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relAzione Urbana/Le Mura disvelate

La giusta distanza di Pierangela Allegro/Tam Teatromusica

 

Scritto dentro. Atti visivi e sonori, prima esposizione testi tratti da Scritto dentro di Fernando Marchiori (Poiesis Editore, 2012), riscrittura scenica Pierangela Allegro direzione Michele Sambin voce e azioni Pierangela Allegro suoni, video, pittura digitale Michele Sambin. Nell'ambito di relAzione Urbana/Le Mura disvelate 13>>15 settembre 2013 Padova, Mura cinquecentesche e Castello Carrarese.

TamTeatromusica 049 65466/320 2449985 info@tamteatromusica.it www.tamtetromusica.it

 

 

[Silvia Mei] C’è un particolare momento nella vita di ogni persona in cui si vede il tempo. Non è come stanare una ruga che solca il tracciato del volto, oppure arrendersi all’elasticità sempre più contratta di un corpo che invecchia. Vedere il tempo è come visualizzare la propria vita – così, in modo inaspettato, non richiesto, d’emblée –; la vita che ti scorre sotto gli occhi, come un poema, o anche come un dramma, nell’impatto con cui gli estremi del ciclo vitale fanno dell’uomo un essere potenzialmente infinito. Questo vedere il tempo è appunto una faglia che apre sull’esistenza personale di chi è stato assorbito dal buco nero della memoria. È un attimo che fa scorrere come in sogno tante immagini che sono ricordi, quasi fossero filmini di famiglia rinvenuti per caso tra vecchi nastri.
Quell’attimo di eternità in cui si percorre à rebours la propria vita squassa l’anima e talvolta, dopo, rende ancora più estranei al presente e alle sue forme; così estranei da vivere accanto alla vita degli altri, da diventarne uno spietato flâneur, un imperturbabile straniero al mondo. Quel mondo – per recuperare un maestro della differenza come Eugenio Barba – in cui non puoi non stare ma a cui puoi non appartenere.

Pierangela Allegro, con l’aristocrazia artistica e nobiltà etica che ha da sempre contraddistinto Tam Teatromusica, insieme a Michele Sambin, ci racconta questa sua differenza, quell’inderogabile “bilancio di una vita”, spesa nella militanza politica, nella lotta, nell’arte, ma dove tanto spazio hanno avuto gli affetti, la famiglia, la casa. Lo fa con la riservatezza e la compassatezza di chi non racconta pateticamente se stessa, scadendo nella nostalgia dei vecchi tempi. Lo fa al contrario passando nel setaccio delle silhouettes del suo corpo, carta da lucido per le pitture digitali live di Sambin. Lo fa con le parole di altri – quelle del sodale Fernando Marchiori, primo fra tutti, Alberto Giacometti, Samuel Beckett e, solo in chiusura, sue –; parole dietro cui si nasconde, senza parlarsi addosso, con l’umile riservatezza di chi non si fa stile, piuttosto si specchia continuamente nell’altro, si mette in ascolto e in circolo.

 

Pierangela Allegro non è un’artista (e una donna) "in prima persona"; il teatro che ha scelto di praticare è impersonale, se vogliamo, senza mai essere dis-umano – anzi, tutt’altro; preferisce nascondersi dietro, o stare sotto pur essendo il sopra di quella forma cui dà il corpo: come lo sfondo di un disegno che è però una sola cosa col foglio e la materia che lo segna. “Tolto tutto - ci sussurra dal suo tavolino apparecchiato di libri - non rimangono che i segni”. In Scritto dentro (dall'omonimo romanzo dissugato di Marchiori) la Nostra si rappresenta effettivamente come un disegno da cui staccarsi per lasciare la grafia della sua cava sagoma; ma si fa anche luce, nel ricordo che le scorre attraverso ma che rimane dentro. La sua non è reticenza e forse non è neanche timidezza, lo dimostra la generosità con cui si è sempre data in scena, nel lavoro parateatrale (quello in carcere) e di compagnia tout court. Il suo dentro è un messaggio sibillino, un rebus, un enigma che smentisce la pulsione femminile a raccontarsi. Qui non è la donna, o soltanto quella, a parlare, ma è sempre l’artista che scrive nella sua autobiografia l’arte. Le parole si asciugano, vanno in secca, si addensano e si impastano, segretamente, senza mai sciogliersi del tutto. Al limite, solo stati e presenze e istantanee possono far avvenire quel disagio che tira dentro invece di spremere fuori.

Nello spirito della giusta distanza, di chi le viscere le ha ripulite, Allegro ci accoglie nel ventre irregolare del Bastione Impossibile delle Mura di Padova, uno spazio quasi catacombale, umido, cavo, di terra e di buio, stratificando come un palinsesto antico quelle mura rivelate. Lo spazio multifocale progettato da Sambin dispiega il rotolo d’iscrizione che è la scena, rivestita dal footage di famiglia di Allegro e dalle pitture digitali, giustamente rupestri, in un continuo dialogo con la performer che guarda e si guarda e ci guarda, senza mai aderire ai segni ma porgendoli. Parla Pierangela, a voce alta, tra sé e sé, o si sussurra all’orecchio. Si risponde, si replica, si affronta smentendo la sua voce interiore, amplificata alle spalle dello spettatore, quasi il dentro fosse il fuori. E pensa, si ferma, schizza tracciati col corpo perché le parole si sottraggono e preferisce farsi ombra. Rimangono i gesti, quelli che non si ripetono più ma che si citano come ancora possibili – sembra That Time di Beckett ma senza l’insostenibilità di Krapp: annaffiare il roseto di Cervo, nella casa natale, tenere al giardino grande, dondolare sull’altalena…
“Quando mi ambiento, sussurra, dimentico”, e poi: “La vita passa, questo so”. Squarci, potenti, di pensiero che tracima, come quando si sta alla finestra a guardar fuori le prime lacrime di pioggia in prologo all’acquazzone estivo. Tolto tutto, effettivamente, non rimangono che i segni.

 
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