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A cavallo dell’Ippogrifo.

Il teatro musicale di Giacomo Cuticchio e del suo Ensemble
di Silvia Mei


È un poema sinfonico quello composto da Giacomo Cuticchio per il suo Ensemble, cinque amici di medesima scuola musicale, quella del violoncellista Giovanni Sollima, nella Palermo di via Bara all’Olivella, dove ha sede l’antico teatro di famiglia. Dirimpetto al grandioso Teatro Massimo, la famiglia Cuticchio, da nonno Giacomo al nipote che continua la tradizione fin dal nome, mantiene accesa la fiamma di un’arte in via d’estinzione, quella dell’opra e del cunto, che hanno visto in Mimmo Cuticchio, puparo-cuntista di fama internazionale, padre del compositore, e puparo anch’esso, Giacomo, un momento di ricerca e sperimentazione in continuità coi dettami di un mestiere e di un artigianato non contraffabile e solo trasmissibile (www.figlidartecuticchio.com).
Giacomo Cuticchio percorre l’alveo segnato dal padre, avvinto dalla rutilanza delle gloriose armature dei cavalieri al seguito di Orlando (www.giacomocuticchio.it). A sette anni già manovrava piccoli pupi e negli spettacoli in cartellone azionava, come tutti i garzoni di bottega, la manovella del pianino a tamburo, colore e collante alle avventure delle Chansons de geste nelle musichette monocordi e meccaniche che sostituirono gli antichi sunatura, musici tradizionali diventati troppo costosi per le loro singole esecuzioni.
Oggi, appena trentenne, Giacomo, nello spirito di ricerca e sperimentazione di suo padre Mimmo, ha voluto fare dell’opra un’opera d’arte totale componendo musiche “a programma” per le diverse saghe, avventure, storie d’amore. Una musica “cavalleresca”, come la definisce lui stesso, dalle qualità non semplicemente o banalmente evocativo-narrative ma plastico-illustrative. Si potrebbe addirittura parlare di un affresco sinestetico godibile anche quando è sprovvisto del suo soggetto, vale a dire i pupi.
È questa infatti una delle possibilità con cui performa il Giacomo Cuticchio Ensemble che ha presentato in anteprima lo scorso 16 febbraio al Teatro di Santa Marta dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, laboratorio di giovani scritture sceniche alla prova col palco, l’inedita Rapsodia fantastica, una suite che riassume (sinesteticamente) un intero ciclo di rappresentazioni dell’opra facendo da colonna sonora al video-documentario di Chiara Andrich sul noto teatro di figura siciliano.
Giacomo compone, suona il pianoforte e dirige il suo organico ma in altre occasioni manovra i pupi, a vista o dietro le quinte, lasciando ai compagni la partitura musicale da interpretare. E la scorsa sera ha offerto un concerto che era musica per gli occhi: oltre alla già citata Rapsodia anche Quaderno di danze e battaglie dell’Opera dei Pupi, in cinque quadri, che scandisce le diverse fasi del racconto dell’opra riproponendone anche le dinamiche. Come in taluni passaggi della narrazione il cuntista evoca una metrica e un ritmo che restituisce plasticamente il movimento scenico, le qualità visive, la partitura sonora di singolar tenzoni, battaglie, investiture e cortei, così la musica di Giacomo, appassionatamente eseguita dal suo Ensemble, traduce musicalmente queste qualità compositive: “i ritmi – spiega Giacomo – sono sostanzialmente importati dai passi delle marionette (binari o ternari), legati alle loro qualità meccaniche. Ma ci sono anche i ritmi del battito del piede e dello zoccolo dell’oprante al momento dei duelli. La battaglia fra due principi ha il ritmo dello squadrone in sette, quelle campali invece sono in tre. Nei Quaderni ho anche pensato ad un movimento più lungo per rilassare i nervi e l’orecchio dalle scene aspre dei duelli, proprio perché richiedono molta attenzione per lo spettatore alle strutture musicali. Si tratta in questo caso di una sorta di love song, per così dire. Ma non sto troppo attento alle forme musicali in sé, ciò da cui parto e su cui lavoro è il suono che mi conduce al ritmo”.
La scelta dei timbri è infatti del tutto “irregolare”: un corno inglese (Mauro Vivona), due violoncelli (Francesco Biscari, Alessio Pianelli), il sax soprano e tenore (Nicola Mogavero), il pianoforte, strumenti usati al limite della loro identità timbrica ed esecutiva, secondo un uso percussivo e ripetitivo all’insegna del miglior minimalismo: “Philip Glass, Steve Reich, Meredith Monk, Michael Nyman sono astri di riferimento nel mio immaginario musicale accanto alla musica barocca”, rispetto alla quale risaltano immediatamente le affinità.
Un minimalismo, una serialità e ripetizione che richiamano il movimento meccanico della marionette, con la loro attitudine marziale, rigorosa e plastica, impersonale ma efficace, che ha segnato, come è noto, tutta la rifondazione teatrale del secolo scorso.

 
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