Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
partecipanti: Michael Aspinall (Napoli), Marco Beghelli (Pesaro), Anna Maria Cecconi (Alessandria), Suzanne Cusick (Charlottesville, Virginia), Davide Daolmi (Milano), Tullia Magrini (Bologna), Valerio Marchetti (Bologna), Massimo Privitera (Cosenza), Emanuele Senici (Oxford)
Relazione di base
I saggi di Marco Beghelli (Erotismo canoro) e di Davide Daolmi e Emanuele Senici ("Lomosessualità è un modo di cantare". I contributi "queer" allindagine sullopera in musica) apparsi nel "Saggiatore musicale" alcuni mesi fa (VII, 2000, pp. 123-136 e 137-178) hanno aperto il dibattito, in una prospettiva italiana, sul confronto tra la musicologia e la sessualità, in particolare (Daolmi & Senici) sulla questione gay/queer nel contesto dellopera in musica.
La nostra tavola rotonda vuole ampliare questo dibattito, introducendo altre prospettive su musica e gender (identità sessuale), beninteso rimanendo allinterno del rapporto tra musica e sessualità.
Un possibile punto di partenza sta forse nella distinzione tra dimensioni diverse del fenomeno.
Queste categorie andrebbero a loro volta sottoposte a verifica, per individuare eventuali "crepe" in una divisione tripartita così netta. Qualche spunto.
Alcune altre questioni possono entrare in ballo. Mi limito a qualche suggerimento, non senza preventivamente incoraggiare i partecipanti e gli intervenuti ad aggiungere a loro volta altri argomenti più o meno collegati.
(a) Daolmi & Senici, nel loro articolo, alludono allimmagine del closet (armadio, ripostiglio) come metafora saliente del "privato" omosessuale nel mondo angloamericano. Esiste un fenomeno simile in Italia? Philip Brett (Musicality, Essentialism, and the Closet, in Queering the Pitch: The New Gay and Lesbian Musicology, a cura di Ph. Brett, E. Wood e G. C. Thomas, New York - London, Routledge, 1994) sostiene che il closet in cui cerca riparo lidentità omosessuale fornisce ai musicisti omosessuali angloamericani il pretesto per comportarsi sì da "diversi" in pubblico, ma imputando la propria diversità alla propria musicalità anziché alla propria sessualità. Che peso ha questosservazione nella cultura musicale (e musicologica) italiana? Esiste nella cultura italiana un fenomeno simile a quello esaminato da Brett nella cultura angloamericana, ossia un intricato rapporto dialettico tra i concetti di musicalità e omosessualità? (Questa connessione, sostiene Brett, comporta da parte dei musicisti gay unaccentuata riluttanza a discutere di sessualità, per paura che i nessi sociali tra le due categorie vengano in luce in maniera troppo evidente, sì da vanificare la "garanzia" assicurata dalla musicalità come giustificazione.) E se in Italia esiste, quali sono le somiglianze e le differenze più notevoli?
(b) A che pro identificare tendenze gay in compositori o musicisti (o musicologi), sia del passato sia contemporanei? Affibbiare a un/una musicista letichetta gay lo/la relegherebbe in un "ghetto gay", oscurando altri aspetti del suo messaggio artistico? Dallaltro lato, se non disconosciamo qualsiasi importanza alla sessualità personale, può darsi che i modelli di sessualità dominanti appaiano ipso facto più "naturali" o più "ovvii" di quanto non siano, accentuando di rimando lisolamento dei compositori (e degli studiosi) contemporanei identificati come gay? Importa discutere gli effetti dellomosessualità di un musicista solo se costui è dichiaratamente gay (p. es. Ned Rorem), o anche per musicisti non apertamente gay, ma ai quali una data comunità omosessuale può aver fornito un ragguardevole sostegno artistico o finanziario (p. es. Copland, Bernstein, Peri, Cesti, Lully, Händel eccetera)? Rivelare (o quantomeno mettere in conto) lomosessualità di compositori daffezione quali Händel e Schubert è un gesto politico che giova all"agenda omosessuale" al movimento di affrancamento dellomosessualità oppure è un obbligo intellettuale cui lo storico onesto non si può sottrarre? o è forse entrambe le cose? E per voltarci dal lato del musicologo: che incidenza potrà avere la sessualità di un dato studioso sul suo oggetto di studio, o sulle prospettive e le tecniche chegli adotta? Una siffatta parzialità sarà più o sarà meno "pericolosa" della parzialità insita, poniamo, nel penchant duno studioso italiano per argomenti, repertorii, tradizioni italiane anziché extraitaliane, eccetera? Quali vantaggi, ed ovviamente quali svantaggi, arreca il palesare lomosessualità non dichiarata di compositori o musicisti (o musicologi), viventi o meno?
(c) Quale rilevanza può avere la soggettività del critico, dellanalista, dello storico accademico nella prassi musicologica? La recezione o reinterpretazione contemporanea di certi repertorii in una prospettiva gay si veda p. es. il fenomeno dellopera queen (il fanatico melomane potenzialmente o effettivamente omosessuale) discusso da Daolmi & Senici è significativa, oppure comporta una distorsione del "vero" significato dellopera musicale? Agli esecutori (o agli scrittori extra-accademici) è data una maggior flessibilità nel legittimare le loro rivendicazioni soggettive? È legittimo che uno storico prenda le mosse da uninterpretazione completamente soggettiva (e magari anche anacronistica) della soggettività di un musicista o compositore appartenente alla storia? Se sì, quali prove o argomenti occorrono per "sostanziare" o "legittimare" tale prospettiva soggettiva? Come potremo determinare se un approccio è abbastanza oggettivo, e quali sono le conseguenze di un approccio non abbastanza oggettivo?
In questo contesto, cito un passo tratto da un articolo di Paul Attinello in corso di pubblicazione, ed esorto i partecipanti alla tavola rotonda a pronunciarsi su di esso:
Who
cares if I am interested in my own subjectivity? How can
we discuss our own imaginative backgrounds our
feelings, our real reasons for doing what we do in
a way that wont bore our colleagues to tears? One
interesting aspect of this kind of thing is that people
who havent talked about their imaginations,
about their subjectivities, about their selves,
tend to do a considerably clumsier job of it than those
with some experience
those who arent
experienced have difficulty in distinguishing what is
interesting to themselves from what might be interesting
to others: they are accustomed to distinguishing the
objective from the subjective (despite the illusory
nature of that distinction), but they have trouble
distinguishing the generalizable and the communicable
from the private, from personal fantasies and wishes.
This is perhaps the most useful thing to learn in a discussion of subjectivity: in a phrase who cares? Does anyone care about what you want to say, or is it something that has only private resonance? And some things that are obviously utterly private can nevertheless be communicated if they are situated in larger discussions |
A
chi importa se minteresso della mia soggettività?
Come possiamo discutere le nostre esperienze immaginative
le nostre emozioni, le nostre vere ragioni per
fare quel che facciamo in modo tale da non
annoiare a morte i nostri colleghi? Un aspetto
interessante di tutto ciò è che quelli che non
sono adusi a parlare delle loro immaginazioni, delle loro
soggettività, di loro stessi, tendono a farlo in
maniera notevolmente più goffa di chi è dotato
duna certa esperienza in materia
per gli
inesperti è difficile distinguere tra ciò che interessa
loro e ciò che potrebbe interessare gli altri; sono
abituati a distinguere loggettivo dal soggettivo
(ad onta dellillusorietà di tale distinzione) ma
fanno fatica a distinguere ciò che si può generalizzare
e comunicare da ciò che è privato, dalle fantasie e dai
desideri personali.
Questa è forse la cosa più utile da imparare in una discussione circa il soggettivo: in una frase a chi gliene importa? Ciò che vuoi dire importa a qualcun altro, o è qualcosa che ha solo una risonanza privata? E certe cose che sono ovviamente del tutto private si possono nondimeno comunicare, posto che le si situi in una discussione di più ampia portata |
Se la triplice distinzione di dimensioni suggerita qui allinizio oggettiva, soggettiva, dinamica può apparire problematica in taluni contesti storici-culturali, potrebbe tornar utile considerare la musica come verbo (musicare, far musica) anziché come sostantivo, ossia come una negoziazione continua tra il compositore, lesecutore, lascoltatore e il critico-musicologo? Che legittimazione può spettare a ciascuno di questi attori nel negoziato?
E infine: a chi tocca scegliere quali domande sono "rilevanti" in un contesto accademico? Quali sono le conseguenze (intellettuali, professionali, finanziarie, politiche, sociali ecc.) di tali scelte?