Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Attività 2000 QUARTO COLLOQUIO DI MUSICOLOGIA

Conferenze e convegni

 

ABSTRACTS
DELLE RELAZIONI TENUTE AL TERZO COLLOQUIO DI MUSICOLOGIA

 


Margaret Bent (Oxford), Senso e retorica nel recupero della musica medievale

La musicologia del tardo secolo XX si è molto occupata dell’autenticità (o delle autenticità) nell’esecuzione della musica antica, sulla spinta del boom nell’industria del disco. Da molto tempo tale pretesa è però stata messa in dubbio, e v’è chi di recente ha cercato d’invalidare nichilisticamente qualsiasi tentativo di ricostruzione. Propongo di discutere sul fatto che tali critiche insistono eccessivamente sulla musica intesa come suono, e vanno controbilanciate da un più attento esame dei modi in cui un brano di musica produce il proprio senso indipendentemente dalla fattispecie della realizzazione sonora. Come nel caso delle lingue morte, il nostro accesso alla musica antica avviene solo a partire dalla sua registrazione scritta; la musica ci richiede un esame simile di quegli aspetti della grammatica e della retorica che ne possano svelare il senso (non semantico).
Questi aspetti sono specifici di ciascuna generazione, composizione, brano; vanno compresi come mutevoli convenzioni prodotte dall’uomo, non già come atemporali leggi di natura, e devono venir ricavati dalla musica stessa con l’ausilio dei trattati e dei concetti coevi, così come per secoli s’è fatto per le lingue, dove il suono originario è altrettanto irraggiungibile. In aggiunta ai teorici musicali, gli scritti di grammatica e retorica della tarda antichità e del medioevo offrono copiosi paralleli, in particolare per la polifonia tardomedievale basata sul contrappunto; gli studiosi di retorica, perlopiù poco avvertiti degli echi e delle implicazioni musicali dei propri testi, sono stati poco attenti alla dimensione esecutiva, rispetto a quella – in senso stretto – letteraria.
Confido che questo suggerimento possa rivelarsi fruttuoso nel nuovo secolo e favorisca una miglior considerazione di quegli aspetti della musica antica che possono sopravvivere al mutare dei gusti moderni in materia di suono, e che non è disperato voler recuperare.


Juan José Carreras (Saragozza), Al crocevia: la storiografia musicale da una prospettiva spagnola


Iain Fenlon (Cambridge), Insegnare musica e cultura

Il mio intervento verte sulla difficoltà che s’incontra nel collegare (a) l’incremento di conoscenze meramente musicali con (b) l’imperativo di saper pensare in termini contestuali anziché in termini esclusivamente interni alla disciplina, e ciò in un’epoca in cui (c) il profilo culturale degli studenti universitari si va appiattendo o, diciamo, si va trasformando.


Jean-Jacques Nattiez (Montréal), Scrivere la storia nell’èra postmoderna: tra rilassatezza ed esigenza

Sia nella storia tout court sia nella storia della musica, il travaglio dello strutturalismo e degli altri approcci che puntavano sulla ‘scientificità’ delle Scienze umane ha condotto, dopo il 1968 – assunto qui come data simbolo –, a certe forme di relativismo influenzate, in particolare, dal pensiero di Derrida (decostruzione), di Foucault (archeologia del sapere), del femminismo (Susan McClary) e del politically correct angloamericano.
La relazione si concentrerà anzitutto sull’interesse e la difficoltà della nozione di ‘intrigo’, o di ‘intreccio’, proposta dallo storico Paul Veyne. Ci si chiederà se tutti gli intrighi abbiano, nella storia della musica, la stessa validità. Si interrogheranno alcune opere di storici della musica d’ispirazione relativista. Si riprenderà, per la storia della musica, la questione sollevata da Umberto Eco circa i “limiti dell’interpretazione”. Infine, si evocherà una situazione nuova: lo sviluppo delle scienze cognitive, e la pubblicazione di lavori che istituiscono dei nessi tra l’analisi musicale e la storia, non potrebbero orientare la storia della musica in direzioni nuove, e lanciare una nuova sfida alle tendenze relativiste?


Luigi Pestalozza (Milano), Fare storia della musica fra presente e futuro: tre questioni di metodo

Ragionare oggi, nello stato di cose non solo musicale presente, sulla storia della musica nella prospettiva del secolo XXI vuol dire avere in primo luogo consapevolezza del revisionismo storico come ideologia dominante e organica al neoliberismo dilagato nel mondo, che investe anche la musica, anche la sua storia, per come, andando oltre lo stesso inerte eurocentrismo che nel mondo continua a governare gli stessi manuali di storia musicale, persegue la cancellazione, l’oblio, della musica che nel Novecento – fino a quella presente anzi soprattutto negata – ha aperto e apre il sapere e la storia della musica, o quindi il modo di pensarla e di farla, a tutti i soggetti musicali presenti nella società, a tutte le culture musicali senza confini e gerarchismi, meno che mai (appunto) eurocentrici.
Questo processo, peraltro non solo musicale per come si interrela con gli sconvolgimenti rivoluzionari del secolo XX – si pensi solo alla fine del vecchio colonialismo o alla questione democratica divenuta ineludibile in ogni punto della terra – sottrae oggi il presente e il futuro anche musicali alla consequenzialità di un passato che non può più dunque essere determinante del presente nel momento in cui questo si apre problematicamente al futuro, al secolo XXI: ossia fra un tale presente di cambiamento del rapporto storico di fondo della musica, e il passato che da tale cambiamento è per primo investito, il rapporto non può più essere concepito e praticato, proprio da chi fa storia, storicisticamente, perché il rapporto si è fatto dialettico, relativo, infine dialettico in senso materialista, per cui passato e presente sono in interrelazione, non in rapporto di dipendenza. Salvo che proprio perciò, per negare ed eliminare questa dialettica senza idealistiche sintesi, il presente anche musicalmente oggi dominante è quello appunto revisionistico della fine della storia, della regressione del futuro alla logica e della ragione ideologica di tale fine che attualizza il passato anche musicale imponendolo come sua ineludibile determinazione a un presente dunque privato di futuro, dunque regressivamente postmodernista, ovvero mirato all’esclusione dalla storia di ogni pensiero e di ogni prassi anche musicali di cambiamento: del resto, come hanno ricordato Lotman e Uspenskij, «le epoche di regresso storico, imponendo alla collettività schemi storici estremamente mitologizzati, intimano alla società l’oblio dei testi che non si piegano a un simile tipo di organizzazione».
Allora però un tale presente musicale è al centro della nostra questione – la storia della musica di fronte al secolo XXI – ma proprio nel senso della sua virtualità, artificialità ideologica, che ci pone di fronte, se il futuro storico musicale e quindi il fare storia della musica oggi è appunto la nostra questione, a un preciso capovolgimento: non porsi in termini di fine della musica, della non solo sua storia, vuol dire partire dalla musica per come la vera storia presente e quindi del secolo XX, in quanto storia di cambiamento, sta in essa; o dunque per come essa, musica del cambiamento sempre presente, sta in questa storia.
Di qui la scelta di Luigi Nono, al cui sconvolgimento musicale la relazione è dedicata, o della sua musica per come la sua riconcezione linguistica si porta dentro e ci fa capire, ci indica, ben oltre la stessa nuova musica eurooccidentale, la decostruzione storica generale della storia consequenzialisticamente concepita e praticata dal dominio socioculturale, o quindi la costruzione di un altro, antagonistico rapporto storico non solo musicale. Ma questa è già una prima questione di metodo per una storia della musica non mistificata, o quindi in prospettiva del secolo XXI: le altre due seguendo sempre a partire dallo stato dei rapporti non solo musicali come stanno nella musica, nella sua lingua.


Harold S. Powers (New York), Il valore esotico di un canone musicale storico

Senza dubbio esistono modi di fare sia musicologia sia storia della musica senza tenere in considerazione alcun canone musicale, sia esso occidentale o no. Nondimeno qui tenterò di dare una giustificazione dell’idea che si continui ad insegnare la storia della musica d’arte occidentale; e a questo scopo mi rifaccio a due passi delle tesi del convegno: la storia della musica è un «ramo particolare della musicologia»; e «un canone sempre più diffuso è ipso facto un canone a rischio di dissoluzione».
(1) Un canone musicale è definito socialmente, non in base al valore artistico ad esso attribuito. (2) La musica di qualsiasi canone vive nella simbiosi tra professionisti appositamente addestrati e conoscitori esperti. (3) Tale musica può sviluppare una complessità strutturale paragonabile a quella delle strutture linguistiche, ma siccome può funzionare riferendosi solo a sé stessa, (4) essa può aprire un accesso non mediato al lavorio astratto della mente umana.
(5) Il canone musicale dell’Occidente ha un particolare valore in quanto possiede forme di notazione scritta per un sia pur limitato numero di generi musicali, sull’arco di quasi un millennio; e in questo senso è più ricco di ogni altra cultura musicale al mondo. (6) Possiamo sì studiare la musica (scritta) del passato in Occidente come se fosse la musica di un paese esotico; ma al tempo stesso si tratta di una musica in cui possiamo cogliere tutta una serie di connessioni, molteplici e intrecciate, col canone della musica occidentale oggi in vigore. (7) Si apre perciò la possibilità di un dialogo – alla maniera di Bachtin – tra il modo in cui tale musica venne concepita nel proprio tempo da coloro che la produssero e il modo in cui la comprendiamo per come ci è pervenuta.


Wilhelm Seidel (Lipsia), Ci occorre un canone?

Il mio contributo è scritto dal punto di vista di Lipsia. È da Lipsia che sono promanati gli impulsi più vigorosi per la formazione del ‘canone’ in musica.
(1) Nella storia della musica il canone è una manifestazione piuttosto recente. In prospettiva filosofico-storica, esso è profondamente debitore dell’estetica del secolo XIX. Si è costituito e si è potuto affermare sotto il segno di motivi che però sono nel frattempo diventati implausibili: e ciò non senza il contributo diretto della musicologia.
(2) Nondimeno, certi riflessi del consolidarsi del canone continuano ad incidere sull’odierna vita musicale. Ne menziono due: la spaccatura tra musica d’arte e musica ‘triviale’; e la ritirata della nuova musica d’arte dai territorii del dilettevole. (3) Sebbene i fondamenti del canone moderno oggi non vengano più riconosciuti, gli addetti alla vita musicale continuano a pensare e ad agire secondo le sue categorie. (4) Il canone ha dei meriti. Ha insegnato al mondo a concepire la musica come un bene che merita d’essere conservato e durevolmente riproposto. C’è il rovescio della medaglia: è colpa del canone se si deprezza la musica non canonizzata o non canonizzabile, se la nuova musica d’arte è stata man mano respinta ai margini della vita musicale, se il dilettevole è svanito dalla sfera della musica d’arte. (5) Spero ed auguro che gli uomini che si sentiranno a casa loro nel secolo XXI si dilettino all’ascolto dei madrigali di Monteverdi e si edifichino all’ascolto delle sinfonie di Beethoven. E non perché appartengano ad un canone, bensì perché vorrei che anche ai melomani del nuovo millennio fosse concesso il piacere, l’emozione estetica che queste musiche mi hanno procurato e tuttora mi procurano. Auguro e spero nel contempo che i vecchi steccati cadano, che la nuova musica d’arte riconquisti il gusto del dilettevole, e che viceversa la musica cosiddetta ‘triviale’ venga trattata con serietà e pertinenza.
Quel che ci occorre non è un nuovo canone, semmai dei curricoli capaci di far sì che pedagogicamente accada ciò che auspichiamo.


Gary Tomlinson (Philadelphia), Musicologia, antropologia, storia


Gianfranco Vinay (Parigi), Il latticello delle mucche del Wisconsin, ovvero debolezze storiografico-musicali del pensiero ‘debole’

Mi propongo di analizzare un’icona estetico-storiografica dei pensiero “debole” in campo musicale, L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin: una riflessione su musica colta e modernità di Alessandro Baricco (1992), non solo per mettere in evidenza alcune (fra le molte) aporie concettuali e alcune (fra le molte) forzature storiche, ma specialmente per dimostrare come sotto le apparenze di una riflessione storico-estetica su musica colta e modernità si celino, in modo più o meno nascosto, alcuni principii base della New Economy e del New Management di importazione statunitense.
Le finalità euristiche e didattiche che mi propongo sono duplici: da un lato, sul piano speculativo, dimostrare come il cosiddetto “post-modernismo”, sotto l’apparenza di una corrente estetica, mascheri la propria vera natura commercial-consumistica; dall’altro, su quello storiografico, dimostrare come un paradigma “ideal-tipico” ancora fortemente attivo (specialmente in Italia: con la benedizione tanto della destra che della sinistra) condizioni la storia musicale presente e la recezione della storia musicale del passato. Lo scopo ultimo è, evidentemente, di prendere coscienza del pregiudizio economico-mercantile per disattivarlo e fondare (nel secolo XXI, ma non troppo in là, possibilmente, anche se ho piena coscienza che ucronia e utopia sono due facce della stessa medaglia) una storiografia ed un’estetica “altre”, che intrattengano “forti” rapporti con espressioni umanistiche del pensiero contemporaneo.


Soterraña Aguirre (Valladolid), Musica e rappresentazione durante la prima entrata trionfale di Carlo d’Asburgo in Spagna: proposta per l’interpretazione dello stile musicale

Nell’anno 2000 si commemora il quinto centenario della nascita di Carlo V. Tra i numerosi e approfonditi studi dedicati alla sua persona e alla sua epoca, colpisce la scarsità di lavori relativi all’analisi e alla comprensione di eventi festivi organizzati in suo onore durante i trentatré anni in cui governò i Regni di Spagna. Ci soffermeremo sulla festa celebrata nella città di Valladolid il 18 novembre del 1517: prima entrata trionfale di Carlo d’Asburgo nei suoi territori spagnoli.
Non disponiamo di molte informazioni relative a questa celebrazione, però sappiamo dal cronista L.Vital che «il y avoit, aux embouchements et entrées des rues, en cincque lieux ou en six par où le Roy debvroit passer, des portes de bois, légierement faictes et estoffées, et des personnaiges accoustrez, représetans des histoires mentionées en certains escripteaulx en language castillan». Partendo da tale affermazione, tenendo presente il contesto storico e investigando alcune caratteristiche della tradizione di studi che interpretano la musica legata a determinati eventi festivi nella Spagna dei Re Cattolici, cercheremo di far luce sul modo in cui la musica veniva eseguita in queste histoires e in altre del periodo precedente. Proveremo ad ipotizzare e ad interpretare lo stile musicale di queste rappresentazioni, tenendo comunque presente che non sembrano rimanere esempi delle composizioni eseguite durante le entrate trionfali dei sovrani tra il secolo XV e il principio del XVI.


Concetta Assenza (Ancona), Paolo Cecchi (Bologna), Federica Nardacci (Bologna), Progetto di una bibliografia descrittiva delle raccolte collettive di musica profana e devozionale italiana pubblicate a stampa dal 1550 al 1610

Il progetto che presentiamo riguarda la redazione di una bibliografia analitica che sostituisca l’obsoleto e assai approssimativo catalogo curato da Emil Vogel e poi integrato da Alfred Einstein. Le circa 400 edizioni (compresi i contrafacta in lingua inglese, francese, tedesca e latina) pubblicate nel periodo preso in esame costituiscono un corpus ampio, ma non sterminato, che può essere catalogato da uno staff di studiosi e studenti adeguatamente organizzato. Il repertorio dovrà contribuire ad una migliore conoscenza dell’oggetto antologia, fornendo una descrizione approfondita delle fonti che risulti utile ad ambiti di ricerca di tipo storico, socio-storico e filologico.
A tal fine è stata approntata una scheda che, oltre alla descrizione bibliografica della raccolta, prevede la trascrizione integrale dei testi poetici intonati e degli incipit musicali, l’inserimento di una serie di notizie utili a meglio definire l’ambito storico, geografico e culturale della silloge (trascrizione integrale delle dediche, identificazione degli autori delle liriche musicate e degli eventuali curatori, notizie sulle caratteristiche tipografiche ecc.), ed una bibliografia specifica per le antologie per le quali esista una letteratura secondaria.
La scheda diverrà la maschera d’inserimento di una base-dati informatizzata che sarà integrata e collegata sia con l’archivio computerizzato del Nuovissimo Vogel-NNV, in corso di realizzazione da parte di Angelo Pompilio (progetto che si propone di schedare tutte le raccolte a stampa di musica profana e devozionale in lingua italiana edite tra il 1500 e il 1700), sia con l’archivio informatizzato del Repertorio della poesia italiana in musica - REPIM, creato da Lorenzo Bianconi, Angelo Pompilio ed Antonio Vassalli, finalizzato all’identificazione degli autori dei testi poetici musicati nei secoli XVI e XVII.
È prevista sia la realizzazione di una banca-dati informatizzata consultabile on line, sia la pubblicazione del catalogo in forma cartacea.
Il progetto di ricerca qui descritto è collegato ad un seminario didattico (che ha avuto inizio nell’anno accademico 1999-2000 e che avrà durata triennale), organizzato nell’ambito dell’insegnamento di Storia della musica del corso di laurea in D.A.M.S. nell’Università di Bologna, in collaborazione con «Il Saggiatore musicale».


Gabriele Becheri (Firenze), Un dibattito musicale mancato: il postmoderno nelle riviste e nelle pubblicazioni italiane

Il dibattito sul postmoderno musicale non ha mai suscitato grandi entusiasmi, in comune, d’altra parte, con quanto avvenuto nell’ambito letterario, che difficilmente ha fatto uso di questo termine, temuto e disprezzato, dice Remo Ceserani, dagli storici italiani della cultura e della letteratura. Proprio per questa ragione è legittimo chiedersi, come ha fatto nel 1990 Giuseppe Patella, se il dibattito sia riuscito o no a superare la dimensione della “chiacchiera” ed acquistare validità e consistenza culturali
Nel corso degli anni ci sono stati alcuni tentativi di sollevare una discussione sul postmoderno: la Biennale Musica di Venezia del 1981 e la lettera di Marco Tutino pubblicata su «Musica/Realtà» nel gennaio-aprile dello stesso anno, senza dimenticare la “molteplicità” affrontata da Armando Gentilucci nel suo celebre saggio del 1979. Già nella seconda metà degli anni Settanta è possibile trovare riviste interessanti in questa direzione: «Gong» (1974-78), «Musica 80», il cui primo numero uscì nel febbraio 1980, e «Musica viva» (1977-1996). A questo dobbiamo aggiungere alcuni articoli ospitati, anche se sporadicamente, su riviste musicali (soprattutto «1985. La musica» e «Musica/Realtà») e su pubblicazioni specificamente dedicate all’argomento (ad esempio Molteplicità di poetiche e linguaggi nella musica d’oggi a cura di Daniela Tortora del 1988). Tre sono stati i temi affrontati con maggiore assiduità: la definizione di un’epoca, i pericoli d’omologazione, le caratteristiche dell’odierno linguaggio musicale.
Di fronte al rischio, da qualche tempo annunciato, di passare dalla molteplicità all’“indifferenza al linguaggio”, come ha rilevato Enrico Fubini, è interessante saggiare secondo quali prospettive è stato affrontato il postmoderno musicale e verificare, eventualmente, l’inadeguatezza del dibattito, incapace di cogliere e di svolgere un tema che, ad ogni modo, riguarda tutti i campi dell’arte.


Mariagrazia Carlone (Chiavenna), Il database “Mus’Ico” di iconografia musicale

Mus’Ico è un programma informatico quasi del tutto ultimato, sviluppato allo scopo di creare un database di iconografia musicale consultabile su Internet. Ogni scheda, che corrisponde a un’immagine musicale, è formata di diverse “pagine” contenente vari campi, in cui sono distribuite le informazioni, che possono anche venir lette e stampate in formato-testo. Mus’Ico si presta a catalogare qualsiasi genere di oggetto portatore di iconografia musicale (dipinti, disegni, sculture, stampe, illustrazioni di testi manoscritti o a stampa, e così via), e al termine della sua elaborazione consentirà di effettuare ricerche per soggetto, strumento musicale, esecutore, tipo di ensemble, musica raffigurata, artista, data, luogo di origine e di conservazione, e molto altro ancora.


Antonio Caroccia (Battipaglia), La corrispondenza “salvata”: lettere a Francesco Florimo

«Queste lettere che mi sono state scritte nella mia lunga vita, invece di bruciarle, mi fu consigliato di donarle a questo Archivio musicale come documenti della Storia musicale di questo secolo». Così scriveva Francesco Florimo nel novembre del 1887. È passato più di un secolo, e i numerosi volumi che raccolgono la corrispondenza dell’archivista, storico e compositore calabrese giacciono nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli. Dopo moltissimi anni, durante i quali l’esigenza di un completo studio e di un catalogo ragionato dell’articolato epistolario dello storiografo si era fatta sempre più urgente, studiosi e appassionati possono finalmente approdare ad un carteggio del tutto inedito e originale con i più svariati artisti dell’Ottocento, tra i quali Auber, Anfossi, Serrao, Halévy, David, Zingarelli, Furno, Conti, Curci, Ricci, Carafa, Mariani, Petrella, Crescentini, Rossi eccetera. La ricerca riguarda circa 800 lettere (una piccola parte dedicata a maestri e compositori) delle oltre 6000 di cui consta l’intero corpus epistolare, distribuite in modo non omogeneo lungo un arco di tempo che va dal 1830 al 1887. Scopo del presente studio è di ovviare ad una lacuna che da decenni intralcia la ricerca musicologica, lanciando le basi per un’edizione critica e per una prima catalogazione con relativo regesto. Da questo studio emerge un Florimo intimo, nascosto e sconosciuto, sullo sfondo delle innumerevoli attività e sul filo delle numerose iniziative intraprese a Napoli e nel mondo musicale dell’Ottocento.


Pietro Cavallotti (Berlino), Il concetto di ‘forza’ in Gilles Deleuze e Brian Ferneyhough

Uno dei concetti centrali della filosofia poststrutturalista francese è quello di ‘forza’, inteso come energia produttiva, pulsione anarchica creatrice di differenze in opposizione a ogni formalismo o staticità del pensiero. Questo concetto, che occupa una posizione privilegiata nel pensiero di Gilles Deleuze, in special modo nelle sue riflessioni sull’arte, ha esercitato un’evidente influenza sulla poetica di Brian Ferneyhough. Nei suoi scritti teorici degli anni ’80, il compositore cita ad esempio più volte una frase tratta dal saggio di Deleuze su Francis Bacon (Logique de la sensation, Parigi 1981): «En art, et en peinture, comme en musique, il ne s’agit pas de reproduire ou d’inventer des formes mais de capter des forces».
Questo assunto trova espressione soprattutto nel ciclo di composizioni Carceri d’invenzione (1980-1986) ispirato all’espressività dei contrasti, alle «mutually conflicting lines of force» degli omonimi disegni di Gianbattista Piranesi. I nove brevi pezzi per soprano e gruppo da camera che compongono le Études transcendentales (1982-85), una delle opere del ciclo in questione, sono per la loro stessa concisione esempi eccellenti per tentare un approccio analitico. Grazie allo studio degli schizzi dell’autore, conservati nella Paul Sacher Stiftung di Basilea, mi è stato possibile ricostruire il processo compositivo di alcune Études. I risultati di questa analisi mostrano come l’idea di dare espressione a contrastanti linee di forza guidi Ferneyhough sin dall’iniziale definizione del piano formale e lo influenzi nella selezione dei principali procedimenti tecnico-compositivi.


Galliano Ciliberti (Perugia), Per un’altra Ars Nova: l’immaginario e il meraviglioso nella musica italiana del Trecento

Sin dalle prime ricerche in ambito arsnovistico – ci sia consentito l’impiego di questo termine discusso, ma ormai consolidato per indicare tutto un repertorio in special modo italiano – l’occupazione primaria degli studiosi è stata di acquisire la conoscenza, la catalogazione e l’analisi di fonti in primo luogo musicali, codici, copertine di recupero di manoscritti dispersi, per cercare di delimitarne il corpus. Fatto sta che oggi l’insieme di tali composizioni risulta uno dei meglio inventariati e dei più editi sia per le musiche sia per i testi poetici, per non parlare degli splendidi facsimili delle fonti principali. Queste indagini – notava acutamente già F. A. Gallo sin dal 1987 – si sono concentrate principalmente sulle fonti «in sé considerate» piuttosto che sulle «composizioni musicali in esse contenute» e (mi permetto di aggiungere) sul contesto culturale che le ha espresse e fatte ideare (ovvero la città quale raffinata metafora contestuale di un variegato universo creativo). Gallo rilevava poi, non senza ironia, come paradossalmente «l’indagine codicologica» avesse raggiunto una «tale intensità» che addirittura «gli ignoti copisti di un qualunque codice trecentesco sono meglio individuati nelle loro caratteristiche che non i compositori delle musiche in essi copiate».
Il progetto di ricerca che qui si vuole illustrare prende le mosse proprio da queste considerazioni, ovvero dalla possibilità di studiare il repertorio italiano trecentesco senza ignorare le problematiche della sociologia, della psicologia, dell’antropologia e dell’analisi delle mentalità collettive che costituiscono quell’insostituibile contesto culturale di creazione della musica e della poesia finora sacrificato da un approccio esclusivamente filologico-paleografico o da un’analisi rivolta alla congruità delle strutture metriche. Il rapporto tra musica e storia non può passare solo attraverso il reperimento di frammenti, l’individuazione di elenchi di varianti, o la specificazione astratta di strutture formali ed armoniche (magari applicando sovrastrutture pensate per altri contesti, quali il metodo schenkeriano). È dunque auspicabile che oltre a tutto questo vi sia anche un criterio ulteriore e diverso di analisi dei capolavori della musica tardomedievale che tenga conto soprattutto delle mentalità collettive, della storia, della cultura, della società e dell’immaginario. La polifonia trecentesca non può essere inscritta soltanto entro tipologie semiografiche o di incostanze testuali, ma deve essere concepita anche quale complesso equilibrio di invenzione e scienza, di musica e poesia, espressione di un contesto intellettuale fatto di modi di vivere e di sentire, di credenze, di conoscenze o di orizzonti culturali più disparati. Il sogno, la fonte, il fiume, il giardino iniziatico (e dunque non solo quello d’amore), la tempesta, la visio, la trasformazione, gli astri, gli animali, le simbologie, il tempo meteorologico, il fuoco, l’udire, l’immaginare, i miti (Diana, Narciso, Orfeo), il mangiare, la contrapposizione tra intelletto e ragione, il prato, l’albero, il cavaliere, l’alba, i gesti, il clima, gli odori, i colori, la morte, la femminilità, il corpo, sono temi rilevanti non tanto per quantificare un catalogo di sovrastrutture esotizzanti o astoriche, quanto piuttosto funzionali per individuare quell’a priori ideologico al quale appartengono determinati parametri culturali tipici del sapere medioevale. L’attrazione per il fantastico, per il meraviglioso, per il soprannaturale e l’immaginario costituiscono, infatti, alcuni degli aspetti fondanti della cultura urbana del Trecento vòlta a realizzare un proprio modello di mentalità, specchio di un determinato sistema economico e sociale.


Danilo Costantini (Como), Ausilia Magaudda (Novara), Alcuni strumenti per la ricostruzione della vita musicale nel Regno di Napoli

Il nostro progetto è finalizzato alla ricostruzione delle modalità di produzione musicale nel Regno di Napoli fra il XVII e XVIII secolo, e dei rapporti musicali che intercorrevano tra la capitale e le province. Punto di partenza è la «Gazzetta di Napoli», il periodico settimanale ufficiale del Regno, dal quale abbiamo attinto più di 4500 notizie musicali tra il 1675 e il 1768. Sebbene il contenuto di questo giornale sia piuttosto generico riguardo ai fatti musicali, attraverso la computerizzazione, l’indicizzazione dei dati e il confronto con altre fonti e pubblicazioni, se ne possono ricavare delle informazioni precise, spesso inedite, che costituiscono i tasselli mancanti per la ricostruzione della vita musicale dell’epoca. Lo abbiamo potuto sperimentare in particolare per il periodo compreso fra gli ultimi anni del Sei e i primi decenni del Settecento.
In questo arco di tempo, i cambiamenti che si verificarono nella vita politica e sociale ebbero un particolare riflesso sugli sviluppi artistici, e Napoli divenne uno dei centri culturali italiani più importanti. La classe aristocratica si aprì alla cultura, esercitando una grande influenza sulla produzione culturale e artistica, anche perché stimolata dalla concorrenza nei confronti del ceto civile. Molti nobili organizzarono salotti culturali e spettacoli nelle proprie residenze, divennero importanti committenti in campo artistico, e spesso loro stessi furono pittori, letterati o musicisti dilettanti. Il nostro tipo di ricerca ci ha consentito di ricostruire l’importante ruolo svolto da alcuni di loro nell’ambito delle attività musicali del Regno e di individuare tutta una serie di attività che li metteva in relazione: si ritrovavano all’interno degli stessi salotti, accademie e confraternite; assistevano regolarmente agli spettacoli operistici che si tenevano nei teatri della capitale; partecipavano alla programmazione artistica del teatro dei Fiorentini facendo scritturare librettisti, strumentisti, cantanti e compositori al loro servizio, e alla gestione economica sovvenzionando rappresentazioni che venivano anticipate o replicate nelle loro residenze della capitale o dei propri feudi di provincia, dove facevano costruire appositi teatri.
Attraverso questi nobili, nelle zone più periferiche del regno venivano anche riprodotti oratorii e commedie dati nella capitale, a volte con la partecipazione degli stessi prestigiosi interpreti. Tra loro figurano i principali committenti napoletani di Hasse, Händel, Fago, Mancini, Porpora, Sarro, Alessandro Scarlatti, Vinci.
Il quadro della vita musicale nelle province che ne risulta è molto più ricco e articolato di quello finora conosciuto.
Le informazioni qui riassunte saranno esposte in maniera più dettagliata nella relazione, e costituiscono il campionario di un lavoro più ampio che, secondo il nostro progetto, dovrebbe coprire tutto il periodo per il quale possediamo notizie dalla «Gazzetta». L’obiettivo finale è di mettere a disposizione degli studiosi, in un volume a stampa, tutte le notizie musicali in nostro possesso, complete di indici e cronologie, ma anche la nostra elaborazione di questi dati.


Antonio De Lisa (Potenza), Il Novecento musicale degli irregolari e degli isolati

Ho già svolto una relazione in questa sede. L’anno scorso il tema dell’intervento verteva sulla problematica relativa al compositore americano Charles Ives (La funzione Ives nella musica del Novecento). In questa seconda occasione vorrei affrontare, con la dovuta prudenza metodologica e circospezione scientifica, la problematica degli irregolari e degli isolati nella musica del Novecento. Le due cose sono collegate. Non si capirebbe l’emergere di questo universo, se non si avesse chiaro che è stato Ives il punto di partenza.
Si possono fare dei nomi. Gli americani Carl Ruggles, Henry Cowell, Ruth Crawford, Conlon Nancarrow, Harry Partch, Lou Harrison, il messicano Julián Carrillo, il franco-americano Edgar Varèse, il cèco Alois Hába, i futuristi italiani (Russolo, Pratella, Casavola, Mix) e russi (Roslavec, Mossolov, Lourié, Obukhov), l’austriaco Josef Hauer – con sullo sfondo la figura di Arnold Schönberg – e il tedesco Hartmann, l’italiano Giacinto Scelsi (senza dimenticare Ferruccio Busoni), il microtonalista russo Ivan Wyschnegradsky.
Quella che qui si delinea è una serie di esperienze proemiali e introduttive o, in alcuni casi, parallele, o addirittura alternative rispetto alle grandi tendenze novecentesche. L’opera di questi compositori è strettamente correlata al tornante più inquieto e mercuriale del Novecento musicale.
Una prima domanda si pone: qual è il ruolo storico di questi personaggi? una più attenta considerazione di queste figure nel panorama musicale del Novecento ci dice qualcosa di nuovo sullo stesso sviluppo storico del secolo? 2. come si sostanzia musicalmente la categoria degli irregolari e degli isolati? qual è la strada giusta, da un punto di vista analitico, per  “leggere” adeguatamente la traccia lasciata da  queste esperienze alternative?
Siamo di fronte a una specifica soglia di ascolto, a un nuovo universo concettuale: ci imbattiamo infatti in problemi che mettono radicalmente in discussione le categorie compositive tradizionali, quelle centrali legate al sistema delle altezze e al ritmo: il microtonalismo e la poliritmia.
1.Microtonalismo: una terra di nessuno fatta di quarti, ottavi, terzi, sedicesimi, trentaduesimi di tono, che pone la musica occidentale di fronte al problema del continuo e dell’infinito, in un pellegrinaggio del possibile, dell’incerto e dell’indefinito;
2. Poliritmia: il tempo, attraverso le ricerche sul ritmo, acquista in questa prospettiva una carica dinamica che la musica occidentale aveva conosciuto solo nel medioevo. Chi scrive ha avuto modo, in tre anni di lavoro su queste problematiche, di verificare davanti a due pubblici diversi – studenti universitari e giovani compositori – il concreto interesse nei confronti delle problematiche delineate. Questo percorso ambisce di sfociare in un volume a stampa. In questa sede se ne delineano i punti principali.


Carlo Fiore (Roma), La storiografia musicale e la presenza di Josquin Desprez in cinquecento anni di bibliografia

La bibliografia degli scritti in cui compare Josquin – dalle fonti d’archivio della fine del Quattrocento alla musicologia attuale – permette di ricostruire cinquecento anni di storia della musica dal punto di vista di un protagonista che non ha mai cessato di far sentire il proprio peso. L’intervento descrive una ricerca storiografica in progress che tende a tracciare possibili percorsi più che a fissare scenari specifici: il profilo “in movimento” di un compositore, e quello della “musica in Occidente” che cambia attorno a lui.
La periodizzazione che emerge allo stato attuale della raccolta documentaria è definita da alcuni titoli chiave: le prime tracce archivistiche e la trattatistica fino al Dodekachordon di Glareano (1547), fonte teorica, e insieme agiografica, dalla quale la tradizione attinge massicciamente; la General History of Music di Ch. Burney (1798), le Memorie dell’abate Baini (1828) e il Dictionnaire di F. Fétis (1873-75), che racchiudono un eterogeneo, per quanto ridotto e anomalo, gruppo di testimonianze; la prima edizione degli opera omnia curata da A. Smijers (1921); la monografia di Helmuth Osthoff (1957-59); l’International Josquin Festival Conference del 1971; la fondazione della New Josquin Edition (1987); gli studi di M. e L. Merkley sulla Milano sforzesca (1998) e il Josquin Companion (2000). La ricerca compilatoria sistematica, che comprende anche le presenze minute (in epistolari, cronache, dizionari ecc.), permette non solo di tracciare la storia della recezione difficile e accidentata di un compositore, ma anche di sottolineare alcuni processi dell’estetica e della storiografia musicale, le modalità di diffusione delle informazioni e la trasformazione degli strumenti della ricerca. Un progetto che, parafrasando Harold Powers, cerca di guardare la storiografia musicale «da una prospettiva altra».


Michela Garda (Trento), Tra “non ancora” e “non più”: la forma come problema storiografico nella prima metà dell’Ottocento. Il caso dei fratelli Mendelssohn

L’estetica moderna ha introdotto la categoria del nuovo tra i criteri fondamentali per giudicare il valore di un’opera musicale. Carl Dahlhaus (Analisi musicale e giudizio estetico, Bologna 1987, pp. 21-24 e 32-36), in particolare, ne ha illustrato la dipendenza da presupposti storico-filosofici, individuando il ruolo dell’estetica adorniana nel concepire la novità in termini di adeguatezza storico-sociale. È difficile tuttavia applicare questo modello ad autori e repertorii che non trovano una collocazione univoca entro la dialettica di conservazione e progresso, e in particolare per coloro che, come Fanny Hensel, sono rimasti ai margini della vita musicale e con ciò anche al di fuori del dibattito sulle tecniche compositive, implicito nella presentazione di un’opera in uno spazio pubblico.
Il caso dei fratelli Mendelssohn è emblematico. Non solo: i primi sondaggi critici sulla produzione di Fanny Hensel agiscono come una cartina di tornasole per saggiare la validità di questo paradigma storico-estetico. Pur nell’affinità idiomatica di gran parte della loro musica, i due fratelli rivelano, infatti, concezioni diverse della scrittura musicale e della sua integrazione formale. Il bilancio dell’indagine intrapresa da Marcia Citron (Hensel’s “Songs for Pianoforte” of 1836-37: Stylistic Interaction with Felix Mendelssohn, «Journal of Musicological Research», XIV, 1994, pp. 55-76) su un campione limitato ma significativo di composizioni per pianoforte ha portato alla conclusione che, a fronte di evidenti affinità stilistiche, i brani di Fanny presenterebbero una maggiore complessità stilistico-formale. Sembra che la Hensel-Renaissance di questi ultimi anni sia stata anche alimentata dal sospetto (o dalla speranza) che nel rapporto “carico” tra i due fratelli si annidasse anche il conflitto tra una tendenza stilistico-formale innovativa e una più conciliante e borghese impersonata dal fratello, per di più fieramente avverso alla pubblicazione delle composizioni della sorella. Lo schema innovazione vs conservazione-repressione, esplicito o implicito, non sembra però sufficiente per comprendere il delicato negoziato tra imposizioni familiari, scelta di strategie compositive e progettazione di uno spazio mentale e creativo trasversale alla distinzione tra pubblico e privato.
L’obiettivo di questa relazione è di illustrare alcuni aspetti di un’autonoma intenzione compositiva di Fanny come risultato appunto di un negoziato tra le convenzioni di gender allora operanti non soltanto nella definizione tra sfera pubblica (maschile) e privata (femminile), ma nelle stesse scelte stilistiche e compositive. Punto di partenza di questa indagine sono due lettere nelle quali i fratelli si scambiano opinioni sulle reciproche concezioni della forma, e l’analisi di alcune loro composizioni per pianoforte e quartetto d’archi.


Saverio Lamacchia (Bologna), Di un’opera senza antipasto: la “Zelmira” di Rossini

Gli studiosi di Rossini hanno sottolineato lo sperimentalismo delle nove opere scritte per il San Carlo (1815-1822), soprattutto riguardo l’aspetto morfologico. Il caso di scuola è il cosiddetto Terzettone del Maometto II: nella versione originale (1820) comprende ben nove tempi e finanche una mutazione scenica a vista; nella versione veneziana (1823) e in quella francese (Le Siège de Corinthe, 1826) Rossini sfronda l’elefantiaca struttura, riducendola a dimensioni più consuete. La relazione vuole mostrare come lo sperimentalismo delle opere napoletane si possa manifestare, ad altri livelli, anche in un numero a forma standard come l’Introduzione della Zelmira (1822), che consta di Coro e Cavatina tripartita. Arciconvenzionale in un organismo convenzionale, il Coro d’esordio d’un’opera di primo Ottocento si riconosce, normalmente, d’acchito, sia per la situazione che inscena – una «proemiale cerimonia», per dirla con Ritorni – sia per l’intonazione musicale, caratterizzata da un’estrema linearità della condotta compositiva. Questa funzione decorativa del coro – inteso come brano musicale e come personaggio collettivo –, che comporta una certa staticità dell’azione e del movimento scenico, è evidente anche nella maggior parte delle opere napoletane di Rossini: che esprima giubilo (Elisabetta Otello Armida Ricciardo e Zoraide Donna del lago) oppure dolore (Mosè in Egitto Ermione), esso è generalmente fermo sulla scena, o tutt’al più sfila marciando (quando si tratta di un coro di guerrieri, come in Armida e Ricciardo e Zoraide).
Alla luce di questa osservazione, l’effetto teatrale prodotto dal Coro d’apertura della Zelmira appare stupefacente. Il «massimo disordine» con cui i «vari gruppi di guerrieri di Mitilene sbigottiti attraversano la scena» all’apertura del sipario crea un’atmosfera di panico e sconcerto del tutto inconsueta per questo luogo drammatico, anche perché, mancando la sinfonia, lo spettatore è immesso come non mai direttamente in medias res: verosimilmente Rossini fa a meno di quest’«usitato hors d’œuvre» per ragioni drammatiche e non, come tra il serio e il faceto sostiene il Carpani, per la già bastante lunghezza dell’opera. L’evento che provoca la scomposta reazione degli astanti – l’assassinio del condottiero Azorre – non è scenicamente esibito, ma avviene, per così dire, al di qua dell’apertura del sipario, ossia fa parte di un antefatto che mai nelle opere precedenti di Rossini era stato così strettamente e “dinamicamente” collegato all’abbrivio dell’azione. Lo spettatore condivide, in un certo senso, lo sconcerto dei guerrieri di Mitilene, derivato per lui dalla non immediata comprensione di quanto è avvenuto: verrà a sapere che è Antenore il mandante dell’assassinio solo nel recitativo dopo la sua Cavatina, vero capolavoro di dissimulazione.
La relazione si soffermerà in particolar modo sull’audacia armonica del passo, che resta tanto più impressa in quanto compare là dove lo spettatore, abituato com’è alla facile omofonia consonante dei cori ottocenteschi, meno s’aspetta un linguaggio musicale complesso e tormentato.


Sandra Martani (Cremona), La notazione ecfonetica negli evangeliari greci tra XII e XIII secolo: un sistema di notazione che inizia a disgregarsi

La notazione ecfonetica si sviluppa per la lectio solemnis delle pericopi dell’Antico e del Nuovo Testamento e, in ambito greco, per quanto si può ricavare dai manoscritti conservati, è usata dal IX al XIV secolo
Nel suo sviluppo vengono distinte tre fasi: il sistema pre-classico (tracce si ritrovano nei manoscritti del IX-X secolo), il sistema classico (dall’XI al XIII secolo), il sistema “degenerato”, di cui alcuni esempi si possono già incontrare nei manoscritti del XIII secolo e che diventano via via sempre più frequenti nel corso del XIV.
Finora l’attenzione degli studiosi si è incentrata principalmente sul libro dei Prophetologion; relativamente all’Evangeliarion invece, oltre all’analisi di Carsten Høeg, esistono solo pochi contributi.
L’Evangeliarion, per il suo contenuto e in quanto libro d’altare, è il più importante dei lezionari del rito bizantino, e già questo sarebbe sufficiente a giustificare una ricerca sistematica. Inoltre, l’analisi da me condotta sul ms. Vind, Suppl. gr. 128, un evangeliario del XII secolo, ha evidenziato nuove caratteristiche di questo sistema di notazione, che hanno indotto ad approfondire la ricerca in tale campo.
È nato così il progetto “Gli evangeliari greci con notazione ecfonetica: indagine sistematica dei manoscritti datati”, oggetto della mia attività di ricerca post-dottorale, nella Scuola di Paleografia e Filologia musicale di Cremona.
Partendo dai risultati finore raggiunti, in particolare dall’analisi del ms. Vatic. gr. 1069 del 1175, l’attenzione verrà focalizzata sulle ultime fasi dello sviluppo della notazione ecfonetica, per cercare di chiarire i motivi che hanno portato alla sua dissoluzione e poi alla sua scomparsa, benché ancora oggi le pericopi dei testi sacri vengano eseguite secondo melodie tràdite.


Lorenzo Mattei (Prato), Da capo e forma sonata nell’opera italiana dell’ultimo Settecento: il caso Paër

Si intende porre in rilievo l’influenza dello stile concertante e sonatistico di ascendenza viennese all’interno della struttura compositiva dell’aria operistica degli ultimi decenni del secolo XVIII. Un esito particolare della ricerca di nuove soluzioni formali all’interno del tradizionale pezzo chiuso, condivisa da numerosi operisti attivi a cavallo di Sette e Ottocento, è quello che condusse verso l’aria in forma-sonata. Si farà notare la vicinanza della griglia compositiva di queste arie con la schematizzazione fornita dal teorico Francesco Galeazzi, e si insisterà sulla sotterranea ed implicita invadenza del non dimenticato modello del da capo.
Come figura emblematica di questo sincretismo fra ‘classicismo viennese’ e convenzioni dell’opera napoletana, verrà scelto Ferdinando Paer, l’operista che più di altri ha saputo fondere la cura per la struttura formale del pezzo chiuso (mutuata dalla precoce dimestichezza con le opere di Mozart) con le esigenze drammaturgiche del testo intonato. Sarà proposta l’analisi dell’aria di Cleante Perfido, ah! Qual disegno tratta dall’opera giovanile Ero e Leandro (Napoli, S. Carlo 1794), quale esempio di perfetta corrispondenza fra le tensioni presenti nel testo poetico e quelle derivanti dalla logica sonatistica del contrasto.


Renato Di Benedetto (Napoli), Canone enigmatico


Augusto Mazzoni (Brescia), La musica nell’estetica fenomenologica

Le radici della fenomenologia husserliana affondano nello stesso terreno che alla fine del secolo XIX ha visto fiorire in area tedesca le ricerche psicologiche sul suono e sulla musica. Husserl fu allievo di Carl Stumpf, oltre che di Brentano, ed ebbe ben presente l’opera di Christian von Ehrenfels e di Alexius von Meinong, autori in cui la tematica del suono non è certo secondaria. Spunti cospicui per una fenomenologia del suono si possono trovare nello stesso Husserl (dalle Lezioni sulla coscienza interna del tempo alle Lezioni sulle sintesi passive, nonché in diversi appunti inediti), mentre più rare risultano le riflessioni inerenti strettamente la musica.
Di un’estetica fenomenologica concernente in senso proprio la sfera musicale si può parlare soprattutto di fronte ai lavori di alcuni autori che furono allievi di Husserl a Gottinga (Conrad e Ingarden) o che furono membri del circolo fenomenologico di Monaco (Geiger). Waldemar Conrad nel suo studio sull’oggetto estetico (1908-9) ha riservato ampio spazio all’esame dell’oggetto musicale, accennando a un confronto con le teorie di Hugo Riemann. Il contributo di Moritz Geiger, in particolare nel saggio sul dilettantismo nel vissuto artistico (1928), ha riguardato invece la difesa di una concezione dell’ascolto come “concentrazione esterna”. Alle problematiche dell’opera musicale si è dedicato infine Roman Ingarden con una serie di osservazioni sul piano ontologico, gnoseologico ed estetico che, dapprima in Polonia e quindi in ambito tedesco e internazionale, hanno goduto di una certa risonanza musicologica.
Tra gli allievi successivi di Husserl è da citare Alfred Schütz, sociologo e filosofo che ha lasciato alcune riflessioni sulla musica. Influssi diretti o indiretti del pensiero fenomenologico sull’estetica musicale si possono segnalare dal secondo dopoguerra in Francia e poi negli USA e in Italia, grazie a un filone di elaborazioni teoriche e filosofiche che risulta tuttora in corso.


Paola Mecarelli (Cremona), L’opera francese e la riforma del melodramma a Parma nella seconda metà del Settecento: analisi e confronto dell’assetto orchestrale

Tra il 1759 e il 1761 Parma sperimentò una sua riforma melodrammaturgica, ispirata e organizza da Guillaume du Tillot, primo ministro della corte borbonica e primo attore dell’illuminismo parmense.
In precedenti studi ho potuto rilevare come la stagione riformistica voluta da Du Tillot a Parma non fosse la semplice espressione di una mimesi della tragedia in musica francese. In realtà per Du Tillot la Francia rappresentava il punto di riferimento organizzativo, non contenutistico. Egli manifestava invece uno spirito europeo nel tentativo di fondere idee e “gusto” con l’obiettivo di rinnovare una civiltà.
In genere i manuali segnalano sinteticamente che la riforma del melodramma a Parma nasce dalla fusione della librettistica francese con la musica italiana. In realtà fu esattamente l’opposto. Per attuare il suo progetto, Du Tillot si servì del poeta Carlo Innocenzo Frugoni che doveva ispirarsi ai libretti francesi Hippolyte et Aricie (scritto da Pellegrin, che a sua volta aveva ripreso Racine) e Castor et Pollux (di Bernard), mentre per la musica aveva ingaggiato il compositore Tommaso Traetta, che in questo caso si cimentava in un confronto indiretto con Rameau. Ma Frugoni, per quanto attiene al libretto, assunse una posizione legata al pathos di impostazione “affettiva” italiana, e non al modello francese in cui i sentimenti sono espressi in un clima eroico alquanto convenzionale. Al contrario, la musica di Traetta, pur non riconducendosi alla scuola italiana, subisce idealmente l’influenza di Rameau sia nella struttura compositiva sia per gli aspetti legati all’orchestrazione.
Verificando i dati d’archivio sull’organizzazione del teatro d’opera della corte parmense (che contengono anche importanti elementi di confronto con l’impostazione francese) e le partiture italiane e francesi conservate presso la Biblioteca Palatina, è possibile mettere in evidenza la condizione innovativa della riforma attuata a Parma ma invertendo i fattori indicati dalla manualistica: suggestione italiana per il libretto e francese per la musica.


Emiliano Migliorini (Bologna), Il pianto delle zitelle di Vallepietra

Il pianto delle zitelle di Vallepietra è uno spettacolo popolare interamente cantato rappresentato sul Monte Autore nel giorno della Santissima Trinità, al culmine del pellegrinaggio che annualmente qui si rinnova. Poco prima che termini la primavera, difatti, una massa imponente di pellegrini muove da varie zone del Centro Italia e si riversa sugli angusti spazi su cui poggia il piccolo santuario rupestre della Trinità, presso Vallepietra, nel Lazio. Il pellegrinaggio, compiuto nell’arco di un paio di giorni, conserva distinti elementi riconducibili al mondo pagano, com’è tipico in genere di realtà popolari contadine, ed è caratterizzato da intensi attimi di ritualità, evidenti echi di una religiosità protostorica, di stratificazioni mitiche su cui si sono innestati i contenuti della cristianità: atteggiamenti dendrofori, riti di comparatico, lanci di pietre su cumuli di pietre e nelle acque dei ruscelli, atti di penitenza estrema, sono ancor oggi momenti consueti del pellegrinaggio verso il Monte Autore.
Il pianto delle zitelle, che chiude le celebrazioni della festa, è una sorta di sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Lo interpretano alcune ragazze di Vallepietra le quali, una volta, ricevevano la carica per discendenza. Sono tutte vestite di bianco, tranne una brunata che rappresenta la Madonna, e ognuna di esse ha in mano uno strumento della passione che la rappresenta. Il canto si definisce nell’alternanza dei misteri (le arie dolenti delle zitelle) con un trio che canta una versione parafrasata del Miserere, stranamente vivace. I misteri sono tutti caratterizzati dall’incipit di un salto di quinta discendente, una sorta di ritornello insistente che ritroviamo spesso durante la rappresentazione e che per le donne di Vallepietra costituisce il vero e proprio pianto. La liturgia si inserisce nello spettacolo con il Veni creator spiritus e l’Oremus iniziali e con la benedizione finale impartita dal vescovo di Anagni (alla cui diocesi il santuario appartiene, pur essendo Vallepietra in provincia di Roma); il pianto si chiude con un finale a più voci, unica sezione polifonica dell’intera rappresentazione.
Lo spettacolo, il cui testo più antico è un libretto manoscritto del 1836 (Misteri della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, una copia di quello composto da Francesco Tozzi attorno al 1700), ha subìto nel corso dell’ultimo secolo molti rivolgimenti. Infatti, pur conservando essenzialmente la forma originaria, ha finito per trasformarsi, negli ultimi anni, da statica rappresentazione articolata in quadri scenici rappresentativi, in dinamico melodramma in cui gli oggetti della Passione diventano elementi scenografici, e i personaggi citati (Giuda, Pilato, i soldati romani... ) protagonisti della scena. Ciò ha portato ad imporre le esigenze teatrali su quelle musicali (aspetto peculiare della rappresentazione), con prevedibili ripercussioni sulla messa in atto dello spettacolo. Cambiamenti rilevanti sono anche svincolati dalle nuove esigenze spettacolari. Ecco i più rilevanti: (1) una progressiva discesa di tonalità; (2) l’abbandono delle fioriture e degli abbellimenti, ovvero una “modernizzazione” della melodia, una stilizzazione della gamma tonale; (3) una tendenza alla tonalizzazione, ovvero la perdita degli elementi di commistione fra modo maggiore e minore che caratterizzavano il canto; (4) una omogeneizzazione del tempo dei misteri con quello del Miserere, in precedenza definito da andamenti contrastanti; (5) la perdita dei modelli mimici di riferimento (una particolare gestualità stereotipata che ricordava molto quella del planctus rituale).
L’intervento prevede un sintetico tentativo di ricostruzione di una storia del Pianto attraverso i documenti (materiali audio, video e fotografici) lasciati dagli etnomusicologi e dai documentaristi nell’ultimo secolo, rilevando, dove è possibile, gli elementi e i processi di trasformazione dell’oggetto di studio.


Giorgio Pagannone (Cremona), Un’opera “a tre” o “a quattro”? Vicende di una partitura dimenticata: “Pia de’ Tolomei” di Cammarano e Donizetti

Pia de’ Tolomei, scritta per la stagione di carnevale 1836/37 alla Fenice di Venezia (ma rappresentata al Teatro Apollo a causa di un incendio), fu inizialmente concepita per una compagnia «alla moderna», con tre sole prime parti (soprano – tenore – baritono), ma alla fine fu adattata ad una compagnia “a quattro” (venne aggiunto un contralto en travesti).
Il riassetto dell’opera incise negativamente sul tempo drammatico, che Donizetti esigeva serratissimo, e diede origine ad una tradizione esecutiva piuttosto movimentata, in cui l’opera sembrò cercare ma non trovare una forma stabile e soddisfacente, come peraltro dimostrano i vari rimaneggiamenti da parte dei due autori (esistono ben tre versioni autentiche dell’opera: Venezia 1837, Senigallia 1837, Napoli 1838).
Ripercorrendo le tappe salienti del percorso genetico-evolutivo dell’opera, notiamo che, dopo la prima veneziana, la parte di contralto (Rodrigo, il fratello di Pia) fu quasi del tutto tagliata a Senigallia e Lucca (1837), indi parzialmente ripristinata a Roma e Napoli (1838). Venne però sempre conservato il duettino “pseudo-amoroso” tra Pia e Rodrigo nel finale primo, che rende più verosimile (e anche più stuzzicante) la vicenda.
Difficile decidere, anche in sede di edizione critica, se l’opera sia effettivamente “a tre” (come ebbe a dichiarare Donizetti) o “a quattro” (come personalmente credo). L’inserimento della parte di Rodrigo fu sì tardivo e, da un punto di vista strettamente drammatico, inopportuno, ma aggiunse un terzo “polo” amoroso, che completa la rosa dei pretendenti di Pia: dopo l’amore coniugale e geloso di Nello (baritono) e quello infuocato di Ghino (tenore), l’amore fraterno, quasi “incestuoso” di Rodrigo (trascuro l’intreccio politico, del tutto marginale). Va detto infine che la cavatina di Rodrigo, cacciata dalla porta (non fu più eseguita dopo la prima veneziana), rientrò dalla finestra (divenne uno dei pezzi favoriti dell’opera e fu ristampato più volte da Ricordi).


Benedetto Passannanti (Roma), Tra partitura e “testo d’ascolto”: rilievi sulla sintassi compositiva e discorsiva in Mozart, Bartók, Webern e Varèse

Attraverso quattro esempi d’analisi della sintassi musicale di Mozart (Minuetto K. 464), Bartók (Birkózás, n. 108 da Mikrokosmos). Webern (Streichquartett op. 5 n. 1) e Varèse (Intégrales), s’intende evidenziare la distanza delle suddette opere dai principii narrativi della teoria musicale tradizionale, e tuttavia la permanenza, nell’ambito di tale distanza, di aspetti di narratività.
Nei primi tre esempi la sintassi compositiva dei brani si basa sui modelli A-B-A’ (Mozart e Bartók) e forma-sonata (Webern). Sull’asse uditivo-temporale, tuttavia, la sintassi discorsiva articola gli eventi musicali in sequenze di enunciati che disattendono, a vantaggio di altre scelte narrative, la logica espositiva della forma tripartita e della forma-sonata.
Viceversa in Intégrales di Varèse permangono, nell’assenza di una sintassi di tipo tonale, alcuni criteri di enunciazione sintattica tradizionali, quali il periodare a coppie di termini corrispondenti, il principio dell’intensificazione progressiva (Steigerung), la successione solo/solo con accompagnamento.
La distinzione fra sintassi compositiva (come campo delle scelte morfologiche e sintattiche virtualmente possibili) e sintassi discorsiva (come campo delle scelte narrative effettivamente attuate nella catena temporale) è ricavata dai principii della semiotica narrativa definiti da Greimas in ambito letterario, e sembra in grado di offrire validi strumenti per una corretta ermeneutica degli effetti di senso in contesti musicali sia tonali sia non tonali.
La disamina sugli effetti di senso proposta nelle letture analitiche di Petersen su Mozart e Bartók, di Danuser su Varèse e del sottoscritto su Webern, porta a considerare in una prospettiva più ampia il tema del rapporto fra partitura e “testo d’ascolto” - peraltro già sviscerato nelle sue implicazioni storiografiche e fenomenologiche da Heinrich Besseler ne L’ascolto musicale nell’età moderna (1959) e Thomas Clifton in Music as Heard (1983) - suggerendone l’applicazione in musicologia nell’ambito della storia della composizione e della teoria musicale.


Ugo Piovano (Torino), Luigi Hugues e la letteratura didattica italiana per flauto nell’Ottocento

Luigi Hugues (Casale Monferrato 1836 - 1913) è stato uno dei principali flautisti italiani dei secolo scorso; tuttavia non esiste alcuno studio specifico sulla sua attività e sulla sua copiosa produzione.
Alcuni anni di ricerche mi hanno consentito di realizzare un primo catalogo abbastanza completo comprendente circa 150 composizioni edite e oltre 50 manoscritti di musica sacra (conservati nell’Archivio Capitolare del Duomo di Casale). La produzione flautistica, che supera da sola i cento brani, costituisce uno dei corpus più significativi nel panorama italiano dell’Ottocento per qualità e varietà. In particolare, si segnalano una cinquantina di composizioni originali (sonate. notturni, pezzi caratteristici e così via) e le sette raccolte didattiche: 24 Studi di perfezionamento op. 15, 30 Studi op. 32, 6 Grandi Studi brillanti op. 50, La scuola del flauto op. 51 (divisa in 4 Gradi), 40 Nuovi Studi op. 75, [40] Esercizi op. 101 e la Nuova Raccolta di Studi op. 143.

In questa prima fase della ricerca ho concentrato l’attenzione sulla produzione didattica, ponendola a confronto con le raccolte analoghe pubblicate in Italia nell’Ottocento. Dai cataloghi di Lucca, Ricordi e altri editori minori, emerge un campionario interessante, che mostra inizialmente la prevalenza degli autori francesi (con alle spalle la tradizione ormai consolidata del Conservatorio di Parigi) e, nella seconda metà del secolo, l’affermazione della scuola italiana con i vari Briccialdi, Ciardi, De Michelis, Galli, Gariboldi, Krakamp, Peichler, Rabboni e Romanino. L’analisi dettagliata delle numerose raccolte reperite nelle biblioteche di vari Conservatorii ha permesso di evidenziare la progressiva diffusione dello strumento, la sua continua evoluzione in termini costruttivi – si passa gradatamente dal flauto ad una chiave al nuovo sistema Böhm – e le notevoli conquiste tecniche esecutive.
Possiamo fare anche due osservazioni generali fondamentali: in primo luogo si nota la quasi totale assenza di studi “semplici”. Del resto, all’epoca, la formazione primaria avveniva quasi sempre nelle bande e nelle filarmoniche locali, con docenti polistrumentisti che scrivevano personalmente gli esercizi ed i brani da studiare. In secondo luogo, il materiale didattico si presenta quanto mai eterogeneo e, a volte, di dubbia classificazione. A fianco di alcuni metodi veri e propri, troviamo infatti maree di Studi, Esercizi, Preludi, Capricci ma anche Sonate, Duetti e Fantasie operistiche “facili” o di carattere “progressivo” che mostrano un’evidente valenza didattica.
La produzione di Hugues si segnala soprattutto per l’organicità, per il livello musicale e per l’indiscusso successo che la fece entrare immediatamente nei programmi di tutti i Conservatorii.
In conclusione, la relazione presenterà un catalogo abbastanza completo della produzione didattica italiana per flauto nell’Ottocento, esaminata da vari punti di vista (storico, organologico, analitico ed estetico) e penso possa costituire un contributo originale al settore, al momento piuttosto avaro di studi specifici.


Raffaele Pozzi (Bologna), Riflessioni sul “Traité de rythme, de couleur et d’ornithologie” di Olivier Messiaen

La pubblicazione da parte dell’editore Leduc del Traité de rythme, de couleur et d’ornithologie di Olivier Messiaen rappresenta un atteso avvenimento per lo studioso del Novecento musicale. Il trattato, che amplia e rielabora gli argomenti esposti nella nota Technique de mon language musical (1944) e nelle successive conférences tenute a Bruxelles (1958), a Notre-Dame di Parigi (1977) e a Kyoto (1985), raccoglie ed espone in sette tomi la produzione teorica di Messiaen nell’arco cronologico che va dal 1949 al 1992, anno della morte.
Nei cinque tomi finora pubblicati Messiaen sviluppa innanzitutto le speculazioni sul tempo e sul ritmo, che rappresentano un nodo fondamentale della sua poetica. È interessante notare come i riferimenti teorici, in una sintesi personale evidentemente orientata al comporre, prendano spunto dal pensiero tomistico per giungere ad inglobare la concezione dello spazio-tempo elaborata da Bergson e da Einstein.
Ulteriore elemento d’interesse dell’opera sono la pubblicazione di alcune analisi ed autoanalisi, che rivelano i contenuti dei corsi tenuti da Messiaen nel Conservatorio di Parigi. Le analisi riguardano, tra l’altro, il canto gregoriano, l’uso della metrica greca nel Printemps di Claude Le Jeune e di taluni procedimenti ritmici in Beethoven, in Mozart o nel Sacre du Printemps di Stravinskij; toccano infine opere del compositore, quali la Turangalîla-Symphonie o il Livre d’orgue.
Un terzo importante nucleo dell’opera è rappresentato dagli interessi naturalistici e ornitologici di un compositore che, come è noto, ha fatto uso di trascrizioni di canti degli uccelli nella propria opera. In conclusione il Traité di Messiaen si presenta come un contributo teorico dall’aspetto poliedrico e composito. Esso mostra una coerente sintonia con la sfera più propriamente creativa e musicale del compositore e si segnala come un corpus analitico-speculativo tra i più singolari del nostro tempo.


Massimo Raffa (Palermo), Macrostruttura e microstrutture negli “Harmonica” di Claudio Tolemeo: tra tecnicismo ed ‘enciclopedia’

La comunicazione si colloca nell’ambito della ricerca sul trattato tolemaico che costituisce l’argomento della mia tesi di dottorato – ricerca della quale ho già avuto modo di esporre un parziale risultato nel precedente colloquio del «Saggiatore musicale». Giunto quasi al termine dei lavoro, propongo stavolta non la lettura di un singolo passo, ma un tentativo di interpretazione generale della struttura argomentativa dell’opera. Dall’esame del livello macrostrutturale e dei livelli inferiori, condotto con il metodo dell’analisi tematica, emerge il quadro di un’opera concepita come un vero e proprio ciclo di lezioni, con tanto di unità didattiche ed esercitazioni, organizzata in modo che tutti i temi vengano toccati ciclicamente a livelli sempre più tecnici, per favorire nel contempo l’assimilazione e l’approfondimento delle dottrine proposte. In particolare, il livello microstrutturale evidenzia da una parte come i connettivi testuali abbiano la funzione di marcare le chiavi di volta della scansione argomentativa, dall’altra come l’autore si preoccupi di rendere il lettore costantemente partecipe della struttura stessa, attraverso l’uso di veri e propri ‘microsommari’ interni.
Lo studio della struttura è finalizzato all’individuazione del target dell’opera. Se è indubbio che i più diretti destinatari sono i futuri harmonikoi, come si può comprendere se si pensa alle notevoli competenze matematiche e/o geometriche richieste da molti passi, ritengo che non sia improbabile anche una destinazione più divulgativa, ‘enciclopedica’ (nel senso etimologico dell’enkyklios paideia). Infatti l’ultima sezione degli Harmonica, quella che prende in esame i legami tra micro e macrocosmo (armonia-anima, armonia-etica, armonia-sfere celesti), basata su analogie tra campi epistemici diversi, non chiama in causa le conoscenze più minuziosamente tecniche trasmesse in precedenza, ma piuttosto concetti generali e più semplici, che potrebbero essere alla portata anche di chi, meno ferrato nella matematica, si fosse fermato ai ‘microsommarii’ tralasciando le sezioni più ostiche. Il tutto va collocato, ritengo, nella generale tendenza della cultura del II secolo d.C. a proporsi come sistema epistemologicamente compatto, come costruzione enciclopedica. Non sarà inutile al proposito il confronto con Galeno, che praticamente negli stessi anni di Tolemeo vedeva nell’esercizio non necessariamente professionale delle technai un baluardo contro il deterioramento morale e culturale della società imperiale. Nell’epoca in cui nascono i grandi lessici (Polluce) e le opere di erudizione antiquaria (Ateneo), Tolemeo sembra concepire un analogo progetto di ‘costruzione’ dei mondo: nel suo caso, naturalmente, sub specie harmonica.


Donatella Righini (Firenze), Giovan Battista Bartoli: la genesi del “Primo libro de’ madrigali a cinque voci” e il tardo madrigale fiorentino

Oggetto di questa relazione è Il Primo Libro de' Madrigali a cinque voci di Giovan Battista Bartoli, uno degli ultimi protagonisti del madrigale fiorentino. Le ipotesi che formuliamo sulla genesi della sua opera sono strettamente relate alle recenti scoperte di dati biografici che consentono di calare il compositore nel contesto fiorentino nel quale egli ha operato. Di particolare importanza la scoperta della sua presenza – come diacono prima, come presbitero poi –nella Parrocchia di San Lorenzo, che aveva avuto rapporti con la stamperia Zanobi Pignoni, cioè la stessa presso la quale Bartoli pubblicò la sua raccolta di madrigali. San Lorenzo era anche la Parrocchia presso la quale operava allora come maestro di cappella Marco da Gagliano, con il quale certamente il Nostro avrà avuto contatti.


Angelo Rusconi (Bologna), «Cumas munivit dogmate»: culto dei santi e storia religiosa nella diocesi di Como

Quale anticipazione di un’iniziativa di studio e di edizione letteraria e musicale degli Uffici dei santi venerati nell’antica diocesi di Como, si propone una breve riflessione sui significati della componente agiologica nel calendario sacro comense, nei libri liturgici, nella devozione popolare locale. La questione è interessante nella prospettiva delle vicende storico-religiose di Como, che nel secolo VI, in seguito allo scisma antiromano dei Tre Capitoli, passò dalla giurisdizione ecclesiastica milanese a quella del Patriarcato di Aquileia (sotto la quale rimase per oltre un millennio), assumendo per il proprio rito la qualifica di ‘patriarcale’. Le figure più illustri nella storia religiosa di Como e Aquileia, e perfino certi personaggi attivi in prima persona nella controversia tricapitolina, trovano spazio, in diversa misura, nel culto locale: Abbondio, patrono di Como e protagonista nel concilio di Calcedonia (le cui deliberazioni sarebbero state calpestate dal concilio constantinopolitano II, a parere dei contestatori); Ermacora, protovescovo e patrono di Aquileia; Agrippino, consacrato vescovo di Como dal patriarca scismatico di Aquileia, Giovanni, e simbolo dell’inflessibile difesa del dogma patrum contro gli inaccettabili compromessi ‘politici’ fra papato e impero. L’indagine si avvale delle fonti liturgiche scritte, dei toponimi e dei tituli ecclesiastici, delle testimonianze iconografiche, delle tradizioni popolari sopravviventi o documentate; sottolinea il mutare della situazione nel corso del tempo, parallelamente all’evolversi della situazione storico-religiosa, e verifica le variazioni avvenute nel culto dopo la soppressione del Patriarcato (con il conseguente passaggio di Como all’arcidiocesi di Gorizia prima, alla primitiva metropolitana – Milano – poi).


Nicola Scaldaferri (Bologna), The Milman Parry Collection of Oral Tradition: nuove prospettive di studio a distanza di settant’anni

Presso la Parry Collection (Harvard University, Cambridge, Mass.) è custodita l’imponente mole dei materiali (in gran parte canti epici) registrati da Milman Parry e dal suo allievo Albert Lord negli anni ’30 nell’area balcanica, principalmente nella ex Yugoslavia.
Paradossalmente, le ricerche di Parry e Lord hanno sì aperto nuove strade nello studio delle relazioni tra oralità e scrittura (con esiti determinanti nell’ambito degli studi omerici e della poesia medievale), ma sono state oggetto di scarsissima attenzione da parte degli etnomusicologi; solo due studiosi (Bartók e Erdely) si sono infatti soffermati su alcuni degli aspetti musicali, documentati da Parry e Lord, a fronte della fitta schiera di quelli che si sono invece occupati della “poesia orale” (cioè dei testi verbali dei canti).
L’intervento intende illustrare i risultati di uno studio sulla Parry Collection nell’ambito del dottorato di ricerca in Musicologia. Innanzitutto i materiali della collezione hanno costituito il punto di partenza per uno studio in chiave diacronica della tradizione del canto epico da una prospettiva principalmente musicale; essi sono stati analizzati in parallelo con quelli raccolti negli ultimi anni nel corso della ricerca sul campo tra le popolazioni di etnia albanese. L’analisi non si è limitata agli aspetti strettamente musicali ma è stata estesa al contesto, in particolare alle questioni riguardanti l’identità etnica in quest’area. I materiali della collezione hanno inoltre permesso considerazioni più generali di carattere metodologico sui criteri di indagine e di analisi etnomusicologica.


Midori Sonoda (Tokyo), Compositori del Cinque e Seicento e percorsi dei componimenti poetici: a proposito di diciotto madrigali di Giaches de Wert

Nel Cinque e Seicento i compositori di madrigali attingono alle seguenti fonti: (1) poesia stampata in edizioni letterarie; (2) manoscritti (ricevuti dal poeta o da un intermediario); (3) testi di precedenti composizioni musicali. Diciotto dei 200 madrigali composti dal Wert sembrano esser stati musicati e pubblicati prima che ne apparisse la versione a stampa, quindi non possono risalire a fonti di tipo (1). Se la fonte di “O sonno” di Mons. Della Casa, sembra essere di tipo (3), per gli altri diciassette si può supporre la modalità (2), il che concorderebbe anche con i dati biografici del compositore. Si ritiene che questo tipo di ricerca, condotto anche per altri musicisti, possa contribuire al chiarimento dei rapporti tra compositori e poeti.


Cristiano Vavalà (Bologna), Dalle regole del contrappunto all’ingegneria della conoscenza e ritorno

La costruzione di un sistema artificiale in grado di simulare il comportamento di un esperto umano presuppone la possibilità di descrivere in termini espliciti e non ambigui ciò che è importante sapere sull’ambiente o dominio di competenza entro cui il sistema sarà chiamato ad agire. Questo lavoro prende il nome di ‘rappresentazione della conoscenza’ ed è oggetto di una ingegneria specifica. In un certo senso anche un trattato di teoria musicale è una ‘rappresentazione di una conoscenza’, l’oggettivazione di un sapere conservato – chissà come chissà dove – all’interno del nostro essere. Più propriamente, però, l’espressione si riferisce a un complesso di predicati (o sia formule che asseriscono qualcosa su qualche aspetto del mondo) la cui verità sia ‘calcolabile’, decidibile sulla base di una logica, e le cui implicazioni possano essere pertanto oggettivamente dimostrate.
In quest’intervento si mostra come ridurre in forma computabile alcune regole e concetti utili per ‘sopravvivere’ in un dominio musicale pur molto semplice come quello del contrappunto a due voci nota contro nota. Operazioni di questo tipo – sollecitate da tempo da una musicologia cognitiva che prometteva faville – ancorano la riflessione sulla musica ad un livello molto elementare, ma presentano alcuni pregi: anzitutto fanno apparire complesse (perché di fatto lo sono) cose che in genere si ritengono semplici; rendono immediatamente disponibili le implicazioni di ciò che si va predicando (il che è prezioso ad esempio per un teorico interessato a definire la grammatica d’uno stile musicale); infine, nella misura in cui riescono a coniugare lettura ragionamento e implementazione, costituiscono uno strumento didattico assai efficace, e perfettamente armonizzabile con gli indirizzi di una Storia della musica che voglia accendere nello studente l’interesse per i testi: se si pensa a quanta conoscenza c’è, già pronta per essere formalizzata, nei grandi capolavori della teoria musicale.


Laura Zattra (Padova), Il caso C.S.C., centro di ricerca e produzione musicale: parabola o deviazione?

All’interno del tanto discusso gap e/o connubio ‘musica + tecnologia = musica elettronica’, l’opportunità di indagare la parabola del C.S.C. (Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova) è diventata l’occasione per realizzare un’indagine globale sulla (più o meno riuscita) collaborazione tra ingegneri e compositori; più in generale, tra ambiente tecnologico-ingegneristico e istituzioni musicali; ancora più in generale, sulla possibilità di esistenza e legittimità di tale binomio (relativamente a Padova). L’iniziale entusiasmo di pochi ingegneri – nel ‘centro’ degli anni ’70 (verrà istituzionalizzato solo nel 1979) – per la sonic art e per la tecnologia digitale, l’ottica di una politica favorevole allo scambio di competenze – tra persone e tra istituzioni: l’Università, la Biennale di Venezia e altre –, le macchine e la grande quantità di memoria che calamitavano i compositori elettronici: se tutto ciò fece diventare il CSC, con un picco nella prima metà degli anni ’80, un centro noto a livello internazionale dove Nono, Donatoni, Stroppa (in tutto oltre quaranta compositori) lavorarono fianco a fianco con gli ingegneri per produrre alcune delle più importanti opere elettroniche sulla scena della musica contemporanea, nell’ultimo decennio tale politica ha subìto un radicale cambiamento, per non dire inversione. Le ultime attività padovane danno maggiore (quasi esclusivo) spazio alla ricerca sonologica, e la demografia del centro – alto numero di musicisti vs pochi tecnici – si è capovolta. La mia indagine rivela l’ascesa del centro fino agli anni ’80, ed esplora il complesso panorama (nuovo scenario dello home computing, relativo mutamento nei sistemi di composizione, spesso complicata conduzione delle politiche personali) entro il quale musica e informatica (fino al 1999) hanno divorziato.
Ciò emerge da una ricerca filologica e storica – basata su non-archivi (urgente problema dell’incoscienza storica di questo tipo di centri) – supportata da uno studio sociologico dell’atmosfera culturale in cui i fatti avevano luogo (interviste, stretto contatto con compositori italiani e stranieri, impressioni e considerazioni derivate dalla mia presenza costante nel centro per un anno). Il mio background musicale e umanistico ha fatto i conti con la mentalità ingegneristica (non solo nel campo del know how tecnologico, anche nella diversa coscienza dei fatti), cosicché il mio ruolo è stato di concept engineer: collocare eventi, storia dei momenti tecnologici, sostrato umano, in caselle, per poi raccontarle, tali caselle, cercando di disegnare la linea dei paradigmi scientifici e culturali.


Paolo Zavagna (Udine), Un particolare tipo di fonte nei repertorii musicali senza notazione: il documento sonoro come ‘testo’

Esistono numerosi repertorii musicali che sono privi di quella che tradizionalmente chiamiamo ‘partitura’. In questi repertorii, il problema di maggior rilievo nel reperire i documenti utili allo studio delle ‘musiche’ sta nell’individuare una o più fonti che possano dirsi filologicamente corrette, rispondano cioè a determinati criteri di autenticità.
Possiamo considerare ‘testi’ per lo studio di questi repertorii i documenti sonori consistenti nelle registrazioni delle produzioni, sia in un contesto di tradizione orale sia in un contesto in cui il compositore è anche esecutore delle proprie opere senza la mediazione di una partitura nel senso tradizionale del termine (esistono altre forme di ‘partitura’, che tuttavia non vengono ancora considerate ‘testi’).
I due principali generi interessati a questo problema sono la musica etnica (nel cui alveo possiamo far rientrare tutte le riprese musicali sul campo) e quella elettroacustica (che può comprendere anche certi fenomeni della musica leggera tipicamente ‘da studio’, come, ad esempio, il rock e il pop).
Di fronte a queste musiche, l’oggetto di studio non è più una testimonianza della ‘scrittura’ di un individuo, soggetta necessariamente ad una mediazione (l’interpretazione) per essere percepibile, ma la registrazione di un evento su un particolare supporto in un particolare formato, immediatamente diretta all’ascolto.
La corretta individuazione di questo tipo di fonti è subordinata alla conoscenza dei materiali e dei loro formati. Da un lato, i brani di musica ripresa sul campo presentano problemi relativi alla corretta interpretazione di determinati valori (altezza, timbro, durata), dall’altro, i brani di musica elettroacustica, particolarmente quelli prodotti negli anni ’40-’60, essendo il frutto di una serie di rielaborazioni di vario materiale sonoro, presentano inoltre problemi nell’identificazione delle diverse fonti che possono aver contribuito alla realizzazione dell’opera. In entrambi i casi la corretta ‘lettura’ e un eventuale ‘restauro’ sono elementi indispensabili ad una interpretazione non falsata e il più possibile vicina alla versione ‘originale’.


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