 1986 (poi ripreso nel 1994-95) che le è valso il premio Ubu per l’interpretazione. Gli spettatori osservavano dai palchi le due gemelle che interpretavano Agatha (Silvia) e il fratello gemello (Luisa) nell’intervallo fra una lunga separazione e un nuovo distacco, in un tempo stretto fra passione e nostalgia, complicità ritrovata e fantasmi di risentimento, riempito di una fisicità dirompente a sfidare sguardi e giudizi simbolicamente lanciati dall’alto. Uno dei ricordi più indelebili del teatro visto in Italia negli ultimi decenni del secolo scorso.
Poi, ancora diretta da Roberto Bacci, di cui è stata a lungo compagna e con il quale è rimasta sempre artisticamente e umanamente legata, ha interpretato Era (1988), Fratelli dei cani (1992), Il cielo per terra (1994), Ciò che resta (2001), Il raglio dell’asino (2003), Aspettando Godot (la prima interpretazione femminile della coppia Vladimiro ed Estragone, con importante vittoria sugli ostracismi degli eredi di Beckett, 2005), Amleto. Essere pronti è tutto (2007).
È stata diretta inoltre da François Kahn, Alfonso Santagata, Rickard Gunther, Celina Sodré, Dario Marconcini, Paolo Billi, Federico Tiezzi, Silvia Pasello.
Come regista ha firmato gli spettacoli I ragazzi sono terribili (1989), Tre sorelle (1995, con il gruppo Auele, da lei fondato nello stesso anno), La sofferenza della luce (2008), I vestiti nuovi dell’imperatore (2010).

 

A da Agata - ph. Maurizio Buscarino (da web)

 

Nel 1991 ha partecipato al film prodotto da Rai 2 e C.s.r.t. di Pontedera dal titolo Viaggio nella mente dello spettatore per la regia di Marianne Ahrne, dedicato alla trilogia di spettacoli firmati da Roberto Bacci fra il 1986 e il 1990 (Laggiù soffia, Era, In carne e ossa), che ha rappresentato uno degli esiti principali delle direzioni di ricerca avanzate nel decennio.

Tra il 1992 e il 1995 ha portato avanti, insieme con Magda Siti, un laboratorio teatrale all’interno di una comunità per il recupero delle tossicodipendenze gestita dalla cooperativa Il Ponte di Pontedera.

Due anni fa, nel 2011, l’ultima straordinaria sfida, legata alla collaborazione con il coreografo Virgilio Sieni che ha guidato Luisa e Silvia Pasello nella regia coreografica dello spettacolo Due lupi (prodotto dalla Fondazione Pontedera Teatro), tratto da La trilogia della città di K di Agota Kristoff. Fra mascheramenti e disvelamenti dei volti, voci ritmate all’unisono su timbri capaci di abbracciare l’intero arco delle età, dall’infanzia alla maturità alla vecchiaia, ancora una volta, dopo A come Agatha e Aspettando Godot, le due gemelle hanno saputo ritessere nella potenza espressiva dei loro corpi i temi dell’identità, del legame di coppia, di destini simmetrici e dei loro scarti verso aneliti di libertà.L’ultimo lavoro di Luisa Pasello è stato la creazione dei costumi e l’assistenza artistica a Roberto Bacci per lo spettacolo Tu. Ognuno è benvenuto (2013).

Una vita troppo breve, vissuta con coerenza, coraggio e passione in un solco di esperienze teatrali dal quale non l’hanno distolta le lusinghe che sicuramente non sono mancate a un’attrice dallo straordinario talento e dall’inarrivabile bellezza. (Dopo il successo di A come Agata, in particolare, piovvero offerte teatrali e anche pubblicitarie che volevano sfruttare l’immagine delle due gemelle).
Per questo ricordare la bellezza di Luisa Pasello non ha mai significato (né significa oggi) diminuirne l’immagine riconducendola nei paradigmi di una seduzione tutta femminile. Perché la sua bellezza era quella dell’attrice, anche fuori dalla scena, ed eccedeva dalla noncuranza con cui era trattata, incontenibile e indomabile, sotto una naturalezza persino un po’ selvaggia, mai addomesticata da trucco ed esibizione.
Voglio ricordarla infine con un’immagine, quella che accoglieva il gruppo di cinque, sei spettatori, al termine del percorso itinerante dello spettacolo Era, quando si rientrava in teatro e Luisa era lì, seduta a un piccolo tavolo sul quale Stefano Vercelli deponeva i poveri, insignificanti reperti di scarti quotidiani raccolti per le vie della città. L’attrice li raccoglieva uno a uno come cose preziose e ne interpretava significati, nessi, segreti, la voce profondissima e le labbra appena tremanti. Un oracolo contemporaneo, ignorato dal mondo ed estraneo a ciò che normalmente è elevato a valore, ma comprensibile per vie imperscrutabili da chi viveva in quel momento l’esperienza di essere toccato da responsi da cui era a sua volta interrogato.
Avremmo voluto leggere di più su di lei in questi giorni, da quando se ne è andata, il 7 ottobre, all’Auxilium Vitae di Volterra, dove era ricoverata da pochi giorni, in seguito al precipitare della malattia che l’aveva colpita un anno fa. Ma ancora una volta è stato il rigore delle sue scelte a decidere del paradosso riservato all’attrice icona di un teatro alieno dai protagonismi. Per chi ha assistito al miracolo di vederla sul palco, resterà il privilegio di aver toccato il mistero di un’arte che quando è tale non si lascia del tutto decifrare né possedere. Eppure sa concedersi con prodigiosa, straziante generosità.

 
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